Annalisa

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. La Fenice
     
    .

    User deleted


    Adesso, sulla pista di decollo c’è “Annalisa”. Per la verità l’avevo già pubblicato, questo racconto – o almeno avevo tentato di farlo - già qualche anno fa. Smisi di postare al terzo capitolo, quando gli indici di lettura erano da rosso profondo. Mi chiesi a lungo perché, considerato che da un mio ferocissimo esame autocritico, era emersa, secondo me, una buona costruzione, una storia interessante nel suo complesso, una storia fornita anche di caratteristiche adatte ai desideri (e non è un modo di dire) del Popolo di Milù. Poi pensai di aver compreso il motivo dell’insuccesso: avevo pubblicato quei tre capitoli proprio sotto un periodo di feste, natalizie, mi pare, quando l’attenzione di molti lettori era probabilmente centrata molto più sui preparativi per cenoni e per viaggi vacanzieri, piuttosto che su questo Sito. Credetti di averlo capito anche dal fatto che persino i più bravi, tra gli Autori – quelli dall’Italiano più corretto e dalla fantasia più fervida e, se mi passate il termine, arrapante – avevano ottenuto anche loro dei riscontri molto, molto distanti da quelli dei bestseller di Stephen King o di Andrea Camilleri. Ed io, invece, che sono una persona molto, ma molto modesta, nonché perfettamente conscia dei propri limiti, aspiro proprio agli indici di gradimento di quei due grandi…Colleghi.

    Dopo quel primo, deludente tentativo, Annalisa finì nel cassetto degli elettroni, destinata a restarvi sino a che la delusione non mi fosse passata, ciò che è accaduto (siete contenti?) alcuni giorni orsono, in via definitiva. Per cui, adesso ci riprovo.

    Avvertenze per l’uso:

    • questa, ci crediate o no, è una storia vera, vera sino all’ultima riga. Sono vere anche le storie che fanno da inciso, peraltro mai casuale;

    • non vi si trovano accessi presuntuosi quanto inverosimili di sessite acuta. Se qualcuno sta cercando descrizioni di scopate immediate, della serie, “la conobbi, mi guardò, la trascinai in una stanza e lei mi acciuffò immediatamente l’uccello e se lo succhiò” - ciò che nella realtà non succede praticamente mai - cambi Autore e si rivolga alla fantasia malata ed inesperta di altri: quella, cioè, che appartiene a degli sfigati più dediti a seghe solitarie da sempre e per sempre, che ad una sana attività scopereccia. E che, nella maggioranza dei casi, è anche composta, stranamente ma non troppo, da analfabeti di ritorno. Di ritorno?! Bah….
    Arriverà, è ovvio, anche il sesso, ma certamente non per le prime mille e cento parole almeno: questo mio è un racconto dove viene tenuto in grande onore anche quello strano sentimento che si chiama “amore”, quello che al sesso è legato moltissimo, ma non sempre. E quel migliaio di parole mi sono servite proprio per raccontare di come può nascere, un sentimento simile. O meglio, uno dei tanti modi;

    • avrei previsto tra e sette e le dieci puntate, perché la mia memoria ha, in riserva, suppergiù quella dimensione complessiva. Se ad un certo punto dovessi decidere di prolungare (o modificare qualcosa) con resipiscenze di realtà, o con iniezioni, perché no, di fantasia, e se vedessi che ne vale la pena, sulla base dei contatti e dei riscontri che otterrò, vi avviserò prima, tanto per non prendervi in giro;

    • se qualcuno di voi volesse degnarmi di un accenno di approccio diretto, vi ricordo che molto probabilmente il mail address che ho registrato sul Sito è sbagliato, anche se di poco: quello esatto è [email protected] Risponderò a chiunque volesse scrivermi, felice dell’aiuto che voleste darmi con critiche e suggerimenti. Ora, se ne avete voglia, leggete e, possibilmente, divertitevi.

    Ippolito
    La conobbi in modo assolutamente inusuale. Un automobilista mezzo sbronzo mi aveva mandato in Ospedale con una gamba rotta. Il posto era vecchio, inadatto a qualsiasi tipo di cure, squallido e deprimente. Nei suoi anni giovani era stato una Colonia per bambini, per poi acquisire nuova dignità: quella di un luogo dove si aggiustano le ossa rotte. Solo che se uno nasce “Colonia” non può trasformarsi in Ospedale dall’oggi al domani. E sto parlando di tempi nei quali non c’erano molti soldi da destinare alla Chirurgia estetica, nemmeno se si trattasse di rimettere i connotati a posto ad un fabbricato. Per cui, in quel posto, qualsiasi tipo di comodità latitava mentre abbondava la sofferenza gratuita, quella derivante della mancanza di strutture, di cure e di assistenza adeguate.
    Trascorsi i primi due giorni con la gamba rotta che mi faceva un male d’inferno e le palle a circa due metri sotto il livello del suolo. Poi accadde qualcosa di nuovo. Ed anche di imprevedibile, tutto sommato. Mi svegliai, una mattina, da un sonno difficile e tormentato. Aspettavo che arrivasse il solito portantino scortese e rozzo. Uno che tuttavia riusciva a darmi un’illusione di sollievo, aiutandomi a lavarmi ed a farmi la barba. Ed invece comparve una ragazza. Mi si rivolse con una gentilezza sconosciuta, fino a quel momento. E con un sorriso che esprimeva molto più calore di quanto potessi aspettarmi in un ambiente come quello. Pochi minuti più tardi, la schiena sollevata, un buon profumo di pulito addosso, i capelli finalmente pettinati, riuscii a sapere che quella ragazza, che ormai aveva per me le fattezze di un angelo, si chiamava Annalisa. Non rifiutò quattro chiacchiere, malgrado qualche rischio derivante da quella sosta prolungata, che si sarebbe potuto manifestare per la sua dipendenza da medici burocrati, baroni presuntuosi e supponenti; gente che con l’arte d’Ippocrate aveva ben poco a che fare, per la quale il contatto umano contava quanto il due di picche.
    Era un’allieva infermiera, Annalisa, una appena un gradino più sopra dell’ultimo livello della scala professionale. E però era in grado di dare lezioni ai suoi insegnanti. Era brava anche tecnicamente, ma ciò che la faceva emergere prepotentemente dal grigiore di un lavoro fatto, da troppi, senza amore, era proprio l’amore, quello che lei poneva in ogni attimo trascorso vicino al paziente.
    Non era bella, Annalisa, tutt’altro. Il viso appariva irregolare, le gambe non lunghe, il sedere un po’ basso. Ed anche le tette non erano un granchè. Però le sue mani erano delicatissime quando dovevano curare, estremamente dure e decise, se si trattava di massaggiare un paziente. E tuttavia, i massaggi di Annalisa ti ridavano vita e vigore, ogni volta. Aveva una cosa stupenda: un sorriso incantevole, aperto, amichevole, sincero. E chi non sa quanto sia importante il sorriso di una donna, soprattutto quando stai annegando in un mare di dolore, può anche smettere di leggere ed andarsene in vacanza in un bordello turco. Le mie notti erano difficili, per il dolore e per i pensieri. Ma quando sorgeva il sole, la mattina, la sola vista di quel sorriso, il tocco di quelle mani mi riconciliavano con la vita.
    Poi da quell’Ospedale andai via, in condizioni peggiori di quelle di partenza, se possibile. Ci ritornai ancora tre volte, sempre per uscirne con una nuova delusione, con l’ingigantirsi costante della preoccupazione per un avvenire che appariva sempre più incerto. E lei, Annalisa, non c’era più. Mi dissero che si era diplomata e che ora era stata assegnata ad un altro Reparto, in un Ospedale diverso.
    Poi, in un altro luogo, un grande Medico mi tirò fuori dai guai, anche se il pessimo trattamento precedente mi aveva lasciato alcune conseguenze irrimediabili. Ma sia pure con l’aiuto di una stampella, che accompagnò la mia vita per l’anno e mezzo successivo, ricominciai a camminare. Ed a vivere. Ciò che mi era stato negato per due lunghi anni. Mi ributtai a capofitto nel lavoro e ricominciai a coltivare i miei hobbies. Me ne cercai anche alcuni nuovi. Avevo sempre avuto una passionaccia per il giornalismo: chiesi di poter collaborare con una radio privata. E quando il Titolare mise in piedi una tv locale – la seconda, nel luogo dove abito – il passaggio alla nuova attività apparve a me ed a tutti come un fatto assolutamente naturale. Facevo lo speaker dei TG, ed anche l’opinionista. Ad un certo punto mi scoprii anche un po’ anchorman, con buoni ascolti, devo dire.
    Un giorno dovetti occuparmi di una grave situazione di sciopero nel Settore Ospedaliero. Chiesi di poter realizzare un’intervista col Personale che aveva occupato larga parte delle Strutture Ospedaliere. E così, seguito dal mio fido cameraman, dopo aver controllato bene i microfoni, i cavetti, le prese e tutte le altre trappole di cui è costellata la giornata di un reporter, andai a caccia di immagini e di parole.
    Quando entrai nella Sala Riunioni, ci fu un attimo di silenzio, durante il quale piano piano tutti gli occhi ruotarono verso di me. Il cameraman, ventenne, cominciò a catalogare le trenta ragazze potabili che ci trovavamo davanti. Faceva di tutto per mantenere un atteggiamento professionale, ma era chiaro che era sicuro di trovarsi di fronte ad un bel frutteto da, come dire, spogliare, un frutto alla volta. Tutti, i frutti, possibilmente.
    Io, al contrario, lottavo come un leone contro la mia naturale timidezza, il più grande ostacolo, per me, sulla strada del giornalismo televisivo militante. Mi sembrava di essere davanti ad una Giuria impietosa, tutta al femminile. E mi sentivo ad un passo dal soccombere e dal fare una figura da peracottaro, come dicono al mio Paesello d’origine. Poi si aprì una porta ed entrò un sorriso. Quel sorriso. Mi venne incontro, con tutta Annalisa attaccata dietro. Nemmeno per un attimo, usammo il “lei” che aveva contraddistinto i nostri rapporti ospedalieri. Una stretta di mano ed un “Ciao!” reciproco, che dimostravano il piacere dell’incontro, si trasformò in un attimo in un abbraccio e due baci schioccati reciprocamente sulle guance. Da quel momento in poi, accettato senza indugi dall’assemblea delle femmine gracidanti (ma a modo loro serissime ed estremamente determinate e capaci) l’intervista decollò, si sviluppò, si compì nel migliore dei modi. Andai anche in giro per buona parte dell’Ospedale, per raccogliere immagini a corredo dei vari interventi.
    Prima di andarmene, scambiai due parole con Annalisa. Ricordi piacevoli, per quanto possa sembrare strano. Racconti su ciò che era accaduto ad ambedue durante quei diciotto-venti mesi. Così, di sfuggita, come accade quando ci si rivede dopo un bel po’ di tempo, tra persone che si trovano simpatiche l’un l’altra. Ed alla fine, quando stavamo andando via, il fatidico scambio di numeri telefonici, più un’abitudine che altro. E l’impegno consueto, più o meno convinto, di rincontrarci, una volta o l’altra.
    Passarono un paio di settimane incasinatissime, almeno per me, tirato tra lavoro principale, televisione, radio, varie ed eventuali. Ed anche, devo dire, un bel po’ di incontri, di quelli che si possono definire eufemisticamente, affettuosi. La gamba ancora molto debole non mi frenava nemmeno un poco. Avevo ricominciato a pascolare alternativamente un gran tronco di femmina bionda e ventiquattrenne; una bambolina dall’aspetto dolcissimo ma dai contenuti incandescenti che mi procurava grandi sensi di colpa perché era la ragazza di un amico carissimo, anche se parecchio più giovane di me; una Signora, moglie di un Ufficiale di Marina, che era venuta da me per vendermi un’enciclopedia e che, la terza volta che era ritornata per chiudere un contratto mai sottoscritto mi si era scaraventata letteralmente addosso, mentre ero in piedi, nel mio Ufficio, attorcigliandomi le gambe attorno alla vita, che nemmeno un’anaconda femmina in love; e, last but not least la mia “legittima”, che in quel consesso di semidee faceva pur sempre la sua porca figura, come diceva un mio amico. Eppure – lo percepivo nei brevissimi periodi, soprattutto notturni, durante i quali riuscivo a connettere in maniera più o meno accettabile – mi rendevo conto che quel sorriso era lì, presente nel mio subconscio, motivo di turbamenti neanche del tutto comprensibili. Perché, per dirla tutta, Annalisa, quanto ad aspetto fisico, non aveva alcuna possibilità di competere con le quattro straordinarie fighe con le quali giocavo ogni giorno che Dio mandava in terra, a volte in singolo, a volte in successione. Di solito, due al massimo, ma c’era stato un giorno in cui avevo dovuto esprimermi in tre esibizioni nel giro di circa sette ore intensissime. Ed ancora oggi mi chiedo come cavolo facessi.
    Comunque, il sorriso di Annalisa mi perseguitava. E così, un pomeriggio, verso le sette, decisi di chiamarla giusto (ehm!) per sentire come stava. Stavo finendo di abbozzare una lettera, quando il telefono squillò. Con una incredibile coincidenza Annalisa aveva pensato bene di chiamarmi a sua volta e per lo stesso (ehm!) motivo.
    Inutile raccontare la dimensione del cumulo di banalità divertenti che ci scambiammo. Poi, quando stavamo per lasciarci, io pensai che valeva la pena di tentare un approccio più tangibile: “Che ne dici se andiamo a prendere un caffè insieme, una di queste sere?”
    “Siiiii, mi piacerebbe un sacco. Anzi, perché non te ne vieni a casa mia, magari verso le tre, domani pomeriggio? Il caffè te lo offro io, lo faccio buonissimo!”
    Beh, secondo voi iperscop (super scopatori, è ovvio!), una cosa così, cosa voleva dire? Come? Ah si, certo, significava che avrei potuto assaggiare un caffè davvero ben fatto….
    Alle tre spaccate dell’indomani, suonai a casa di Annalisa, all’attico di un palazzo di sei piani. Qualche tempo dopo avrei capito – io che ero abituato a vivere in un appartamento a piano terra – cosa significhi un ascensore che si rompe. Ma quella prima volta, no. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. La porta si aprì ed Annalisa mi invitò ad entrare. Era vestita con una gonna al polpaccio, una camicetta in nuance ed uno dei suoi bellissimi sorrisi. I piedi, non piccoli, erano rigorosamente nudi. Questo, almeno, era tutto ciò che si vedeva.
    Scoprii che la sua casa era una bomboniera deliziosa. Cinquanta metri quadri o poco più contenevano un ingressino-soggiorno, un cucinotto, un bagno piccolo ma completo ed una grande stanza da letto. Quest’ultima aveva una parete, verso l’esterno, costituita solo da un’ enorme lastra di vetro in due parti, che poteva scorrere, aprendosi su di un terrazzino. L’arredamento era quasi tutto moderno, salvo che per un bellissimo comò stile ottocento, che si accompagnava senza problemi ad un letto modernissimo a due piazze. Ma la cosa più bella di quella casetta era un ambiente che si raggiungeva salendo una scaletta che portava in un vero e proprio paradiso. In origine era stata una vasta terrazza, ma poi Annalisa l’aveva fatta pavimentare con un bel parquet e l’aveva coperta con una struttura in legno e vetro, lasciando una ventina di metri quadri liberi, a costituire un giardinetto pensile. C’era un altro cucinotto, una tavola ed alcuni divani comodissimi, pieni di guanciali. Luci diffuse, televisore e riproduttore. Dalla parete di vetro si poteva ammirare uno stagno pieno di fenicotteri rosa, durante il giorno. Di notte, lo spettacolo della città, con le sue luci, e la luna che splendeva nel cielo, mozzava letteralmente il fiato.
    Quel primo giorno, comunque, Annalisa mi fece solo vedere tutta la casa. Poi mi riportò giù e mi offrì un caffè. Durante i pochi minuti che la ragazza impiegò per preparare la caffettiera, ebbi qualche difficoltà di respirazione. Sapevo ormai, con certezza, che quell’incontro si sarebbe evoluto. Che avrebbe perso il carattere di una visita amichevole ed avrebbe dato inizio invece a qualcosa di molto più interessante. Non riuscivo a capirmi del tutto, devo dire: cosa poteva attrarmi, in una donna che non valeva, sul piano fisico, nemmeno un decimo delle donne cui ero abituato? D’altra parte, non ero, non sono mai stato uno del genere “ ’ndo cojo, cojo”. Anzi, la mia tendenza a scegliere mi era sembrata, sino ad allora, perfino eccessiva. Non mi è mai importato il numero, dei miei trofei di caccia, ma la qualità della loro pelle. L’ultima, prima di Annalisa (ma ormai la chiamavo Anna, tout court,) era stata una ragazzina molto, ma molto carina, che avevo rimediato in radio. Mi era venuto in testa di fare una trasmissione nella quale avrei ridisegnato le favole dei bambini - “Cappuccetto Rosso”, “Cenerentola” – secondo un’interpretazione godereccia. Non avevo ancora a disposizione lo schermo televisivo e quindi avevo pensato di trovare delle voci sensuali e coinvolgenti. Avevo messo un annuncio su un giornale e si erano presentate circa una quindicina di ragazze. Tra tutte, la più attraente era anche quella che aveva anche una voce molto suadente, sensuale. Dopo che l’avevo ascoltata parlare non più di tre minuti, avevo avuto un’erezione spaventosa. Era un piccolo gioiello: non molto alta, castano-rossa, con i capelli rasati a non più di tre millimetri di lunghezza, con un sedere e delle tette che quel minimo di esperienza che avevo mi aveva fatto immaginare, - loro si, di certo! – da favola. Ed infatti, quando l’avevo spogliata per la prima volta, in macchina, la mia esperienza si era rivelata straordinariamente precisa: ben fatta, anche se un po’ abbondante di cosce, una bocca dolcissima ed, in mezzo alle gambe, un laghetto che non si svuotava nemmeno un attimo, per tutto il tempo che stavamo insieme. E quando avevo cominciato a frequentare l’appartamento da studentessa che divideva con un’amica, avevo eletto quella casa a Paradiso delle Urì. (Che cos’è, il Paradiso delle Urì? No, le reni non c’entrano niente, scemi. Andatevelo a cercare: è una promessa del Profeta. Roba musulmana, tanto per indirizzarvi...) Un giorno, se mi va, vi racconterò anche di queste cose: secondo me sono molto interessanti.
     
    Top
    .
0 replies since 2/9/2011, 15:56   3541 views
  Share  
.