Polaroid, di Lars Klevberg

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    Due ragazze, Sarah e Linda, ritrovano uno scatolone contenente vecchi oggetti e ricordi della madre di una di loro e tra questi vi è una fotocamera Polaroid. Linda fa una foto all'amica per provare l'apparecchio, ancora perfettamente funzionante: qualche minuto più tardi, rimasta sola, Sarah nota che nella diapositiva sviluppata compare una figura in ombra alle sue spalle. Dopo aver sentito dei rumori provenienti dalla soffitta va a controllare e viene uccisa da un'entità di origine sconosciuta.
    Nel presente filmico conosciamo invece la studentessa Bird Fitcher, affetta da problemi di autostima per via di una profonda cicatrice sul collo e reduce da una tragedia familiare nel suo passato; la giovane lavora in un negozio di antiquariato e il suo collega Tyler le porta la stessa macchina Polaroid del prologo, acquistata a un mercatino dell'usato. Quest'ultimo insiste affinché Bird gli scatti una foto per testarne la funzionalità.
    La sera stessa la protagonista viene invitata dalla sua migliore amica Kasey a una festa in costume e, nonostante l'iniziale reticenza, accetta: giunta al party, con la Polaroid in borsa, decide di immortalare alcuni dei suoi compagni (fra cui la stessa Kasey e Connor, il ragazzo che le piace) in una fotografia di gruppo.
    Negli stessi minuti Tyler, prossimo a chiudere il negozio, è attaccato dall'entità che lo uccide. Quando un'altra studentessa scompare in circostanze misteriose, Bird comprende come la camera sia la causa di tutto e, insieme ai suoi amici ora in pericolo di vita perché presenti in un'immagine scattata, cerca di scoprire il mistero che si cela dietro la maledizione.
    Ritorno alla luce

    Rimasto in stasi per un lungo periodo a causa della bancarotta della Weinstein Company, l'horror Polaroid vede finalmente la luce delle sale: trasposizione in forma di lungometraggio dell'omonimo corto diretto nel 2015 dal norvegese Lars Klevberg, prossimo regista del reboot de La bambola assassina (2019), il film guarda al passato non tanto nelle scelte stilistiche ma bensì nella scelta dell'oggetto che dà il via alla maledizione, questa invece tipica del filone moderno. La mitica macchina fotografica che stampava istantaneamente le diapositive, con cui chi ha superato i trent'anni avrà sicuramente avuto a che fare durante la sua infanzia, è infatti l'elemento scatenante dell'ora e mezza di visione.
    Dopo un prologo che cita a mani basse l'omologo del The Ring americano, con due ragazze alle prese con la scoperta dell'antico gingillo e la relativa apparizione mortifera dello spiritico babau, l'operazione si adagia sul classico svolgimento del filone, tra le indagini della protagonista e la scia di sangue che continua a mietere vittime in attesa dei colpi di scena che rivoluzionano per due volte, tramite flashback non collimanti, le basi narrative all'origine dell'oscuro flagello.
    Foto-copia?

    Così come nello Shutter (2004) thailandese e nel relativo, anonimo, remake hollywoodiana Ombre del passato (2008), sono ancora una volta le fotografie a determinare il destino dei personaggi: una manciata di spunti interessanti è relativa all'ordine degli scatti, che cambia anche la "tabella di marcia" del vendicativo spirito, e al fatto che quanto accada alle diapositive coinvolga direttamente anche i corpi delle persone ivi ritratte. Ma queste soluzioni solo parzialmente originali non bastano a infondere la corretta personalità a un'operazione che si abbandona senza troppa inventiva agli stereotipi abituali del genere, dove la paura stessa è telefonata. Luci che si spengono, lenzuola, manichini e ombre in lontananza preannunciano già in anticipo i successivi jump-scare, così da negare del tutto l'evento sorpresa, la pressante oscurità nella quale è ambientata la maggior parte delle scene rendono la ricerca di sopravvivenza dei protagonisti una sorta di battaglia contro i mulini a vento, apparentemente persa in partenza.
    Le caratterizzazioni dei ragazzi al centro della vicenda non brillano per perspicacia e l'epilogo che vorrebbe chiudersi (ma in realtà si apre potenzialmente a ulteriori sequel conferma la natura derivativa di un film che punta al massimo incasso con il minimo sforzo.
     
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