Fantasie di un autista d’autobus

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    Se ne accorse subito, mentre lei alzava la gamba per salire sul primo gradino dell’autobus: sotto l’abito a fiori portava delle calze autoreggenti, fu un attimo, ma riuscì a vederle.

    La mano, dalle unghie corte e laccate di rosso vivo, si avvolse intorno alla maniglia, per aiutarsi a salire sul mezzo, mentre alzava il viso seminascosto dagli occhiali scuri e pronunciava un sommessoma fermo “ Buongiorno”.

    Lui richiuse il portellone alle sue spalle e la guardò mentre obliterava il biglietto. Salirono altri passeggeri, lui ripartendo gettò uno sguardo nello specchio che aveva in alto a sinistra. Sussultò. Lei era lì, il suo riflesso era incorniciato nella superfice vitrea, proprio al centro, come se gli altri passeggeri si fossero sapientemente disposti in modo da non rubarle la scena. Così avrebbe potuto gettarle qualche sguardo, di tanto in tanto, giustificato dal dover vigliare su un gruppo di ragazzini che schiamazzavano verso il fondo del bus.

    Il sole le illuminava il profilo dai tratti mediterranei ma non troppo marcati, e la linea del collo che affondava nel vestito, scollato giusto quel tanto da lasciare intuire quello che c’era sotto.

    Cominciò a fantasticare su di lei senza quasi accorgersene. Provò a intuire i suoi pensieri ostinatamente celati dietro le lenti scure, e a immaginare i suoi occhi: a giudicare dai lineamenti, dovevano essere grandi e scuri, forse un po’ malinconici. Le sue labbra erano un po’ lucide, difficile non andare a impelagarsi in strani pensieri. Immaginò di essere vicino a quella bocca, vicinissimo, fino a toccarla con la sua e a schiuderla con la punta della lingua. Ne percepì il calore, ne aspirò la saliva, la frugò completamente.

    Ora lei si passava pensierosamente una mano dalle unghie scarlatte sul viso. La rivide sul corrimano, come se fosse stata stretta attorno al suo sesso che già si era irrigidito, la vide leggera ma decisa, percorrere l’asta fino alla punta, dove lei avrebbe passato il pollice a cogliere una goccia di desiderio per gustarla poi tra le labbra.

    Dovette rallentare: lavori in corso, dare precedenza al mezzo che giungeva da destra, raccogliere il respiro.

    Come sarebbe stata la pressione di quelle dita sulla sua schiena mentre la prendeva? Delicata ma ferma, come la sua voce; proprio quella voce che sognò arrochita dal piacere mentre gemeva sotto i suoi colpi.

    Si, così l’avrebbe posseduta, a colpi intensi e ampi, dopo averle schiuso le gambe, dopo essere risalito fino alla balza di pizzo delle sue calze, delle quali riuscì a sentire persino la grana sottile e liscia, così sottile da lasciare intuire la pelle, fino a fargli immaginare le sue stesse dita adunche contro quella carne.

    Andò più su, fino alle mutandine che immaginò bianche, di pizzo, a velare un pube appena coperto da una peluria rasata ma non del tutto. Sempre immaginando le scostò, facendole scivolare piano giù per le cosce le sfilò, ritrovandosi faccia a faccia con una fica rosa e gonfia, dalle labbra compatte e umide, con le goccioline di umore incastrate tra la peluria come perline di vetro.

    Stava quasi per poggiarvi la lingua, quando arrivò quasi a sentirne l’odore, che avvolse stordendolo, reale e tangibile, come un gemito sfuggito alla sua fantasia, quando un passeggero gli rammentò la fermata.

    Allora lui si fermò, e accadde qualcosa di insperato: lei si sfilò gli occhiali scuri, rivelando gli occhi che erano proprio come lui li aveva immaginati; ma soprattutto, si alzò, procedendo spedita verso l’uscita, e lui temette che stesse per scendere di già. Oh no! Sarebbe stato troppo presto.

    Lei sembrò quasi udire il grido delle sua mente e si risedette, ma stavolta, al primo sedile, quello dietro di lui: gli pareva impossibile. Le ginocchia strette della donna erano a pochi centimetri dalla sua testa, e se avesse allungato la sua mano all’indietro avrebbe potuto toccarle.

    Questo pensiero gli spedì un fiotto di sangue verso il cervello e poi giù, fino al sesso. Ebbe paura che quel gonfiore fosse tanto evidente da saltare a gli occhi di lei, o lo voleva, tremendamente, segretamente? Che lei si accorgesse della sua eccitazione, e che ne fosse turbata a sua volta? Dio, quanto avrebbe voluto lasciarle almeno una piccola traccia umida sulle mutandine, qualcosa che lei si sarebbe portata dietro, in giro tra la gente, tra gli altri uomini.

    Alla fermata seguente, il penultimo passeggero scese, e nessuno salì.

    Erano soli. Lei parlò, come se avesse atteso di restare sola con lui, gli chiese informazioni sulla fermata, che lui comprese a stento, perché già immaginava quella voce, così vicina al suo orecchio, bisbigliargli le più dolci sconcezze nella concitazione convulsa dell’orgasmo.

    Ebbe l’ardire di chiederle di spostarsi dall’altro lato, così che lui la potesse vedere in viso: lei, un po’ civetta, obbedì, e annodò gli occhi di lui in uno sguardo malizioso.

    Si parlarono brevemente, poi il cellulare di lei squillò.

    Era evidente che aveva un appuntamento con un uomo, che lei chiamò tesoro, gli disse arrivo, aspettami, il mezzo era in ritardo, e ha fatto tutto un giro strano, ma sono a pochi metri da te.

    Lui sentì una cieca collera montargli da dentro, lei sembrava quasi incolparlo del suo ritardo, e lì per lì desiderò non fermarsi mai, rapirla e impedirle di andare dal suo uomo. Sapeva di non poterlo fare e sentiva già il dolore del distacco, e gli sembrò di poterla seguire con gli occhi fino al letto dell’altro, la vide, sotto il corpo di lui, gemere e contorcersi, poi la vide, distintamente, volgere uno sguardo compiaciuto e soddisfatto verso lui, povero e confuso autista lasciato da parte, la vide sorridergli mentre l’altro uomo riversava il suo seme su quel corpo chiaro e caldo.

    Io scendo qui, lei disse. Lui dovette fermarsi, riprendere il controllo, a aprirle il portellone. Accolse smarrito l’ultimo sorriso e la vide scendere e andare via, e richiudendo la portiera alle sue spalle, ripartì, con un grande vuoto nell’anima e nella patta dei pantaloni.
     
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