La rosa del deserto

Racconto di: "Daniele Imperi"

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    Non posso pensare che con estremo rispetto delle lande di sabbia che ricoprono il suolo di pietra del Deserto di Kpanug, sulle cui dune multiformi più volte sostai, sfinito dalla marcia di miglia percorse e arso da un’insopportabile sete. Ero al tempo un giovane impavido e temerario e le disavventure che in precedenza avevo incontrato sulla mia strada a nulla erano valse, poiché ero sempre pronto a rialzarmi da ogni caduta e a continuare, nonostante i disagi e gli imprevisti, il fine che avevo scelto come traguardo da raggiungere. Affrontai pericoli d’ogni sorta durante i miei lunghi e interminabili viaggi; visitai il Nord Europa e assaggiai il suo freddo polare e da lì mi spinsi fino in Siberia, perseguitato dal gelo e animato da un intimo orgoglio che ottundeva il buonsenso. Proseguii il mio cammino senza meta fino ad addentrarmi nel paesaggio esotico dell’India, navigai per l’Oceano sotto il sole cocente e la notte stellata e toccai il mistero dell’Africa nera e selvaggia, ripudiando quella prigione che noi solitamente denominiamo civiltà. Furono incalcolabili le meraviglie che conobbi e il fascino che suscitarono in me mi pervase d’una forza istintiva che non potevo - né volevo - reprimere o domare. Feci ritorno nel mio paese dopo molti anni, appagato da tutto quell’enorme bagaglio d’esperienza che col tempo avevo acquisito, soddisfatto delle immagini e delle visioni mirabili di cui i miei occhi chiari si nutrirono, ipnotizzato dai suoni estranei di melodiche armonie che si persero nell’aria silenziosa e che, ora, ancora posso udire echeggianti nei meandri delle mie orecchie. Ma, fra tutte le bellezze che saziarono la mia incolmabile curiosità, una si distinse per la sublime eleganza della forma e per la luce intensa dei toni multicolori e per il mistero ch’era annidato nella natura della sua creazione. Parlo della Rosa del Deserto.

    Forse mai fiore fu tanto caro e gradito all’uomo quanto quello che cresceva fra le dune pietrificate delle pianure di sabbia e al contempo esso fu a tal punto rinnegato dagli dei oscuri, per essere divenuto oggetto di perdizione, da far sì che scomparisse dal deserto come essere vivente e continuasse a vivervi come roccia.
    Le tribù nomadi che attraversarono la regione di Kpanug restarono ammaliate dalla stupefacente visione delle rose dai mille colori che fiorivano sotto i duri e spietati raggi del sole di mezzogiorno. Ne osservarono con crescente amore i petali spessi simili a foglie di cactus e gli steli irti di spine sottili e le foglie esili e opache che offrivano un profumo mai avvertito prima. Ne erano sempre più attratte, ma un amaro destino decretò l’insediamento di due popolazioni, che presto impararono a sopportare l’opprimente calura delle dune e vi impiantarono villaggi ove vissero per anni delle coltivazioni e del commercio delle ricercate rose del deserto. Vennero genti lontane, dalla carnagione pallida e diafana, uomini dalla pelle coriacea e dalla folta barba, mercanti dall’aspetto rude e ambiguo, che guidavano carovane trainate da strani animali da soma. In breve tempo fu dimenticato il valore profondo dell’esistenza, fu sepolto il rispetto per ciò che era sacro e inviolabile e una sorta di febbre s’impossessò di quanti toccarono i petali delle rose e d’altro non si visse se non dell’unico pensarvi.
    E fu allora - e giustamente, a mio modo di credere - che l’ira degli dei bui s’abbatté come una tempesta di sabbia sulle dune fossili di Kpanug e ogni traccia del dissacratorio passaggio dell’uomo fu per sempre cancellata. Gorghi s’aprirono sulla sabbia a inghiottire nelle abissali profondità del deserto villaggi e uomini e la vita fu perennemente estinta nei luoghi ove fu compiuto l’atto blasfemo. Rimasero le rose, i fiori che condussero il cuore e l’animo umani oltre il limite insuperabile del vizio e della corruzione. Fu l’ultimo bagno di luce meridiana di cui ad esse fu dato godere, poiché il furore divino non poteva risparmiare nulla di ciò ch’era stato motivo d’offesa e d’insulto. Tuttavia, non fu decretata la totale distruzione di quelle preziose creazioni, ché a ognuno è noto quanto fossero uniche e d’incomparabile splendore, e ancor più lo è a coloro che ne permisero la nascita. Infine fu intessuto un incantesimo e nella tenebrosa notte che seguì s’attuò una metamorfosi e al sopraggiungere dell’alba il sole lasciò cadere i suoi raggi non più sui fiori dai petali di cactus ma su boccioli rosati d’immutabile aspetto, privi dello stelo e delle spine e del profumo. Qualcuno li chiamò i fiori di pietra e non ne attribuì più valore che a un comune sasso.
    Ma io tornai molte volte nel Deserto di Kpanug e ancora oggi mi diletto a ricercare in ogni anfratto quelle rarità cristalline che tutti conobbero sotto il nome di rosa del deserto e di cui io soltanto conosco la leggenda.


    Daniele Imperi
     
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