Cacciatori di Nuvole

Un racconto fantastico di: (Daniele Imperi)

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    Stava ancora salutando i viaggiatori celesti delle caravelle sparite oltre i tetti di Roma, quando un bambino gli tirò la giacca, ridestandolo dal limbo d’incredulità in cui stava fluttuando. Davanti a sé vedeva ancora i misteriosi naviganti del cielo apparsi dal nulla in quella mattina estiva, gente venuta dallo spazio, da chissà dove, forse dai sogni stessi. Si domandò chi altri, oltre lui, avesse visto le caravelle sorvolare l’urbe. Si domandò se le avesse vedute davvero. Di nuovo il bambino gli tirò la giacca, questa volta più insistente. Carlo Forti si voltò, abbassò lo sguardo e sorrise.

    «Chi saluti?», chiese il piccolo.

    Era vestito con un paio di pantaloni a zompafosso, scarpe sdrucite, una maglia a mezze maniche sbiadita. Sul viso vispo, di chi è abituato alla vita di strada, Carlo lesse curiosità.

    «Hai già mangiato?», gli domandò.

    Il bambino scosse la testa.

    «Vieni con me, allora», disse Carlo. «Forse conosci il Caffè della Pace.»

    «Sì, ci passo sempre davanti, ma quei taccagni non sganciano mai niente.»

    L’uomo scoppiò a ridere. «Hai ragione, mio caro amico. Questa volta però uno di loro ti offrirà una bella colazione.»

    «Chi salutavi?», chiese ancora il bambino.

    «E tu come ti chiami?»

    «T’ho chiesto prima io.»

    «È vero», concordò l’uomo, «tocca a me rispondere per primo.» Carlo ripensò all’avventura di quella mattina: la corsa per le strade della città inseguendo caravelle volanti. Nessuno, ne era sicuro, aveva visto quel fenomeno.

    «T’ha mangiato la lingua il gatto?»

    «No, piccolo», rispose l’uomo. «È che è un po’ difficile spiegarlo.»

    «Erano amici tuoi, no?»

    «No, non lo erano, a dire il vero.»

    «E allora perché li salutavi?»

    Carlo guardò il bambino. Innocenza svezzata prematuramente sulle strade sudicie di Roma, un ladruncolo al soldo di bande di giovani, a loro volta agli ordini di un magnaccia, forse un vecchio delle borgate che sbarcava il lunario come poteva.

    «Facciamo così», propose l’uomo, «ti racconto tutto davanti a un bel cappuccino con la pasta più grande che hai sognato.»

    «Voglio un maritozzo con la panna!»

    «Vada per il maritozzo», accettò Carlo, sorridendo. «E magari ti leggo anche una storia che mi son divertito a scrivere.»

    «Fai lo scrittore? A me non mi piacciono mica i libri.»

    «Scrivo, ogni tanto», rispose Carlo. «Ti leggerò la Storia dell’Uomo col Saio e dello Stercorario, una delle fiabe de Le Mille e una Notte che ho immaginato io.»

    E uomo e bambino, improbabili padre e figlio, si mescolarono alla fiumana di passeggianti che da via dei Giubbonari sfociava nel baccano di Piazza Navona.

    Le caravelle dei viaggiatori dello spazio erano un ricordo destinato a riaffiorare nella mente di Carlo Forti.

    Un racconto che non è un racconto
    Roma, inverno 1894. Tre anni dopo.



    Mario Barzini finì di leggere e ripose il manoscritto nella busta. Si tolse gli occhiali, si massaggiò la fronte, tornò a guardare Carlo Forti.

    «No», disse.

    L’uomo non s’era aspettato quel rifiuto così secco. «Che cosa… che cosa non le è piaciuto della storia?», chiese.

    «Beh», rispose Barzini mettendosi più comodo sulla poltrona, «intanto non è una storia, signor Forti. Né una notizia di cronaca. Dunque, che cosa è?»

    «Un resoconto, forse un po’ romanzato, ma è il resoconto d’un fatto occorso tre anni fa.»

    «Un fatto, dice lei.»

    «Sì, esatto.»

    «Caravelle volanti sui cieli di Roma. Un titolo sensazionalistico, davvero, signor Forti, gliene do atto. Ma sa cosa mi ricorda? The Balloon Hoax di quello scrittore americano, Poe. L’ha letto?»

    «Non ho ancora avuto il piacere.»

    «Lo faccia, allora», lo esortò Barzini, «perché troverà delle analogie con quanto ha scritto.»

    «La beffa del pallone, giusto?»

    «Sì, traduzione corretta», rispose Barzini. «Una beffa, come la sua. Mi dispiace, signor Forti, ma il nostro giornale non può permettersi di perdere lettori né di far scoppiare uno scandalo per aver pubblicato il resoconto di un presunto avvistamento di caravelle volanti. Ho proprio qui con me», Barzini indicò una busta gialla con una grossa T scarabocchiata a matita, «un racconto di un giovane autore, La mappa del cielo, che parla di un fantastico mondo sulle nuvole. Ma è appunto un racconto, signor Forti, finzione. Capisce, vero?»

    «Capisco, signor Barzini», rispose Carlo, «ma io le ho viste davvero.»

    «Può sempre leggere questa storia fantastica al suo figliastro, non trova?» Barzini ignorò volutamente l’affermazione di Carlo.

    «È mio figlio. L’ho adottato.»

    «Già», sorrise Barzini. «Un ladruncolo di borgata ripulito. Ma questi sono affar suoi.»

    «Appunto, sono affari miei», disse Carlo con fermezza.

    Uscì dall’ufficio senza salutare, la busta del manoscritto stretta in mano. Fuori, il centro di Roma era sferzato dal vento invernale. Il cielo si stava annuvolando e Carlo Forti sperò di scorgere fra le nubi cariche d’acqua le caravelle avvistate tre anni prima. O perfino quel mondo immaginario di cui aveva parlato Barzini.

    Ma non c’era nessuno lassù, i giramondo delle stelle andati chissà dove, svaniti nel nulla. Mentre rincasava si chiese per l’ennesima volta se li avesse veduti davvero.

    I giramondo delle stelle
    Saranno le nuvole a guidare noi girovaghi senza patria lungo le strade del cielo.

    «Scivolavano come piume sulle correnti d’aria, gli scafi che brillavano alla luce del giorno filtrata dal tessuto delle nubi. Venivano da lontano, oltre le barriere della coscienza, là dove la vita pullula in realtà interconnesse. Noi, quaggiù a osservarli come ebeti, possiamo solo immaginare cosa si nasconda oltre i confini del cielo, al di là degli stratocumuli e delle ultime frange dell’atmosfera. Ma loro, i viaggiatori celesti senza nome, sanno di noi e della nostra vita e di quanto ci affanniamo senza arrivare mai alla vera meta.» Carlo Forti poggiò il manoscritto sulle ginocchia e guardò suo figlio.

    «E dove andavano?», chiese il ragazzino.

    Carlo sorrise. «Non lo so, Luigino. Li ho persi di vista, spariti oltre i palazzi. E non li ho mai più rivisti.»

    «A quello del giornale non gli è piaciuta la storia che hai scritto?»

    «No», rispose l’uomo. «Speravo la pubblicasse. Ho impiegato tre anni per fare ricerche su quelle caravelle, ma ho trovato soltanto accenni che non solo non provano nulla, ma neanche sono riconducibili al fenomeno cui ho assistito.»

    «Se vuoi, gli buco le gomme», propose Luigino.

    L’uomo rise. «Non ce n’è bisogno, figliolo. E m’avevi promesso da tempo che con quella vita avevi chiuso, te lo ricordi?»

    Luigino alzò le spalle. «Mica era la stessa vita di prima, gli bucavo solo le gomme.»

    ***

    Tre anni prima, ma anche in un giorno che non è un giorno.



    Le caravelle scivolavano verso Nephos quel mattino presto sulla zona del pianeta blu che stavano sorvolando. Rotta tracciata da una norna seguendo simboli imparati a memoria e mai divulgati. Sulla mappa del cielo la donna aveva segnato il percorso verso la loro meta, affidando al nostromo il destino delle quattro caravelle e delle genti che trasportavano. Quando vide Yrjö avvicinarsi, sputò in terra, poi s’accovacciò, tirò su la veste e urinò sulla tolda.

    «Non c’è più bianco», disse in un soffio.

    «Che dici, Eija?»

    «Non c’è più bianco! Avverti il nostromo, stupido marinaio.»

    «Hai sentito il Camminatore?»

    «Non c’è. Sta giocando con la merda. Avverti il nostromo, ho detto!»

    Yrjö le lanciò uno sguardo accigliato e fece dietrofront, bestemmiando la genia delle norne e di tutte le creature del bosco e dei fiumi. Nella sua mente maledisse quelle forme inconsistenti eppur solide come roccia, una a una nell’ordine in cui il Caos le aveva create.

    Prima di entrare nella cabina del nostromo volle accertarsi del pericolo. Si affacciò dal ponte e guardò giù, dove a distanza imprecisata ferveva una vita sconosciuta. Vide campi coltivati e rovine di civiltà cadute, vide una città ed edifici inconsueti dalle forme bizzarre, vide genti indaffarate in chissà cosa che vestivano abiti indescrivibili. Fogge estranee, com’era logico aspettarsi, pensò l’uomo.

    Raggiunse la cabina di Miikka e bussò, entrando.

    «Ci hanno visto, nostromo.»

    L’uomo guardò in basso e, attraverso l’oblò, decine di metri più giù, vide una massa caotica di gente camminare su strade di ciottoli e carrozze e vetture a motore scorrazzare come insetti infastiditi. Scosse la testa, disgustato. Come faranno a vivere a quel modo?, si chiese, mentre scorgeva un’anziana avvedersi della loro presenza e cadere svenuta.

    «È solo una donna d’età avanzata», disse.

    L’aeronauta si accigliò, osservando anch’egli la scena. «E che mi dici dell’uomo che ci sta correndo dietro?»

    Il nostromo tornò a guardare. Un uomo correva facendosi largo tra la folla, il naso in su verso il cielo e la flotta di caravelle che sorvolavano quella strana città. «Dici che riuscirà a raggiungerci, Yrjö?», disse sorridendo Miikka.

    «Dico che ci ha visto e parlerà.»

    «La copertura di vapore?»

    «Non ha funzionato, a quanto pare.»

    «Eija?»

    «M’ha detto di chiamarti.»

    «Resta al timone, vado da lei.»

    Dall’oblò Yrjö vide l’uomo fermarsi e salutarli con la mano. Fu tentato di rispondere, ma restò fermo, finché la caravella oltrepassò alcuni edifici e dell’uomo non vide più neanche l’ombra.

    Una fotografia di un luogo che non è
    «C’è aria di pioggia, là fuori. Ma ho paura che non sarà acqua quella che verrà giù.» Prof. Matthew Hoy Fort, in un giorno senza tempo di qualche secolo addietro.

    Lo sguardo severo del Feldmaresciallo sembrava osservare i tram e le auto andare e venire per via Nazionale. Fermo al numero 196, sul marciapiede opposto al Palazzo delle Esposizioni, in attesa del contatto. Che non sarebbe mai giunto, ma Helmuth Karl Bernhard von Moltke non poteva saperlo, lì in divisa in un luogo e in un tempo non ancora definiti.

    Mentre la osservava, il Camminatore si chiese chi avesse scattato quella fotografia. Il Feldmaresciallo – che non avrebbe dovuto essere a Roma – aveva un plico in mano, una busta con sigillo. Una busta gialla, che nel bianco e nero dell’immagine non emergeva, ma l’uomo la conosceva bene.

    Perché era sua. E per una grossa T segnata a matita.

    Ma il Feldmaresciallo Moltke era stato ritratto a quel numero 196. Peccato che quel civico, nella realtà – anche se il Camminatore si domandò quale fosse la reale realtà di tutto – non esistesse se non su un palazzo di fronte. La fotografia non rispecchiava il giusto flusso della numerazione stradale. Un anarchico capriccio del fotografo? No, si disse l’uomo, a quell’epoca la fotografia era agli albori, nessuno pensava a manipolazioni digitali di sorta. Dunque cosa era successo esattamente? Perché il militare si trovava in una strada dai civici errati? Non avrebbe dovuto essere in Germania per varare quell’aeronave segreta? Quella che partì alla ricerca dei relitti di mondi vaganti nel cielo. La Nefeide.

    E, soprattutto, che fine aveva fatto la sua busta, la busta che conteneva la mappa del cielo, quella che aveva consegnato al ragazzo il giorno prima?

    Doveva tornare, si disse il Camminatore. Cercare Tuure e sapere cos’era accaduto nel frattempo.

    Il frattempo.

    Ecco, pensò l’uomo, la pioggia che quel buffo professore aveva teorizzato stava davvero per abbattersi sul tutto?

    Storia dell’Uomo col Saio e dello Stercorario
    «Dovete sapere, Sire, che in un tempo lontano e in luoghi sconosciuti, prima ancora che la Cina del Khan e i Regni dei Savi tirassero le fila del mondo, prima ancora del Vostro Regno, c’era un mondo fatto di rovine e villaggi, di ponti sospesi e profonde vallate in cui fiumi turchese scorrevano lungo alvei dai fondali ricchi d’oro. Erano chiamate le Terre, un nome che voleva indicarne e ribadirne l’infinita estensione. Non v’erano confini, né mura, né bastioni. La gente percorreva strade di ciottoli a dorso d’un mulo e i contadini ringraziavano il sole e lanciavano preghiere a strane pietre sorrette da pietre più piccole.

    «Nessun Signore comandava vassalli, nessuna legge regolava il comportamento. Erano Terre libere, ma erano anche Terre piene di pericoli. Il più forte aveva sempre ragione del più debole.

    «È in questo mondo, che a noi appare così lontano e perduto, che visse il ragazzo detto lo Stercorario.»

    «Che strano nome!», l’interruppe il Sultano. «Non fatico a indovinare il mestiere di quel giovane.»

    «Avete ragione, Sire», rispose Sherazad. «Era un ragazzo di quattordici, quindici anni forse, neanche lui ricordava quando fosse nato, ma allora non esisteva il computo dei giorni. Si chiamava Tuure e seguiva il branco di un uomo a nome Santeri. Il mondo si divideva fra Stanziali e Randagi, i primi radicati in villaggi di rovine, gli altri sempre nomadi, anime vaganti lungo piste mai segnate.

    «Una vita monotona, fatta di baratti e piccole battaglie, finché lo Stercorario non incontrò l’Uomo col Saio e il destino del mondo mutò.»

    ***

    Secondo giorno di Luna nuova.



    Ecco, c’è ancora tutto ‘sto buio qui che, te lo dico, a me mi mette paura addosso, peggio del diavolo della macchia. Che ci fai con quello? È solo un cinghiale, Esa ci fa i prosciutti affumicati al miele di fiume e me ne dà sempre un pezzo che mi mangio davanti alla tenda quando mi riposo. Ma quando la Luna si spegne, allora qui in campagna cambia tutto, non è mica come prima. I cani abbaiano più forte e una volta ho sentito pure un lupo che gli rispondeva. Esa dice sempre che se ne prende uno, mi fa un paio di guanti, ma ero ancora piccolo quando me l’ha detto la prima volta e mica ci credo tanto che vuole farmeli. Ma non fa niente, tanto c’è Santeri che ci dà quelli di capra quando arriva il freddo.

    Martti adesso mi guarda che scrivo e sorride con le finestre aperte su quella bocca sfasciata. Gli dico sempre, per prenderlo in giro, perché lascia le finestre spalancate ché adesso non è più estate e lui ride con quel sorriso sdentato e la bava giallastra che gli scende dal labbro storto. Poi sputa, si fa un’altra risata e si mette a sonnecchiare appoggiato all’albero. Martti è vecchio, ma nessuno se lo ricorda quanti anni ha. Una volta era il capo di questo branco, prima che arrivava Santeri a rubargli il posto. Però è stato lui a impararmi a leggere e scrivere e così io mi diverto e scrivo tutto quello che succede, mi racconto la mia vita nel branco e i miei amici.

    «Che scrivi sempre, spala-merda?» Iisakki me lo chiede ogni volta che mi vede con la matita in mano. Lui è solo geloso, te lo dico, che Martti m’ha soffiato un pezzo della sua vita e io adesso sono un po’ Tuure e un po’ Martti e lui invece è sempre Iisakki più stupido di un cavallo nano. Ma a me non mi frega, io continuo a scrivere e magari capita pure che un giorno qualcuno legge queste storie del branco di Santeri e del nostro viaggio sulle piste non segnate.

    Ma adesso voglio raccontare quello che m’è successo proprio ieri e che non ho ancora detto a Santeri, perché lui dice sempre di stare attenti a quella gente, che non si fida, che vengono da chissà dove, dalle stelle, come dice lui. Quando fa scuro, prima che mettiamo le tende al campo, Onni guarda sempre su nel cielo, poi fa un segno sul terreno, un altro in aria e dice ok. Sai che ti dico? Che io mica ci credo tanto a questa storia dei segni.

    Allora io me ne tornavo al campo, non era ancora buio, però le ombre s’erano fatte belle lunghe per terra e sentivo gli uccelli che urlavano in mezzo alle foglie. Non le vedevo ancora le tende, ma lo sapevo che stavano vicine. Ecco, a un certo punto quello mi si para davanti, ma io mica l’avevo visto arrivare e manco l’avevo sentito. Da dove spuntava? Me lo ritrovo davanti e a momenti gli finisco addosso. Era uno di quelli col saio.

    Io non l’ho mai scritto, ma gli Uomini col Saio qui sono quasi una leggenda, non lo dico mica per qualcosa, però è vero. Insomma me lo vedo davanti e mi prende un colpo.

    «Tu sei Tuure, del Branco di Santeri», mi fa, ma mica me l’aveva chiesto, te lo dico, l’aveva detto e basta. Lo sapeva e mica ci capisco niente, lo sai? Che ne sapeva chi ero io?

    Ora, gli Uomini col Saio hanno una specie di veste nera addosso, con un cappuccio che quando se lo tirano su non gli vedi mica la faccia e portano strane scarpe che non sono di pelle come le nostre, sono alte, nere, sembrano fatte di quella roba che stava sulle ruote dei vecchi carri di metallo che si vedono in giro tutti arrugginiti. Sulla schiena hanno una specie di bastone, ma non capisci se è una spada o che. La vecchia Janika li chiama la Gente che Cammina e dice che non se ne vanno mica in giro sulle piste non segnate, te lo dico, ma su nel cielo, per le stelle. Gli ho chiesto che voleva dire e come faceva uno a camminare per le stelle e Janika mi ha risposto che il giorno della mescolanza è vicino, ormai. Janika è vecchia e come tutti i vecchi è pazza.

    Insomma quello mi conosceva e allora io gli ho fatto: «E tu come fai a saperlo? M’hai orecchiato?»

    S’è messo a ridere. Secondo me ‘sta Gente che Cammina orecchia, Santeri manda sempre Aappo a orecchiare nei villaggi e lui torna con un sacco di notizie buone così noi possiamo scendere la notte a rubare uova, galline e qualche attrezzo.

    «No», mi fa quello, «io vedo oltre.» Poi s’è infilato una mano sotto la veste e allora io ho tirato fuori il mio coltello e quello è scoppiato a ridere un’altra volta. ‘Sta Gente che Cammina se n’andrà pure in giro per le stelle, ma a me mi pare che ride sempre senza motivo. «Ho solo un regalo per te», mi fa, e tira fuori una cosa gialla di carta. Mi dice che però non la devo aprire, ché contiene una cosa importante, e non devo farla vedere a nessuno, manco a Santeri. Io allora gli dico che va bene, che Tuure è uno che mantiene la cosa detta. Prendo la matita e ci disegno su una bella T di Tuure, così adesso la busta è mia, c’ho messo il marchio, e la ficco nella bisaccia.

    Ecco, poi è successa una cosa strana. L’Uomo col Saio ha guardato su nel cielo, s’è fatto serio serio e m’ha detto che doveva andare. «Torno presto», ha detto, «a riprendere la busta. Se passi da quella parte, farai prima a tornare al campo.» Manco ho fatto a tempo a girarmi a guardare che quello era già sparito.

    Ho camminato un po’ per vedere dove s’era cacciato, ma non c’era più. Però non ho guardato su nel cielo, ché avevo paura di vedermelo volare in mezzo alle nuvole, e me ne sono tornato dagli altri. Quella notte mica ho dormito, te lo dico, c’avevo un sacco di cose da pensare.

    Due sere dopo l’Uomo col Saio è tornato e giuro sulla Seida che quel giorno me lo ricordo finché campo.

    Questa però ve la racconto un’altra volta. Santeri c’ha riunito tutti, dice che ci sarà battaglia, giù alla Valle Pietrosa, che il villaggio di Heino ci paga bene per aiutarli contro quello di Manne. Allora Onni ha fatto altri segni su nel cielo e in terra, ha borbottato qualcosa davanti alla Seida e poi ha detto ok.

    E io me ne vado a dormire, adesso. Domani c’alziamo prima del sole e se spalerò altra merda significa che è andato tutto bene.

    L’avventura di Peder
    Dove vanno a finire le persone che cadono oltre il margine del tuo mondo? – Nove gradi di libertà, David Mitchell.

    Vi rivedrò mai, amici miei? Pål, Turid, vi saluto agitando la mano su questo relitto di un mondo estraneo e lontano. Siamo trasportati da un’inerzia siderale verso mete di vapore, laggiù, oltre l’orlo dell’atmosfera. Posso appena dirvi, prima di svanire fra le nubi, di aver trovato la risposta al quesito che da anni m’angustiava.

    Non è tutta qui la nostra vita.

    Il salto dalla sporgenza dell’Egeberg, così improvviso, irreale, è stato un salto risolutivo. L’inizio di un’avventura che non ha nome, come so non avrà fine.

    Dietro di me c’è vita. Ho lanciato uno sguardo istantaneo alle città aliene che si ergono su questa meteora, alle loro geometrie inusuali, alle architetture inesatte, alle genti che l’abitano – potrà mai la mia immaginazione riuscire a descriverne l’anatomia, seppur simile, forse troppo, a noi umani? –, alle fogge dei loro abiti. Cos’è tutto questo? Da dove vengono questi relitti di mondi vaganti? E perché uno di questi ha deviato per accogliermi?

    Siamo uno stormo di isole fluttuanti nel cielo che s’abbuia. Siamo pionieri astrali in rotta verso terre oniriche.

    E io son qui, assaporo l’ignoto che mi avvolge nel suo abbraccio e spero, in questo giorno che so essere senza tempo, che quest’ignoto non si sveli sovente.

    Quando il tempo non è più e tutto si congiunge
    «E alla fine che gli è successo al ragazzo?» Erano seduti al Caffè della Pace. Fuori il chiasso delle strade sembrava lontano mentre gustavano la colazione e Carlo raccontava al ragazzino la storia che aveva scritto.

    «Tuure? Ha incontrato di nuovo quell’uomo», rispose.

    «Quello che cammina sulle stelle?»

    «Sì, qualche tempo dopo. Ma devo ancora scrivere quella storia.»

    «Ma come faceva a camminare sulle stelle?»

    «Non camminava sulle stelle, ma nell’universo. Lassù, vedi?» Carlo indicò il cielo. «Immaginalo di notte, quando è pieno di puntini luminosi, le stelle. Il Camminatore se ne va a spasso nello spazio infinito.»

    «Io mi sa che non ci credo mica che uno cammina lassù.»

    Carlo rise. «Neanche io, sta’ tranquillo. È solo una storia inventata.»

    Finirono di mangiare e uscirono in strada. Carlo guardò ancora nel cielo, la vaga speranza che le caravelle apparissero ancora, ma non vide nulla. «Hai programmi, per oggi?», chiese al ragazzino. «A parte le tue scorribande per Roma, che non sono così… igieniche.»

    Luigino alzò le spalle.

    «Bene, allora farò io programmi per tutti e due.»

    E uomo e bambino, come fossero padre e figlio, si allontanarono dal locale, verso nuove strade e nuove identità.

    ***

    Miikka raggiunse la vecchia nella sua cabina. Un puzzo ammorbante di urina e pelle sudicia lo colpì, anche se era convinto di averci fatto l’abitudine. Dentro regnava il Caos dei primi giorni e il nostromo faticò a capire quale fosse l’arredamento originale.

    «Parla, Eija», ordinò.

    «Il bianco è andato. Ci ha visto.»

    «Lo so, ma è soltanto un uomo. E non sarà creduto.»

    La vecchia esplose in una risata sdentata e rauca. «Scriverà», disse spalancando gli occhi cisposi. «Scriverà la storia del tempo.»

    Miikka si fece pensieroso. «Possiamo fermarlo», disse, più a se stesso che alla norna.

    «Tu, piccolo nostromo, chi sei a decidere il destino del tempo?»

    «Devo portare la flotta a Nephos, Eija», rispose. «Lo sai.»

    «È la mescolanza», sputò la donna. «Nephos è distante, cacciatore di nuvole. Non puoi sfuggire alla mescolanza.»

    Miikka abbandonò la cabina e raggiunse Yrjö al timone.

    «Che ha detto la matta?», chiese l’aeronauta.

    «Che dobbiamo continuare a cacciare», rispose il nostromo. «Le nuvole sono ancora lontane.»

    ***

    Il Camminatore osservò di nuovo la fotografia. C’era un particolare che gli sfuggiva in quella scena della Roma di tanti secoli prima, ma non riusciva a capire quale. Il civico era sbagliato, quindi non era la stessa Roma che vide Crispi come Presidente del Consiglio.

    Dunque, quale versione di Roma stava vedendo in quella vecchia immagine?

    Una realtà è fatta di scenari e personaggi.

    Ricordò la frase del professor Fort. Scenari e personaggi. Lo scenario era chiaro e il Camminatore aveva individuato il dettaglio fuori posto. Mancava dunque il personaggio. Il Feldmaresciallo Moltke.

    Tornò a osservare meglio la fotografia. In quella realtà von Moltke aveva i baffi, ma questo era un particolare trascurabile. Passò ad analizzare la divisa. Sembrava identica a quella dell’esercito prussiano, se non fosse per quella decorazione che non aveva mai visto.

    Il Camminatore ingrandì l’immagine, ne alterò la risoluzione e… vide.

    Il Feldmaresciallo Helmuth Karl Bernhard von Moltke non era stato decorato.

    Aveva il marchio dell’Appartenenza.

    La pioggia ipotizzata da quel buffo professore, capì ora il Camminatore, aveva già iniziato a cadere.

    ***

    «Questa notte, Sire, vi narrerò la Storia della Mappa del Cielo, che fa seguito a quella dell’Uomo col Saio e dello Stercorario», disse Sherazad.

    «Ero giusto curioso di conoscere cosa fosse accaduto a quel giovane.»

    «Ora lo saprete, Sire», disse la donna. «Ma i segreti della mappa del cielo sono ancor ben lungi dall’esser svelati.»

    Sherazad iniziò a raccontare.

    ***

    Quarto giorno di Luna nuova.



    La battaglia di Valle Pietrosa è finita stamattina presto. Ma, te lo dico, io mica la chiamo battaglia, sai? Anche Iisakki, che è più stupido di un cavallo nano, dice che a lui gli è sembrata una pisciata di capra.

    Con Santeri quella mattina siamo andati al villaggio di Heino e poi tutti insieme nella valle dove ci aspettava quello di Manne. Erano tutti pronti per combattere, li vedevo, con la pelle imbrattata di tutti i colori e le ossa al collo e le armi pronte. Ma appena c’hanno visto non sapevano più che fare. Quando incontri i Randagi mica scherzi, sai? Ti caghi addosso, te lo dico. Io faccio le latrine al campo, le pulisco, però sono sempre un randagio che se ne va in giro per le Terre sulle piste non segnate, mica lo sapevano loro quello che faccio.

    Allora Manne s’è avvicinato e ha salutato Heino e intanto guardava noi, che c’aveva paura che gli saltavamo addosso e li facevamo a pezzi. È stato Santeri che ha sistemato tutto. S’è avvicinato pure lui, ha salutato Manne e ha detto che aveva sete. E lo dovevate vedere quello com’era contento che era finita a cinghiale arrosto e birra.

    Così siamo andati tutti al suo villaggio e lui ha dato ordini di qui e di là e vedevo la gente che correva impazzita a cercare la legna e a prendere la carne e le botti di birra. E eravamo tutti soddisfatti perché si mangiava fino alla mattina dopo e la notte, te lo dico, finisce sempre che ti ritrovi a dormire con una che manco sai chi è e come c’è finita mezza nuda vicino a te. Però ti svegli contento perché magari hai lasciato un randagio dentro una stanziale e questo per noi è come segnare il territorio.

    E adesso devo raccontare di quando ho incontrato ancora l’Uomo col Saio.

    Avevamo appena finito di preparare il campo e così io me ne sono andato un po’ in giro, ché mi piace starmene solo. Iisakki dice che puzzo di merda e è meglio che me ne sto lontano, ma prima o poi gli ficco la testa nella latrina e allora vedi come la smette.

    Avevo deciso di tornare alle tende quando ho sentito un rumore, così ho pensato che era ancora una volta l’Uomo col Saio, però mi pareva strano, perché quelli non fanno mai rumore, ti arrivano davanti che tu manco li vedi.

    E infatti non era lui, era un altro. Ecco, io non avevo mai visto uno vestito come quello lì. Aveva un cappello di ferro con una punta sopra, portava i baffi, che poi non li porta più nessuno, è roba antica, e guardava la mia bisaccia. Allora io tiro fuori il coltello e quello fa una cosa strana. Io non lo so mica che è successo, so solo che ho visto che tirava fuori una cosa di ferro e poi ho sentito un rumore, ho visto le fiamme e il braccio mi bruciava come se c’avessi infilato un tizzone dentro.

    Il coltello m’è cascato e sono cascato pure io. Quello allora m’ha preso la bisaccia, l’ha aperta e s’è messo a frugare dentro. Gli ho urlato che gli cavavo gli occhi e poi lo impiccavo con le sue budella, ma quello manco mi sentiva, stava lì che frugava e alla fine ha preso la busta gialla, quella che non dovevo aprire. Poi mi ha guardato e m’ha sorriso, ha detto una cosa che non ho capito e se n’è andato via.

    La sera Janika m’ha messo un impiastro sul braccio e l’ha bendato e Onni ha fatto altri segni in cielo e in terra e poi ha detto ok. Santeri ha mandato Pekka, Joni e Torsti a cercare lo straniero e quelli hanno trovato le tracce, ma hanno detto che a un certo punto finivano e non si sapeva più dove continuavano. Janika allora ha detto che quello era uno dell’Appartenenza, che stava per cadere una pioggia diversa da tutte le altre e che la mescolanza era ormai iniziata. Ma Janika è matta.

    Quando dormivo ho sentito qualcuno che mi tappava la bocca con la mano e allora ho cercato il coltello, ché sicuro era arrivato Iisakki a farmi uno scherzo. Ma poi una voce ha detto «Sono io, non fare rumore» e l’ho riconosciuto.

    Era l’Uomo col Saio.

    Ce ne siamo andati fuori dal campo e io avevo una paura addosso che manco te lo immagini. Era buio pesto, ma quello ci vedeva bene e andava sicuro. Ci siamo seduti su un tronco caduto e lui allora mi guarda il braccio e dice «Ti fa male?»

    Io avevo paura a dirgli della busta, così ho fatto di no con la testa, ma non l’ho guardato in faccia. E così lui mi fa «So della busta, non preoccuparti. Non avresti potuto fare nulla per evitarlo» e allora io mi sono sentito bene e ho fatto di sì con la testa. Avevo perso la parola quella sera.

    «Dimmi solo che direzione ha preso», m’ha chiesto poi.

    E allora io gli ho detto che Pekka, Joni e Torsti hanno visto le tracce che sparivano sulla collina e quello dice che lo sapeva. Che stava là a orecchiare? Ma non gliel’ho chiesto, ché c’avevo troppa vergogna per la busta.

    Poi mi dice di tornare a dormire, ché presto ci sarebbe stato qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Io allora faccio per chiedergli che significa e davanti a me non c’era più nessuno.

    Te lo dico, io ancora oggi mica ho capito che è successo. Però l’Uomo col Saio aveva ragione, perché qualcosa è cambiato.

    Una luna dopo abbiamo trovato uno straniero ferito e quello era vestito ancora più strano del primo.

    Ma anche questa storia ve la racconto un’altra volta. Esa m’ha promesso un cosciotto affumicato al miele e io adesso ho fame.

    ***

    Pensieri. Ma non parole, piuttosto scene. Come sogni che scorrono nella mia mente e danno conoscenza. Ecco come comunica questa gente, gli abitanti dei relitti di altri mondi alla deriva nel cielo. Sono in viaggio, partiti da distanze astrali e diretti a un nuovo mondo, che dicono essere lassù, fra le nuvole.

    M’è difficile capire a cosa si riferiscano. Le immagini che trasmettono nella mia mente so essere tradotte, ché in questa loro realtà nulla è terrestre. Nulla assimilabile al conosciuto.

    C’è silenzio. I suoni sembrano non esistere. Vorrei che Turid fosse qui, così amante della musica cosa proverebbe in un mondo afono? È come avvertire il nulla sonico. Che indescrivibile situazione!

    Il tempo scorre in un fluire di sensazioni nuove. Cammino per strade disposte su più livelli, osservando sagome irreali e così distanti dalle mie concezioni. Rinasco a ogni sguardo. La gente di questo relitto incontrandomi m’invia immagini di benvenuto. Non sono uno straniero in terra straniera, ma un nuovo compagno di viaggio. Com’è irreale tutto ciò.

    Da quanto sono qui?, mi chiedo e nessuna risposta mi giunge. Ho provato a domandarlo ai miei nuovi amici e li ho sentiti confusi. Che il tempo non esista, qui? Come viene calcolato il computo dei giorni, come il trascorrere dei secoli? Un realtà fatta di spazio, un teatro di scene e personaggi ad atto unico, eterno e della durata di un attimo al contempo.

    Avverto concitazione. C’è un continuo scambio di immagini nelle nostre menti, una connessione che ci permette di conoscere lo stato degli altri, che ci fa sentire vicini, mai soli. Tutti e uno insieme. Come atomi che tengano unita la materia.

    Li vedo osservare il cielo. Nuvole scorrono senza meta, trascinate dal vento. Giù, mi domando, cosa accade nel mio pianeta? Ma non ho tempo per trovare una risposta. L’agitazione giunge al parossismo. Sento la testa esplodermi per la quantità di informazioni che ogni atomo del relitto fluttuante mi invia.

    Pericolo.

    Viene dall’alto, è chiaro, ma non ne capisco l’origine. Sento il terrore espandersi fra le mie controparti. E vedo appendici indicare lassù, dove una macchia nera, oblunga, appare in trasparenza sotto il velo di vapore di una nube.

    Aguzzo la vista, attendo. Poi la forma si fa chiara, distinguibile. Nota.

    Emerge dalle nuvole, sovrastando il relitto e le sue città, le sue genti, i suoi sogni.

    Un’aeronave.

    Mi chiedo perché quella paura si sia impossessata dei miei amici, perché fuggano tutti verso rifugi sicuri.

    Il dirigibile è sopra di noi. Posso vedere il volto del capitano, la sua divisa che sembra ricordare quella dell’esercito prussiano. E leggo il nome della nave volante.

    Nefeide.

    Infine tutto s’oscura e ciò che accade poi è troppo doloroso per esser ricordato.
     
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