Sottomesso romano

racconti erotici gay shota

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    Marco, come altre volte, venne a prendermi a scuola con il suo vespino truccato. «Sali daje che oggi non avemo tempo da perde’». Una breve corsa per la periferia romana poi, imboccata una strada secondaria tutta sconnessa, arrivammo ad una piccola baracca mezzo diroccata. Nascosta la vespa dietro un muretto, «qui sinnò ne ritrovamo due, a ‘sto posto de merda», Marco mi trascinò davanti una porta sgangherata. «Ma cosa c’è qua?» gli chiesi spaventato «non me rompe i cojoni, statte bono, ce so io no? T’avevo detto… nun te ricordi?», «no, dai, andiamo via…» ma, proprio in quel momento, senza che nessuno di noi avesse bussato, un uomo in mutande e canottiera aprì la porta.

    In effetti, da qualche tempo Marco e il suo socio avevano cominciato a parlarmi, molto vagamente, di loro misteriosi amici, che avrei dovuto, prima o poi, conoscere. «So poracci, che lavorano allo sfascio de Alfredo…» mi diceva Marco mentre mi spingeva la testa sul suo uccello duro. «Che te devo da dì» insisteva Alfredo mentre era il suo turno, «sei un bravo ragazzo e te dai da fa pe’ noi, te sai tenè la cica in bocca, però…» e sentendo l’orgasmo arrivare «bono, fermo che sto a sburrà, ecco… ah, bravo, manna giù che te fa bene; puliscilo bene, daje, puttanella! Insomma, te dicevo, ce sarebbero de l’amici mia, gente fidata e per bene, ce mancherebbe… te piaceno sicuro!». Interrompendosi per tirarsi su le braghe «Da ‘na parte non vorrei, te bastamo noi due, er cazzo me pare che nun te manca, ma penso pure che c’è de male? E poi, insomma, è gente adulta, seria, gran lavoratori, ci hai tutto da imparà e faresti un’opera bona pe’ loro e pe’ me.» Mi avevano avvisato, certo, ma pensavo che la cosa fosse ancora lontana.

    Rocco, l’energumeno che ci aveva aperto, era un uomo maturo, sulla cinquantina, non altissimo, fisico magro e muscoloso, forgiato dal lavoro edile; esibiva spavaldamente il suo stomaco dilatato dalla birra, come un trofeo. Cercai di scappare ma Marco mi prese per un braccio e torcendolo mi fece entrare a forza nella baracca; Rocco richiuse rapidamente l’uscio, serrandolo con un grosso paletto. All’interno c’era poca luce, mi ci volle qualche secondo per abituarmi. Mi accorsi, infatti, solo dopo un po’ che, seduto infondo, su un divano sgangherato, c’era un altro uomo, Giuseppe, forse leggermente più giovane di Rocco.

    «Spojate dai, faje vede’ la merce a ‘sti amici» sbraitò nervoso Marco che aveva fretta di andarsene da quel “posto di merda” e, dato che tardavo ad ubbidire, mi mollò un ceffone in pieno viso, che mi convinse ad assecondarlo immediatamente. Mentre mi toglievo i vestiti, tra le bestemmie di Marco, Rocco e Giuseppe, avvicinatisi, presero a guardarmi con attenzione, con l’occhio di chi la sa lunga. Giuseppe ridacchiava con un ghigno minaccioso, mentre Rocco sembrava più comprensivo, come volesse giustificarsi, “purtroppo ho il cazzo duro, mi spiace, non vorrei ma ho bisogno”. Fu allora che, un po’ la rabbia, un po’ la vergogna di non avere il coraggio di reagire, persi il controllo e cominciai a piangere e singhiozzare senza riuscire a smetterla.

    «Lassa stà, purtalu via, nun ha vogghia!» mormorò in dialetto Rocco. «Ma che non c’ha voja, ‘sta troia» e mollatomi un altro ceffone «questo fa quello che dico io e poi… sto frocio non vede l’ora de fasse scopà da voiartri, nun è vero? Nun è vero?» e poiché mi stava strappando un orecchio «sì…» risposi smettendo di singhiozzare. «Allora levate le mutanne e mostra lu culu» disse all’improvviso Rocco, come fosse tutto sistemato, tra le risate degli altri due.

    «Questi so amici» continuò Marco con tono amichevole, tenendomi il braccio attorno al collo «lavorano pe’ Alfredo, ce lo sai, c’hanno solo bisogno de fasse na bella svotata de palle» e sghignazzando volgarmente «tutto qui, non perdemo artro tempo, e mo’, datte da fa. Daje, in ginocchio, faje vedè che sai fa! Forza, chi è er primo?». Giuseppe prese l’iniziativa, si avvicinò deciso verso di me, con ancora la sigaretta in bocca; e quando il suo pube fu difronte al mio viso si abbassò con cura i pantaloni e le mutande, fino alle ginocchia. Il cazzo era già duro, grosso, vissuto. Aprii la bocca senza fare un fiato, avendo capito subito la sua urgenza di eiaculare, e lui entrò dritto e prepotente. Prese a scoparmi la bocca, tenendomi la testa ferma ed andando su e giù col bacino a ritmo regolare. Questione di pochi secondi e sborrò con violenza, schizzandomi in gola il suo sperma caldo. «Mangia tuttu!» poi si tirò su le mutande e se ne tornò sul divano a finire la sigaretta. Subito si avvicinò Rocco, eccitato dalla scena «Ti ruppu u culu, bottana». Si tolse le mutande e le gettò a terra; «suga», provai a succhiarlo un po’ ma, anche lui, cominciò a muoversi energicamente, seguendo il suo piacere, e se ne venne rapidamente. E mentre si rimetteva le mutande, si avvicinò Marco «Già che ce semo famme svotà pure a me, daje.. rapido!» che ce l’aveva duro fin da quando eravamo in vespa. «Quando avete finito lo riaccompagnate col furgone» disse Marco mentre si tirava su la lampo dei pantaloni.

    «Non devi tenere paura di noi. Siamo boni cristi, hemmù famigghja. Stai un po’ qui poi ti riportiamo indietro… ok? Rimani tuttu tra nuatri. Non sta' a' penzieri non ti preoccupare… siamo abituati a farlo con chiddi com’uia» disse Rocco e presomi per un braccio mi portò dietro un separé di lamiera, dove c’era una branda matrimoniale con sopra un materasso sudicio. «Stai' buonu ca finiscemu prestu! Tranquillo! Più si bravu, prima finiscemu…» si sdraiò, si tolse anche la maglietta rimanendo nudo. Si fece leccare i capezzoli e le palle, mentre lentamente dovevo masturbarlo. Poi arrivò il momento di farlo sentire maschio «Se fa mali, finisciu, però resisti» il suo cazzo era grosso e duro come un sasso, doloroso, entrò a fatica, lentamente per circa tre quarti, poi improvvisamente lo sentii esplodere «firmu sta, bottana».

    «Bravo, scopi bene» disse mentre si rivestiva. Appena uscì entrò Giuseppe «facimi scupari». Mi spinse sul letto a testa in giù con forza e, mentre mi teneva come volesse strangolarmi, si abbassò i jeans e mi puntò la cappella dura sull’ano. Aiutato dallo sperma di Rocco mi penetrò rapidamente e, quando fu tutto dentro, cominciò a chiavarmi il culo con violenza, come fossi il suo peggior nemico. Le sue mani grosse e forti dal collo passarono sui miei fianchi, le unghie spaccate dal lavoro mi ferivano come artigli, mentre il suo cazzo entrava sempre più dentro di me. All’improvviso sentii i suoi testicoli pelosi schiacciarsi sulle mie natiche glabre, un verso animalesco, la saliva che colava sulla mia schiena. E quando cominciò a riempirmi ebbi un moto di sollievo. «Grazie» gli dissi sovrappensiero, «prego» rispose sfilandolo «mi servivu tantu».

    Mi fecero rientrare in sala, ancora nudo. Giuseppe mi tirò uno straccio sporco, «pulissiti bonu, lì c’è il secchio per lavarti» mi pulii come potei, mentre loro parlavano seri sul divano, fumando e bevendo vino nero del loro paese. «Posso rivestirmi?» chiesi timidamente «Aspettiamo nu poco prima di andari, magari ‘u voi ancuri. Assittate accà» mi disse Rocco, indicandomi la sedia di legno davanti al divano dove stavano bivaccando. «Sei nu bravo quaglione, l’abbiamo capito, e hai fatto duveri tuo… però, fainu troppu stori, nun u ni piaci! Idevi stare bonu, rispittannu. Buono, avere rispetto, anche se perdiamo u capu… tu diciamo nui quanno ti puoi rivestiri, non stai sempre a chiedere»

    «Lo so signor Rocco, deve scusarmi, è che era la prima volta con voi» risposi intimorito. Improvvisamente Giuseppe mi diede un ceffone «allura nun hai capitu? Un ti devi risponderi!» poi disse una cosa in dialetto stretto per non farsi capire. «Capisti? Giuseppe dice che aviri a fari qualcosa pe fà t'accumparrari, capisti? perdonare, hai capitu chi cumannà quii, caisti?»
    «Cosa? Non ho capito bene…» «Noi possiamo essere bravi cu tia, e anche no, nun è dittu. Dipende da tia. Tu hai a fare tutto bene e teniri a bocca chiusa, capito?» «A teniri aperta» seguitò Giuseppe «solo pe’ pijà o’ pisce, capito?». Poi uno alla volta, solo per darmi una lezione, si fecero un’altra svuotata di palle.

    Quando supplicai Alfredo che da quei due non mi ci mandasse più, lui fu molto chiaro. «Succhialo bene, puttana, statte zitto… da quelli ce devi annà. Che pretese der cazzo che ci hai? Chi cazzo credi da esse? So’ brava gente, stanno lontano de casa, ci hanno solo bisogno de divertisse un po’, ce lo sai no? Poi so amici mia, so omini d’onore e tu sei solo un frocetto viziato, gente così co le palle la devi rispettà, punto e basta… ah, bravo si, così, ah bravissimo… cazzo come li fai tu…» e tiratosi su le brache «che problema c’avresti poi co quei due?» «E’ che, insomma, mi fanno paura…» «Me l’ha detto Marco, te sei messo a piagne, che cazzo de figura, je avevo detto che eri una puttanella che non fa storie e invece? ‘Sto cojone! Però hanno detto che je piaciuto lo stesso, e se è pe la figura de merda che hai fatto pe’ quello nun te preoccupà. Ce devi da riannà… ma devi da esse più rispettoso li devi fa divertì» «La prego…» «Ma che te preghi! Nun me di che nun t’è piaciuto fatte sbatte da quei due maiali, daje. Mica sei più un verginello! Più cazzi pii e mejo è no? Devi imparà a pijacce gusto, apprezza!» Non ci fu nulla da fare. Una settimana dopo dovetti tornare al rifugio dei due calabresi. Mi scoparono tutto il pomeriggio e per alcuni giorni non potei mettermi seduto.

    Marco ed Alfredo li avevo conosciuti per caso. Marco, il più giovane, un uomo sulla quarantina, lavorava in uno degli sfasci di Alfredo come meccanico ed è lì che avevo portato un mio motorino. Lo avevo comprato di nascosto dai miei genitori e, portatolo da Marco, si era rivelato rubato. «Conviene fallo sparì» mi aveva detto «c’è ‘n amico che lo fa. Ma costa, sai il rischio…». Avevo accettato di fare un debito con lui, di pagarlo a poco a poco, ma la cifra non si estingueva mai e, avendo finito i miei pochi risparmi, lui si era fatto avanti. «Se po’ parlà cor titolare, vedemo, se non fai problemi e te sai tenè er cecio in bocca…»

    Ero arrivato allo sfascio col cuore in gola, non avendo ben compreso cosa volevano, completamente nel pallone. Dopo due chiacchiere amichevoli ed una canna molto forte si erano tirato fuori il cazzo ed avevano preso a menarselo lentamente. Mi guardavano ridendo, «Guarda che bestia! L’hai mai visto uno così?» diceva uno e l’altro «Intendemose, nun semo froci! Ma si capita un bravo regazzetto, che vo’ divertisse, perché no? Annamo daje!». Alfredo mi aveva portato nella stanzetta accanto e, abbassatosi i pantaloni, «daje, famme ‘na sega, vedemo se ce sai fa!» c’era voluto un po’ per farlo venire, si era un po’ trattenuto, se l’era goduta ma, alla fine, era esploso violentemente. Marco, invece, era durato pochissimo «era tanto che non me ne venivo…» quasi scusandosi.

    Era stato tutto tremendamente facile, lo avevo fatto senza provare nulla, senza la benché minima repulsione. «Ce sai fa’ me sembra» aveva detto Alfredo accendendosi la Marlboro, dopo che fummo rientrati nel suo ufficio. «Certo, ci hai tanto da imparà, ma si stai tranquillo e non rompi li cojoni, se po’ fa. Un segreto ra de noi. Tu fai la femminuccia pe’ un po’ de tempo e tutto finisce presto e bene». Naturalmente una sega non bastava a saldare il debito. «Armeno arte tre quattro vorte» mi disse Marco «er casino l’hai fatto tu e Arfredo è esigente, ce lo sai. Quella era solo una prova pe’ vede’ come te comporti.»

    «Non so quante vorte devi da venì, dipende» mi aveva detto Alfredo ridendo la seconda volta «ma come?» cercai di replicare. «Ecco» continuò «già hai sbajato. Nun devi parlà, devi ascoltà. Se parli e crei problemi me se ammoscia er cazzo, me rovini tutto e devi da venì qui arte cinque vorte». «Famo come ar solito?» disse Marco la terza volta «Sì» rispose Alfredo. Scattarono una decina di polaroid con i loro cazzi in mano o in bocca «si me fai rode er culo, queste vanno dappertutto, ce lo sai no?». Dopo un mese ero diventato la loro puttana. Due o tre volte a settimana dovevo essere a loro disposizione e quando provavo a lamentarmi «nu me pare che te dispiace» mi dicevano «lo devi solo accettare.»

    «Te devi abituà, devi cresce, capille certe cose» diceva Marco «questa è natura tu sei femmina e noi semo omini, ciavemo le nostre esigenze e li cazzi nostri e quanno se dovemo sfogà tu devi sta sotto, bono e senza fiatà, senza fa’ problemi, e devi pure fallo con amore, se no so cazzi tua». Alfredo, proseguendo «lo so che delle vorte ce scappa quarche sganassone pure se nun lo meriti, lo so; ma è pe’ ride un po’, pe insegnatte l’educazione, e perchè semo nervosi. Ce devi pija gusto a ste cose, te ce devi divertì, e stattene ar posto tuo. Presempio, se io mo’, puta caso, te ammollo du ceffoni» e subito partono gli schiaffi «tu, zitto, te abbassi le mutande» e visto che non ho capito ne arrivano altri due «ho detto tu te abbassi le mutande, chiedi scusa, e te metti a pecora» «Mi scusi!» rispondo e rapidamente mi tolgo gli slip e mi inginocchio «Bravo, così me piaci, e mo pe’ premio io te faccio sentì come me l’ha fatto venì duro, co du’ schiaffetti, senti?»

    Partiti i calabresi Alfredo prese a trovarmi dei clienti, il pomeriggio, allo sfascio. Uomini border line, con problemi con la giustizia, ex galeotti, camionisti, uomini tendenzialmente violenti che cercavano uno sfogo senza problemi. Avevo una paura fottuta a rimanere con loro, avrebbero potuto sopraffarmi come volevano, magari uccidermi; e, per questo, ogni volta davo il meglio di me stesso, quasi annullandomi, pur di non farli arrabbiare.

    «Sei un regazzo prudente, e fai bene» mi diceva Ugo, un camionista abusivo che spesso veniva allo sfascio per lasciare delle cose ad Alfredo. «Io questi li conosco bene, so delinquenti veri e credimi, nun te molleranno più. Quanno te dicono de pijallo in culo, tu fallo e basta, senza fa storie e te li fai amici, mejo pe’ te» e sbuffandomi il fumo della sigaretta in faccia «e mejo pure che lo fai bene, armeno semo tutti contenti, nisciuno reclama. Levate tutto, te vojo nudo» ed apertosi la chiusura lampo cercando di estrarre a fatica il cazzo, già duro «se no comunque te lo mettono ar culo ed oltretutto te li fai nemici e non se sa dove vai a finì e…» finalmente estratto «dai comincia a sugammello, fammelo arzà per bene, che oggi te faccio divertì, famo senza ci ho er permesso de Arfredo, te metto incinta.». E dopo aver finito la scopata «e poi, non me sembra che te dispiace fa la femmina, sei una gran troia, che problemi te fai. Qui te capiteno tutti maschi co le palle piene, che voi de più? Mo famme ‘na pompa va, che ci ho tempo.»

    «E’ che non basta fasse scopà» mi diceva un altro corriere, Pasquale «er cazzo lo devi rispettà, devi inchinatte ar maschio, e si ogni tanto te danno ‘na bella legnata, nun ce vedo nulla de strano, sei sempre un frocio, anzi, troppo boni so’ questi. Tu non lo poi capì, co’ quer cazzetto moscio che ci hai. Vedi quanno me lecchi i piedi quanto me diventa duro? E’ naturale, è giusto che lo devi fa. Più te tratto da merda e più me diventa duro e più ce l’ho duro più me diverto a mettetelo ar culo… Bravo così, hai capito.»

    «Ar culo te deve fa male, si è un cazzo come se deve, è normale che te fa male, si no finisce er divertimento. Vedi? Mo’ che me l’hai fatto venì duro io c’ho voja de fatte male, allarga bene… ecco così, e nun te lamentà, più te fa male e più devi da esse contento. Nun è una cattiveria è così che funziona; e poi ogni tanto c’avrò diritto de divertimme co’ ‘na troia, de faje male» diceva Omar, detto l’arabo per via del colore olivastro, e dopo averlo sfilato dal culo «succhiamelo va’, che ne vojo fa un’artra… succhiame le palle» e giù un paio di ceffoni «poi m’ha detto un uccellino che te piace esse pistato» e ridendo giù una granaiola sulle chiappe da rimanere senza fiato «Non te devi vergognà se te piace…». «Che se volessi poi, venghi da me e ci ho tre bestiole già abituate, so cani da combattimento. Prima ce veniva una puttanella come te, poi è sparita»
    «Mi scusi credo di non aver capito» «Che devi capì? Non ce gnente da capì, nun fa l’ingenuo. Pore bestie c’hanno diritto pure loro no? E’ semplice, venghi da me, te spoji e te metti a pecora. Poi fanno tutto loro, uno alla volta te riempiono come un otre. Quanno hanno finito se famo ‘na carbonara co un bel litrozzo rosso. Me fai ‘na pompa sotto ar tavolo e poi te rimetti a pecora e je fai fa un altro giro. Tutto qui»

    La cosa durò circa tre anni. Poi, il mio corpo si riempì di peli e si trovarono un’altra femmina.
     
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