Il sudore del cavallo

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    Avevo tre anni quando mio padre decise di “assentarsi momentaneamente per lavoro” – così si dice ai figli piccoli quando muore il padre – e mia madre rispettò la prassi. Cercò di nascondere ai miei occhi lacrime e disperazione, ma il cambiamento repentino che avvenne nella nostra vita ci catapultò in pochi mesi verso la ricerca disperata della sopravvivenza.

    Mia madre era una donna bellissima, capelli neri, occhi verdi e fisico da soubrette, aveva trent’anni quando rimase vedova, con una figlia di tre anni, in un paesino di cinquemila anime sperduto tra le colline di una regione del sud dimenticata da tutti. Si era sposata a ventisette anni, col pancione, dopo un fidanzamento che durava da dieci, da quando aveva conosciuto quel ragazzone dalla carnagione scura coi capelli ricci e neri come la pece, lo stesso colore degli occhi. Così ricordo mio padre, un uomo enorme che quando mi prendeva in braccio per farmi il solletico mi faceva ridere fino al singhiozzo. Quando trovò un lavoro stabile in città col primo stipendio aveva comprato gli anelli nuziali e sposato mia madre incinta di sei mesi. Faceva il muratore in un cantiere edile e morì cadendo da una impalcatura. Una di quelle morti anonime per il mondo ma che cambiano la vita di chi rimane in vita, fino a provocarne la morte.
    Mia madre non lavorava. Figurarsi una donna che lavora in un mondo dove è già difficile lavorare per i maschi.
    I maschi!
    Sono entrati subito nella mia vita, come iene fameliche hanno annusato l’odore della carne fresca di bambina e si sono precipitati sulla preda per dilaniarne anima e corpo.

    Ci trovammo dopo due mesi sfrattati da casa ed il parroco ci offrì la sua carità cristiana ospitandoci in una casupola adiacente la parrocchia di proprietà della curia. La mamma si arrangiò con piccoli lavoretti saltuari di ogni genere, dalla cameriera all’infermiera alla badante a ore, mentre io rimanevo al sicuro, oggetto delle cure e dell’attenzione di Don Filippo. Mi coccolava, mi insegnava le preghiere, mi riempiva di caramelle, mi teneva in braccio stretta stretta per proteggermi dal diavolo. Ero al sicuro nelle sue mani che mi accarezzavano. Mi voleva molto bene e mi raccontava tante fiabe mentre stavo seduta sulle sue gambe.

    C’era un giochino che mi divertiva molto e Don Filippo me lo riproponeva ad ogni occasione: io stavo a cavalcioni sulle sue gambe e lui mi spingeva il corpo all’indietro sorreggendomi per le mani, ridevo quando lui faceva finta di lasciarmi cadere e mi aggrappavo con le gambette ai suoi fianchi stringendomi forte forte. Da lì spesso si passava al cavalluccio e Don Filippo mi faceva sobbalzare su e giù mentre diceva: “Dai Maria cavalca veloce, dobbiamo fuggire dal diavolo che c’insegue”, e mi stringeva più forte per non farmi cadere da cavallo, poi alzava la tonaca che lo infastidiva e “Così non rischi di cadere piccola”, diceva. Il gioco finiva quando il sudore del cavallo mi bagnava tra le gambe. Mi riempiva di mille bacetti, mi portava nel bagno e mi puliva col sapone asciugandomi poi con cura.

    Il sudore del cavallo: un veleno invisibile che sembra non lasciare alcuna traccia mentre ti corrode la vita in maniera definitiva, non te ne accorgi subito, non lo senti insinuarsi dentro la tua mente, mentre ti brucia non te ne accorgi, stai bene, giochi al sicuro, ti diverti, ridi, hai tutte per te le attenzioni di una persona che ti vuole bene, che ti riempie di attenzioni, baci, carezze. Tutto veleno, tutto veleno!

    La mamma coi suoi lavoretti non ce la spuntava, aveva notevoli difficoltà a tirare avanti, per fortuna che c’era Don Filippo che si prendeva cura di me e di lei. Io non facevo caso alle mani del prete che si allungavano per accarezzare le gambe della mamma quando parlavano seduti una di fronte all’altro, non notavo il fastidio della mamma che allontanava quelle mani insinuanti, ero bambina, ma le ricordo perfettamente ora, le ricordo da tanti anni ormai, da quando cominciai a capire. Immagini che inizialmente non lasciavano alcuna traccia ma che successivamente marchiavano a vita i miei ricordi.
    Una sera mentre dormivo fui svegliata dal parlottare concitato della mamma. C’era Don Filippo in casa che cercava di abbracciarla mentre lei si divincolava dalla presa. Non voleva svegliarmi e gridava sottovoce la sua rabbia. La vista del prete che cercava di alzarle il vestito, mentre con una mano le esplorava il seno mi fece paura e finsi di dormire. Immagini che non seppi spiegarmi: perché Don Filippo, che era così buono con me, voleva fare del male alla mamma?
    Ricordo che dopo un po’ il prete andò via ed il giorno dopo lasciammo la casa per andare in città dalla zia che ci ospitò.

    Zia Anna era la sorella maggiore di mamma, era sposata con zio Filippo da quindici anni ma non avevano figli. Lo zio lavorava al comune e lei faceva la casalinga. Stavano bene e ci ospitarono per circa un anno, il tempo che mamma, dopo aver imparato il mestiere aiutando un’amica della zia che aveva una parruccheria, non fu assunta presso un centro estetico all’interno del centro commerciale.
    Ci trasferimmo in un bivani preso in affitto ed io andai all’asilo comunale. Tirammo avanti per qualche anno ed io avevo dimenticato il sudore del cavallo, mentre il ricordo di mio padre lentamente si affievoliva.
    Avevo sette anni quando Angelo cominciò a frequentare casa nostra.

    Era più vecchio di mamma e pure di papà, però era gentile, educato, posato. Parlava con la voce calma e rassicurante. La sua presenza divenne presto familiare come divennero familiari le coccole che Angelo a Mamma si scambiavano di tanto in tanto.
    Ci trasferimmo a casa sua ed Angelo divenne il mio nuovo papà. Si prendeva cura di me e non mi faceva mancare niente, mi riempiva di giocattoli di ogni tipo e spesso giocavamo insieme quando non era fuori per lavoro. Le sere che mamma tornava tardi per il turno pomeridiano, lui si preoccupava di farmi fare i compiti, il bagnetto, farmi cenare, giocare un poco e poi mettermi a letto col bacio della buona notte. La sua presenza dava sicurezza e protezione a me e mamma. Quando mancava per diversi giorni a causa del suo lavoro che lo faceva dormire fuori, a letto con la mamma non mi sentivo tranquilla come quando c’era lui, anche se dormivo da sola nella mia cameretta, sapere che Angelo era lì accanto mi faceva fare sogni sereni.
    Finché una domenica mattina…

    Mi ero svegliata presto e come tante altre volte stavo andando a trovare mamma e Angelo per incastrarmi tra di loro. Mi piaceva ed era comodo riaddormentarsi col calore dei loro corpi. Ma quella volta mi bloccai sull’uscio della camera da letto. Fu come un flash che andò a depositare quel fotogramma nell’archivio dimenticato dove giacevano le immagini sbiadite di Don Filippo: la mamma stava giocando a cavalluccio con Angelo. Tornai silenziosamente nel mio letto e mi coprii tutta sotto le coperte. Mi riaddormentai, ma quel fotogramma cominciò a lavorare, a rivitalizzare il veleno depositato quattro anni prima, a mischiarvisi, ad amalgamarvisi. A riattivarne la tossicità.

    Non tornai mai più nel loro letto, non ne conoscevo il motivo ma l’immagine di mamma ed Angelo affiorava spesso nei miei pensieri e mi turbava. Domande confuse mi affollavano la mente le domeniche mattina quando li immaginavo mentre giocavano a cavalluccio. Vedevo lei divertirsi e ridere come ridevo io sulle gambe di Don Filippo e venivo colta dall’invidia. Perché nessuno giocava più a cavalluccio con me? Nessuno mi voleva? Beata mamma! Vedevo il suo corpo nudo e ne provavo invidia. Io avevo un corpicino da bambina, era questo il motivo per il quale Angelo non giocava con me come con mamma? Questi pensieri mi accompagnarono per quasi un anno.
    Una sera mentre Angelo mi faceva il bagno e mi insaponava con la spugna tra le gambe gli dissi:
    “Togli il sudore del cavallo?”.
    Lui mi guardò senza comprendere e mi chiese:
    “Che dici Maria di cosa stai parlando?”.
    E gli raccontai del gioco che facevamo con Don Filippo.

    Angelo mi chiese di fargli vedere come si svolgeva il gioco e dopo che uscii dalla vasca e mi asciugò con cura lo facemmo.
    Per due anni il gioco del cavalluccio si ripeté tutte le volte che mamma tornava tardi dal lavoro, ormai era diventata una consuetudine, c’erano pure le varianti: quando il cavallo era “stanco”, “addormentato” – come diceva Angelo -, io ci giocavo un poco colmandolo di baci e carezze. A volte sudava tanto da inondarmi mani e viso prima della cavalcata.
    Una sera che mamma rientrò prima perché non stava bene, scoprì il nostro gioco segreto e diventò una furia. Fece le valige ed andammo via da casa di Angelo, tornammo dagli zii che ci ospitarono per circa due mesi, il tempo di trovare una nuova casa in affitto. Non capivo il motivo dell’ira di mamma, era gelosa? Pretendeva di giocare solo lei a cavalluccio? Cosa aveva più di me? Guardavo il suo corpo e guardavo il mio, vedevo i suoi seni belli grossi e guardavo i miei inesistenti. Li volevo anche io come i suoi. Cominciai a mangiare, mangiare tanto per farli crescere più in fretta. Alle medie guardavo le mie compagne per fare il paragone, alcune erano piatte altre invece li avevano già ben evidenti. Dovevo farli crescere in fretta e mangiavo, mangiavo, mangiavo.
    Il sudore del cavallo mi mancava.

    E crebbi in fretta sia in altezza che in volume. Al linguistico mi presentai con tutta la mia imponente figura di quattordicenne di un metro e ottanta per ottanta chili. Non mi curai degli sberleffi dei compagni, andavo fiera della mia quarta di seno che mi ero conquistata con tenacia, avevo superato mamma ed ero soddisfatta. Non ero deforme, ero abbondante ovunque e mi compiacevo degli sguardi dei grandi. Le mie compagne avevano il ragazzo, io no, nessuno di quei piccoli brufolosi era interessato a me, ma non ne soffrivo, mi sentivo ripagata ogni volta che un’occhiata concupiscente scrutava la mia scollatura generosa.
    Per la gita scolastica fraternizzai con l’autista, un uomo di una quarantina d’anni, ci appartammo nel pullman e persi la verginità. Altro sudore velenoso andò a rimpinguare quello di Don Filippo, ormai entrato in circolo.

    Quel battesimo senza tante cerimonie diede il là ad una escalation inarrestabile di sesso. Forte del mio fisico da donna mi divertivo a provocare gli adulti ed i vecchi, cominciai a frequentare i loro ambienti, ad accettare i loro regali che nascondevo per non farli vedere alla mamma.
    La mamma intanto conobbe Piero, un uomo di 55 anni divorziato con due figlie. Era un cliente del centro estetico, dipendente regionale, di bell’aspetto, elegante nel vestire e negli atteggiamenti. I suoi capelli bianchi e folti ed una personalità forte ebbero un bell’effetto anche su di me. Lo vedevo bene accanto alla mamma, splendida quarantenne, formavano decisamente una bella coppia.
    Dopo un anno di frequentazione ci trasferimmo a casa di Piero.

    Continuai a vivere la mia vita da estranea, come se fosse quella di una persona sconosciuta, una per la quale non nutrivo alcun interesse, la guardavo senza vederla, distaccata, senza alcuna emozione, senza sentimenti, senz’anima.
    Un compagno di classe cominciò ad interessarsi a me: Paolo. Era timido, mi dedicava tante attenzioni, mi scriveva poesie. Decisi di accettare il suo corteggiamento più per dimostrare la mia normalità a mamma che per vero coinvolgimento. Gli concessi di rubarmi qualche bacetto pudico e qualche carezza, niente più. Con lui andavo in discoteca il venerdì.
    Il sabato andavo coi grandi, coi vecchi, in un locale da grandi.
    Conobbi Marcello, un uomo di trentacinque anni e feci coppia con lui.

    Era un uomo dolce, pieno di attenzioni, pomiciavamo pesantemente davanti ai suoi amici, tutta gente dai trenta ai cinquant’anni e forse più. Una sera, tutti ubriachi andammo a casa di uno dei suoi amici e Marcello, con generosità mi offrì a loro: “Fate pure – disse - le piace essere scopata”. Erano tre, più Marcello che si godeva lo spettacolo, ed appassionato di fotografia com’era, immortalava le mie performances facendomi sentire una vera star. Li lasciavo fare, assecondando tutte le loro richieste, li osservavo tra i fumi dell’alcol, mentre si accanivano su quel corpo di donna che non sentivo mio, vedevo i loro visi travisati dall’istinto animalesco, eccitati dalla carne che rivestiva la bambina messa a loro disposizione, a turno, insieme, due, tre per volta. Non era più il sudore del cavallo quello che mi inondava, non stavo giocando, stavo perpetrando la mia distruzione e non ne conoscevo il motivo.
    Vomitai alla fine, la testa mi scoppiava e Marcello fu dolce e gentile, mi accarezzò, mi riempì di carezze e mi fece tanti complimenti, poi mi accompagnò a casa dove continuai a vomitare.

    Era notte, forse le tre o le quattro, Piero mi raggiunse in bagno mentre stavo china sul cesso con l’anima che faceva su e giù tra la pancia a le gola, si mise dietro di me e scostando i capelli dalla fronte mi pressava la pancia per aiutarmi a rimettere finché i conati non cessarono. Mi sostenne fino al mio letto e mentre mi rimboccava le coperte mi disse: “Ti sei ubriacata!”. “Sì, ma non dire niente a mamma”. “Stai tranquilla Mariuccia.”, mi rassicurò.
    Il giorno successivo – era domenica e mamma era a lavorare – Piero mi svegliò chiedendomi come stavo: “Mi scoppia la testa – gli risposi – mi fai una camomilla?”. Mi preparò la bevanda e mentre la sorseggiavo mi disse: “Mariuccia tua mamma non ha sentito niente stanotte, ed io non le ho detto niente, come promesso, ma tu cerca di non farlo più ché ti rovini.”.

    Le attenzioni che Piero aveva avuto nei miei riguardi e la promessa di mantenere il segreto lo posero sotto i riflettori. Pian piano da semplice compagno affascinante di mamma, da uomo sicuro e rassicurante, andò assumendo ai miei occhi l’aspetto di maschio. Il ricordo confuso di lui dietro di me, china a vomitare, si schiarì ed ebbi la certezza che la sua mano calda che mi premeva lo stomaco favoriva il contatto del suo membro duro contro le mie chiappe. Il pensiero che non gli ero indifferente si fece strada inesorabilmente e cominciai ad interessarmi a lui, a spiarlo, a provocarlo.

    Lo spiavo quando era in bagno, entravo distrattamente in camera mentre si vestiva, sbirciavo quando faceva l’amore con mamma, lasciavo la porta socchiusa mentre facevo la doccia, gli chiedevo di aiutarmi ad allacciare il reggiseno, mi facevo spalmare la crema al mare. Cercavo di cogliere ogni minima reazione e mi compiacevo quando notavo il rigonfiamento tra le gambe, non essergli indifferente era molto appagante ed eccitante. Mi piacevano le sue mani sul corpo, mi davano i brividi.
    Per due anni continuai a vivere la doppia vita: di ragazzina per bene a scuola ed il venerdì in discoteca con Paolo che resisteva alla voglia di fare l’amore da me negata – Paolo mi serviva e lo utilizzavo, era un bravo ragazzo, molto rispettoso e piaceva a mamma – e quella di troietta il sabato con Marcello ed i suoi amici.
    Poi il giorno del mio diciassettesimo compleanno…

    Piero mi svegliò la mattina con un regalo: un braccialetto molto costoso. Si sedette ai bordi del letto, mi accarezzò la schiena e mi baciò sulla guancia. Io lo baciai in bocca e lui rispose.
    Mentre facevamo l’amore eravamo coscienti che stavamo tradendo mamma, ma la passione di entrambi, da troppo tempo repressa, prevalse su qualsiasi riserva morale. Ci confessammo i reciproci desideri malamente celati da quasi due anni ed io mi sentivo felice di provare un sentimento sconosciuto fino a quel momento.
    Mi ero innamorata di Piero.
    Dopo un anno rimasi incinta.

    Dopo il primo momento di panico reciproco io e Piero decidemmo di utilizzare Paolo che fu ben felice di poter finalmente fare l’amore con me.
    Nacque Maria.
    Volli fortemente darle il mio stesso nome, non ero consapevole del motivo allora, ma lo capii in seguito. Quella creatura rappresentava la vita che avrei potuto vivere io, la purezza e l’innocenza che a me erano sfuggite dal momento in cui era iniziato il gioco del cavalluccio con Don Filippo. La violenza subdola, indolore, camuffata dal gioco, aveva deviato profondamente le mie percezioni e la mia stessa esistenza.
    Quando Piero si ammalò e dopo pochi mesi morì di tumore, lasciò un vuoto incolmabile, era stato un uomo speciale, compagno di mia madre, padre e nonno di mia figlia.
    Maria, l’unico vero amore della mia vita.




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