Noi, recensione dell' horror/thriller di Jordan Peele

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    California, giorni nostri: la famiglia Wilson - i coniugi Gabe (Winston Duke) e Adelaide (Lupita Nyong'o) e i figli Zora (Shahadi Wright Joseph) e Jason (Evan Alex) - va in vacanza nella solita casa estiva. Gabe propone di passare una giornata sulla spiaggia di Santa Cruz insieme agli amici Josh e Kitty (Tim Heidecker e Elizabeth Moss) e Adelaide accetta dopo un'esitazione iniziale, dato che quel luogo è legato a un trauma d'infanzia.
    Più tardi, la sera, il quartetto viene preso di mira da un'altra famiglia, i cui membri sono fisicamente identici a loro. Chi sono? Da dove vengono? Come si concluderà la loro lunga notte che si annuncia terrificante?
    Dr. Jordan e Mr. Peele


    Per anni Jordan Peele è stato metà del duo comico Key & Peele insieme all'amico Keegan-Michael Key, dando alla sketch comedy americana delle annate da antologia grazie a un apposito programma su Comedy Central (tra le chicche da recuperare assolutamente ci sono tutti gli sketch in cui Peele interpreta Barack Obama e Key il suo "traduttore della rabbia" Luther). Poi, all'inizio del 2017, c'è stata la svolta con l'uscita di Get Out, folgorante esordio registico con il quale il neo-cineasta ha dimostrato di avere una grande sintonia con il genere horror, veicolato in quella sede in ottica sociale con una riflessione a metà tra esilarante e agghiacciante sulle forme più insidiose del razzismo nell'America di oggi. Un successo strepitoso con tanto di Oscar per la sceneggiatura, ma non senza episodi buffi come quello dei Golden Globes, dove il film era candidato nella categoria delle commedie (il che spinse Peele a commentare su Twitter "È un documentario", mentre nei giorni scorsi ha ironizzato sull'esistenza di un'attrazione da parco divertimenti basata sul film, dicendo "Si chiama America"), o l'insistenza di molta stampa a parlarne come se non fosse un horror, esibendo quello snobismo che ancora caratterizza una parte dei giudizi sul cinema del brivido.
    Nasce in parte da lì l'impulso di tornare dietro la macchina da presa con il nuovo film Noi, un lungometraggio sul quale dovrebbe esserci poca confusione: questo è un horror duro e puro, spietato, inquietante. Non senza qualche punta di ironia (l'apparato musicale è all'origine della gag più bella e al contempo terrificante), ma nel complesso, rispetto a due anni fa, difficilmente si uscirà dalla sala sorridenti.


    Una nazione in crisi


    Il film si chiama Us, "noi", nel senso che noi stessi siamo il nostro peggiore nemico, ma assomiglia anche a US, l'abbreviazione di United States. Un paese allo sbando, come dice anche la citazione biblica a cui allude la sequenza iniziale: "Perciò, così parla l'Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò" (Geremia 11:11). Peele non menziona apertamente nessun partito politico e nemmeno l'anno in cui si svolgono gli eventi (laddove in Get Out il padre di Rose se ne usciva con "Avrei votato per Obama una terza volta, se fosse stato possibile"), ma è difficile non pensare a una sottile condanna del sistema americano odierno, in mano a un presidente le cui idee nazionaliste e xenofobe godono, paradossalmente, del sostegno degli evangelici. Non ci sono muri, per lo meno non nel senso tradizionale, e il Messico viene menzionato solo a mo' di battuta; persino la scelta di avere nel ruolo centrale una famiglia di colore è completamente spoglia di intenti allegorici, ma in mezzo a cotanta apoliticità c'è comunque una forte carica politica.
    I sosia sono, a modo loro, degli emarginati, e se esiste una forza superiore nel mondo concepito da Peele l'unica certezza è questa: non dà retta a nessuno. Non ci resta che fuggire, disperati, ma anche la fuga ha un sapore effimero, poiché i cattivi siamo noi: che si tratti dell'America di Trump, dell'Inghilterra ai tempi della Brexit o dell'Italia salviniana, sono tutti frutti delle scelte del popolo.
    Quando Adelaide chiede "Chi siete?", la sua doppelganger risponde "Siamo americani." Sono, in un certo senso, l'incarnazione delle nostre scelte sbagliate, una sorta di karma umano armato di forbici, al centro della home invasion più malata degli ultimi anni.


    Due interpretazioni al prezzo di una
    Ciascun attore interpreta due ruoli: la persona normale e la sua "ombra", talvolta con connotazioni simboliche per i nomi (il patriarca della seconda famiglia Wilson si chiama Abraham). È un concetto che Peele aveva già esplorato nella sua opera prima tramite il comportamento ambivalente della famiglia Armitage, ma in questa sede lo sdoppiamento è letterale, con due performance distinte poste fianco a fianco, in un gioco preciso di simmetrie e coreografie che si trasforma progressivamente in una danza macabra che non ha nulla da invidiare al Suspiria di Luca Guadagnino.


    Una danza nella quale è invischiata soprattutto Lupita Nyong'o, qui alle prese con la sua (doppia) parte più impegnativa dai tempi della consacrazione con 12 anni schiavo: alla materna e umana Adelaide si contrappone la quasi robotica e spettrale Red, l'altra faccia di una medaglia che a livello fisico e vocale (chi può vada a vedere il film in lingua originale) domina tutta la pellicola con un misto di tangibile carisma e innaturale, terrificante grazia.
    Una doppia persona (nell'accezione originale latina) che rappresenta il duplice mondo, lontano dal nostro ma al contempo spaventosamente vicino, ideato dal regista. E proprio lui, a scanso di equivoci, ci ha tenuto a ribadire su Twitter quello che alcuni vorranno forse negare: Noi è un film horror.
    Un grandissimo, preciso, folle, disturbante horror. E quando si riaccendono le luci noi siamo ancora lì, attoniti e increduli, in procinto di lasciare la dimensione parallela in cui ci aveva avvolti il buio della sala per tornare in una realtà che, a conti fatti, potrebbe fare anche di questo film un crudele, beffardo documentario.

    Noi Jordan Peele torna al cinema di genere con un'opera seconda ancora più lucida e inquietante del suo esordio. Accantonando (in parte e in apparenza) la carica politica e sociale, questa volta firma un horror allo stato brado, elegante e brutale, intelligente e spietato. Insieme alla figlia Wilson sentiamo sulla nostra pelle le sevizie fisiche e mentali che riempiono le quasi due ore del lungometraggio, e usciamo dalla sala provati ma anche, seppure in modo diverso rispetto all'ultima volta, estasiati.
     
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