Seppuku: Storia e immagini della “Morte Onorevole” di un Samurai

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    Uno dei tratti caratterizzanti della cultura giapponese è la difesa dell’onore personale, valore che portato alle estreme conseguenze poteva indurre al suicidio rituale, il seppuku, o (nella lingua parlata) harakiri.

    Illustrazione del 1850 circa

    Questa pratica secolare in uso tra i samurai è passata alla storia come uno dei modi più dolorosi per porre fine alla propria vita, un rituale codificato da rigide regole che prevedeva il taglio del ventre con un pugnale, il “tanto”: la lama doveva essere conficcata nel lato sinistro dell’addome, poi tirata verso destra e infine verso l’alto.

    Fotografia colorata e forse modificata – 1890 circa

    Seguendo il codice Bushido, che dettava le regole dell’onore, un samurai avrebbe praticato il seppuku per evitare di essere fatto prigioniero, o come punizione per aver infranto il sacro codice.

    Foto del 1880 circa

    Fino al 17° secolo la morte, lenta e dolorosa, avveniva per dissanguamento, poi il rituale fu cambiato, aggiungendo la figura del kaishakunin, o “secondo”, che aveva il compito di tagliare la testa del samurai, per accelerare la morte.

    Prima di togliersi la vita, il samurai doveva scrivere il suo “poema di morte”, nel quale venivano descritte le sue emozioni, senza menzionare direttamente la morte.

    Fotografia del 1895 circa

    Il seppuku fu praticato in Giappone abitualmente almeno fino alla seconda metà del 19° secolo, quando molte delle antiche tradizioni furono abbandonate, spazzate via dall’avvento di una società più moderna.

    Sotto, il generale Akashi Gidayu si prepara al seppuku dopo aver perso una battaglia nel 1582. Ha scritto il suo ultimo poema, visibile nel dipinto.

    Fino al 1800 il Giappone non aveva avuto molti contatti con il mondo occidentale, se non per gli occasionali scambi commerciali con gli olandesi, e con i loro vicini cinesi. Quando europei ed americani irruppero nella vita del paese, sempre per motivi di tipo economico, la cultura giapponese cominciò a perdere alcuni dei suoi valori fondamentali. In questo periodo il governo iniziò a praticare delle riforme, accolte non favorevolmente dalla classe di samurai.

    Illustrazione del 1815/1818 circa

    L’uccisione degli stranieri per mano dei samurai, ed anche di coloro che facevano affari con loro, non era un evento raro: quando l’imperatore Kōmei, nel 1863 ordinò di “espellere tutti i barbari” (gli occidentali), i fieri guerrieri giapponesi lo fecero volentieri usando le loro katana.

    Illustrazione del 1804 circa

    Nel 1868 ci fu un incidente diplomatico, quando alcuni samurai uccisero undici inermi marinai mercantili francesi, che si trovavano nella città costiera di Sakai. Il console francese, Léon Roches, pretese che i responsabili fossero giustiziati, e per essere certo che la sentenza fosse eseguita, mandò uno dei sui ufficiali ad assistervi. Il capitano Bergasse du Petit-Thouars si aspettava di presenziare ad una fucilazione, o forse ad una decapitazione, ma vide invece i 20 samurai eseguire, uno ad uno, il seppuku: ogni guerriero si tagliava il ventre, e poi, per abbreviare le sue sofferenze, veniva decapitato da un samurai amico, prescelto per questo compito. Il rituale era troppo sconvolgente per il capitano francese, che fermò l’esecuzione dopo aver assistito a undici suicidi.

    Un samurai si suicida per non essere catturato dai nemici – Immagine del 1856

    Obbligare i samurai al seppuku non costituì un deterrente per fermare le uccisioni degli occidentali, tanto che alla fine fu emanato un decreto imperiale in cui si proclamava che tutti i samurai che avessero assassinato uno straniero sarebbero stati spogliati del loro rango, e puniti di conseguenza. Ciò significava che non avrebbero potuto porre fine onorevolmente alla loro vita, praticando il seppuku.

    Ricostruzione di un suicidio rituale giapponese (Seppuku) (1897).

    Il suicidio rituale tornò ad essere usato abbastanza di frequente durate la seconda guerra mondiale, perché gli ufficiali giapponesi non concepivano la resa al nemico, e preferivano uccidersi con i loro pugnali.

    Yukio Mishima, scrittore dagli ideali patriottici nazionalisti, il 25 novembre 1970 occupò gli uffici del Ministero della Difesa, insieme a quattro membri della sua associazione. Affacciato ad un balcone, esaltò lo spirito del Giappone, inneggiando all’imperatore, e condannando l’occidentalizzazione del suo paese. Al termine del discorso, si tolse la vita con il tradizionale seppuku. Masakatsu Morita, l’amico che doveva dargli il colpo di grazia, per due volte tentò di assolvere all’ingrato compito, sbagliando. Dopo che lo scrittore fu liberato dalle sue sofferenze da un altro compagno, Morita decise di morire a sua volta, per la vergogna.

    Il judoka giapponese Isao Inokuma, il secondo da sinistra, vinse la medaglia d’oro alle olimpiadi del 1964. E’ probabilmente l’ultima persona ad aver scelto il seppuku, nel 2001, dopo il fallimento della propria azienda.

    Nel rituale del suicidio, la scelta dell’arma rappresentava un importante particolare. Il pugnale tantō era lo strumento “ufficiale”, anche se sovente, sopratutto nei pressi del campo di battaglia, veniva usata una wakizashi (guardiano dell’onore), arma che veniva posseduta di diritto soltanto dai Samurai.

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