7 anni di guerra

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    A Versailles viene firmato il trattato di pace fra gli alleati e la Germania, che chiude la prima guerra mondiale e impone ai vinti pesanti sacrifici territoriali ed economici, mentre non riconosce ad altri vincitori come l'Italia i diritti, conquistati a prezzo di sangue. Gli storici sia dell'una che dell'altra.parte sono ormai concordi nel considerare le ingiustizie di Versailles come la origine prima dei contrasti che portarono al secondo conflitto mondiale. Mentre l'Austria-Ungheria usciva dal trattato smembrata, dando vita a quattro stati diversi (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Austria e Ungheria), la Germania, privata ad occidente dell'Alsazia e della. Lorena. e mutilata ad oriente in favore della Polonia e della Cecoslovacchia, doveva inoltre sopportare l'onere di gravi riparazioni di guerra.



    Panorama della Società delle Nazioni a Ginevra. Nata dalla comune speranza di pace dei popoli, la Società delle Nazioni si rivelò ben presto uno strumento assolutamente inefficace. Gli stessi Stati Uniti d'America che con Wilson erano stati fra i più accesi sostenitori dell'iniziativa, si ritirarono ben presto da Ginevra. I popoli vinti non furono rappresentati, nei primi anni, in seno all'organiz::azione. La loro assenza contribuì notevolmente al fallimento della politica societaria rivelatasi inadatta a mantenere nel mondo quella pace cui i popoli ritenevano di aver diritto dopo i sacrifici sofferti dal 1914 al 1918.

    DA VERSAGLIA A DANZICA

    Sarebbe un errore esaminare soltanto la fase conclusiva di una crisi ben più complessa di quella che ebbe le sue battute più drammatiche tra la primavera del 1938 e l'estate dell'anno successivo. Sarebbe un errore, cioè, prendere in considerazione soltanto il problema di Danzica o quello cecoslovacco, così come nessuno più si sogna, oggi, di limitare l'esame delle cause della guerra 1914-18 al frenetico intrecciarsi di ultimatum che seguì il delitto di Serajevo. Con questa impostazione, che ci sembra la più logica e la più vicina alla verità vera, bisogna risalire fino al trattato di Versaglia per mettere in luce le cause, vicine e lontane, del secondo conflitto mondiale. I mali dell'Europa, quei mali che nell'estate del '39 provocarono la guerra, vennero tutti dal documento firmato nell'antico palazzo dei, re di Francia. Il continente veniva diviso, in base al trattato, fra vincitori e vinti, l'Austria-Ungheria, scomparendo dalla carta geografica, dava vita ad una serie di stati-equivoco, di stati-problema. La Germania privata di territori ad oriente e a occidente, veniva messa sotto tutela, impoverita, affamata, disarmata, con una situazione interna insostenibile, con una posizione internazionale di umiliante inferiorità. L'Italia, fra i vincitori, subiva anch'essa un trattamento ingeneroso. Le sue rivendicazioni adriatiche venivano combattute, mentre la diplomazia francese creava, contro di lei, la minaccia della Piccola Intesa, E dal banchetto coloniale, mentre Francia e Gran Bretagna si impinguavano di «mandati», l'Italia veniva esclusa, con la beffa dì qualche chilometro di sabbia desertica e dell'Oltre Giuba. Perciò, prima ancora che in Italia sorgesse il Fascismo, prima ancora che in Germania Hitler iniziasse la sua carriera politica, esistevano già le premesse del futuro conflitto. L'umiliazione della Germania, l'insoddisfazione dell'Italia, la tragedia dell'Austria e dell'Ungheria, le agitazioni del mondo arabo, beffato con i «mandati» dopo tante promesse e tante speranze, l'instabilità degli stati di nuova formazione erano infatti come tante bombe ad orologeria caricate per l'ora X. E nell'estremo oriente il Giappone, nato come potenza moderna dal mare di Zushima, nella sua espansione demografica cercava lo spazio vitale verso la Cina e le altre bandite di caccia fino allora riservate a britannici e americani. Su questo magma incandescente di rancori e di diffidenze, su questo insieme di passioni e di speranze, di interessi e di ideali, la Società delle Nazioni, nata dalle utopie umanitarie del presidente americano Wilson, tentò invano di impostare la sua politica di «sicurezza collettiva». Ma la sua azione non diede frutto. Gli Stati Uniti stessi, crearono stati i suoi iniziatori, ritirandosi da Ginevra nel vecchio isolazionismo pre-Wilsoniano, diedero il primo colpo di piccone alla pretenziosa costruzione edificata sulle rive del Lemano. L'assenza dell'URSS nei primi anni, il ritiro dei giapponesi e dei tedeschi poi, le sanzioni e il ritiro italiano alla fine, dovevano svuotare completamente di contenuto la già boccheggiante Società. Ma saltiamo a piè pari i primi anni del dopo guerra che segnarono l'assestamento, faticoso e difficile, del Continente, nei suoi stati vecchi e nuovi. Ricordiamo soltanto la politica di grande potenza dell'Italia da Corfù a Locarno, dalla conferenza del disarmo ai colloqui con i vinti balcanico-danubiani. E giungiamo, così, a quell'aprile 1933 che vide l'ascesa di Hitler al potere. Fu quello, il fatto nuovo che doveva rivoluzionare la storia europea. Se infatti la Germania democratica di Weimar aveva cercato di uscire dalle strettoie versagliesi attraverso una politica di intesa con i vincitori, ricevendone in cambio secche ripulse, quella nazista inaugurò, non appena solidificato il fronte interno, una politica di forza. La rivincita era stata il cavallo di battaglia di Hitler e dei suoi luogotenenti. La rivincita fu, dal '33, la meta dell'azione nazista. Stresa avrebbe dovuto porre il fermo, nell'interesse generale dell'Europa, alle ambizioni tedesche. Avrebbe dovuto, cioè, rinsaldare i vincoli di amicizia fra gli ex alleati del '15-18, riconoscendo, insieme, le più legittime rivendicazioni tedesche. Se dalla conferenza ideata da Mussolini e dalle successive intese dirette italo-francesi e italo-britanniche fosse scaturito, nella giustizia e nel realistico riconoscimento della forza dei singoli, un nuovo ordine europeo, forse la pentola tedesca, supercompressa dalla politica di Versailles continuata nel tempo, non sarebbe esplosa. Anzi, se prima ancora Stresemann, nel nome di Weimar, avesse ottenuto quella solidarietà democratica che poi fu invocata contro il nazismo, negli anni della guerra, forse Hitler non avrebbe trovato, nel nazionalismo tedesco umiliato ed offeso, tanta entusiastica rispondenza al suo sfrenato espansionismo. E siamo, dopo Stresa, dopo il viaggio di Laval a Roma che tante speranze avevano suscitato, alla guerra etiopica. Si tratta di una parentesi africana nel grande quadro europeo. O, almeno, tale avrebbe dovuto essere, nelle speranze di Mussolini. Invece fu proprio l'Etiopia, con la politica sanzionistica e le minacce della flotta britannica, a far nascere quella politica « ideologica » che 1'Italia, fino ad allora aveva sempre respinto. Infatti le sansioni spezzarono per sempre, malgrado i tardivi tentativi britannici del '37, il fronte di Locarno e di Stresa. E ciò rese possibile prima il colpo della Renania, poi quello del riarmo tedesco. Giungiamo, così, alla fase conclusiva della crisi. Al rapido progredire del riarmo tedesco, alle oceaniche adunate del nazionalsocialismo, alla rafforzata posizione dell'Italia dopo la conquista dell'Impero, ai successi diplomatici di Hitler e di Mussolini e all'oriente europeo, s'oppone la politica anglo-francese dell'accerchiamento. Poi viene la guerra di Spagna che vede schierate con Franco Italia e Germania, mentre il fronte popolare francese e la democrazia parlamentare britannica solidarizzano con i rossi. D'oltre oceano, gli americani spezzano, almeno sul piano sentimentale, le barriere dell'isolazionismo e sono, anch'essi, con i rossi. In piccolo, malgrado le ipocrisie diplomatiche del non intervento, siamo ai due blocchi che qualche anno dopo si scontreranno.Gli eventi incalzano. In Spagna si combatte ancora quando, dopo una violenta campagna propagandistica, Hitler procede all'annessione dell'Austria. L'Italia, che pure si era opposta con estrema decisione al tentativo precedente, culminato nell'assassinio di Dolfuss, accetta il fatto compiuto, mentre le democrazie, disorientate, reagiscono solo sul piano propagandistico. Qualche mese di sosta e poi Hitler vibra un altro colpo. Questa volta la vittima è la Cecoslovacchia cui i tedeschi chiedono le province sudetiche, a maggioranza etnica germanica. La crisi si aggrava rapidamente. Già la guerra sembra inevitabile quando l'iniziativa di Mussolini conduce Chamberlein e Daladier a Monaco. Un compromesso, a spese del governo di Praga, chiude la crisi. La pace è salva. Ma per poco. Monaco è stato soltanto un armistizio. Il grande conflitto è rimandato, non evitato. Il riarmo procede, da una parte e dall'altra, a ritmo frenetico. E, intanto, sul piano diplomatico, con le garanzie unilaterali Gran Bretagna e Francia portano a compimento la loro politica di accerchiamento, Hitler, con la connivenza degli ungheresi e dei polacchi porta a compimento l'occupazione della Cecoslovacchia, l'Italia, stanca del doppio gioco di Zogu, interviene in Albania. Le democrazie non reagiscono. Ma quando i tedeschi impostano in termini quanto mai chiari il problema di Danzica e del corridoio polacco, appare chiaro che le estreme speranze di pace sono destinate a cadere. E infatti, dopo qualche mese di ansie, l'annuncio a sorpresa del patto di non aggressione tedesco-sovietico, da praticamente il via alle gigantesca partita di popoli. L'attacco alla Polonia, gli ultimatum occidentali, la dichiarazione di guerra, la non belligeranza italiana nei primi giorni di settembre sono le prime mosse. Ma i fronti sono destinati a moltiplicarsi fino a comprendere tutto il mondo, dall'Estremo Oriente all'Africa, dagli Oceani alle montagne inviolate del Caucaso. La guerra europea diventerà, insomma, quella mondiale.

    Hitler al potere
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    Gennaio 1933. Hitler sale al potere in Germania. Dopo il fallimento dei molti tentativi insurrezionali nazional-socialisti del 1923-27, il partito hitleriano riportò la sua prima grande affermazione nel settembre 1930 sfruttando le debolezze del governo democratico e proclamando una politica di rivendicazioni nazionali e sociali. Due anni dopo, la vittoria del nazional-socialismo ebbe proporzioni quasi plebiscitarie consentendo a Hitler di raccogliere dalle mani di Hinderburg la carica di Cancelliere del Reich.

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    Joachin von Ribentropp fu fin dai primi anni
    il massimo ispiratore della politica estera nazista. Prima dell'avvento al potere era stato rappresentante di vini renani in Inghilterra.

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    Von Hassel (Germania) - Mussolini - Sir Graham (Inghilterra) - De Jovenel (Francia)
    7 giugno '33. L'Italia, la Germania, l'Inghilterra e la Francia firmano il patto a quattro che viene ad integrare quello di Locarno. Sì tratta di un'iniziativa di pace di Mussolini impostata sull'impegno a,non ricorrere per dieci anni all'uso dei mezzi violenti per la soluzione di qualsiasi problema e sull'impegno ad affrontare la soluzione delle questioni sul tappeto con mezzi diplomatici nel quadro della Società delle Nazioni. Il patto a quattro prevedeva inoltre 1'interessamento dei firmatari per una sollecita conclusione dell'interminabile e inconcludente conferenza del disarmo, con particolare riferimento alla posizione della Germania.

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    In estremo oriente le guerre a catena fra Cina e Giappone continuano dopo brevi pause armistiziali. L'espansionismo nipponico nel Pacifico ed in particolare sul continente cinese comincia a destare vive preoccupazioni in Inghilterra e in America. Bagliori di guerra anche alla frontiera mancese, dove i giapponesi organizzano lo stato satellite del Manciukuo. A sinistra carriaggi giapponesi nella Cina settentrionale - A destra alcuni tipi di guerriglieri comunisti cinesi.

    Ebrei e nazisti

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    tra i punti programmatici del partito nazional-socialista era la lotta ad oltranza contro l'influenza semita nella vita tedesca. Agli ebrei veniva imputato dai nazisti di essere stati la causa della sconfitta nel 1918 é di aver organizzato i moti comunisti e spartachiani. Le notizie delle prime persecuzioni anti-ebraiche provocarono vasta reazione nelle comunità israeliti che particolarmente in Inghilterra e in Francia. Nella foto una scritta propagandistica antitedesca sui marciapiedi di Londra. Essa dice: "Boicottate le merci tedesche".

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    Londra 1933. Ebrei londinesi organizzano un comizio antigermanico all'ingresso di Hyde Park. La propaganda antinazista ebbe negli ebrei i suoi iniziatori e ben presto si diffuse in tutto il mondo attirando sul nuovo regime tedesco il sospetto e l'antipatia dei paesi democratici.

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    1933. I magazzini israeliti di Parigi, in risposta al boicottaggio ordinato dai nazisti, danno l'ostracismo ai prodotti tedeschi. Questo cartello esposto nella vetrina di un negozio parigino dice testualmente: « I rappresentanti delle case tedesche non saranno ricevuti ».

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    Berlino Un corteo di camicie brume percorre le vie della città recando cartelli di incitamento al boicottaggio antisemita. Il primo aprile 1933 si tenne a Berlino una grande manifestazione anti-ebraica. Ben presto alle dimostrazioni di piazza seguirono dei provvedimenti legislativi che limitarono la partecipazione dei non ariani alla vita pubblica del Paese

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    1933. Altri due aspetti del boicottaggio antisemita in Germania. Il cartello a sinistra dice:
    « Tedeschi, difendetevi contro le diffamazioni della propaganda ebrea: comprate solo negli esercizi tedeschi ». Nella foto di destra una camicia bruna sorveglia l'ingresso dei grandi magazzini ebraici Tietz perchè siano rispettati gli ordini sul boicottaggio. Il cartello dice: "Tedeschi, difendetevi! Non comprate nulla dagli ebrei! ». Inizio di un duello che diverrà mortale!

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    L'elezione di Roosevelt alla Presidenza degli Stati Uniti. La crisi di Wall Street del 1929 era stata come un terremoto per l'economia americana ed aveva avuto i suoi riflessi anche nel campo politico. Franklin Delano Roosevelt, per il partito democratico, svolgendo una campagna impostata su efficaci slogans economici aveva conquistato il potere insediandosi alla Casa Bianca come Presidente per quattro volte consecutive. Restò al potere fino al 1945 e condusse il suo paese alla guerra.

    Italia e U.R.S.S.

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    1933 Litvinov, Commissario sovietico agli esteri in visita a Roma. L'Italia era stata la prima potenza europea a riconoscere ufficialmente il regime dei soviet. Malgrado la differenza ideologica dei due governi, nell'occasione vennero conclusi importanti accordi commerciali. L'iniziativa italiana fu seguita da altri paesi.
    L'URSS usciva così dall'isolamento diplomatico che datava dai giorni della rivoluzione dell'ottobre 1917 e entrava nel giuoco delle potenze europee.

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    15 giugno 1934. Incontro a Venezia fra Mussolini e Hitler. E' la prima delle molte strette di mano fra i due dittatori. Il colloquio ebbe per tema principale l'indipendenza austriaca per la quale Mussolini si dimostrò intransigente. I cronisti dell'epoca definirono l'incontro poco cordiale ma gli avvenimenti successivi e gli errori della politica franco-britannica resero possibile il clamoroso riavvicinamento fra i due capi.

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    1934. Salito al potere dopo il sanguinoso esperimento comunista di Bela Kun del 1920, 1'ammiraglio Horty, già comandante in capo della flotta austro ungarica, si batteva vigorosamente in sede diplomatica per la revisione del trattato del Trianon che aveva mutilato l'Ungheria. In questa politica Horty si appoggiò all'Italia che aveva assunto la tutela dell'indipendenza austriaca e ungherese.

    L'Uccisione di Dolfuss

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    25 Luglio 1934. Assassinio del cancelliere austriaco Dolfuss ad opera di insorti nazisti. L'insurrezione viene domata e gli esecutori del delitto Otto Planetta e Franz Holzweber vengono giustiziati. Il deciso intervento dell'Italia che inviò nel giro di 24 ore, tre divisioni sul confine del Brennero, impedì che la mossa nazista portasse alla fine dell'indipendenza austriaca. L'annessione, dell'Austria alla Germania doveva però fatalmente avvenire più tardi e fu un grave allarme per la pace europea. Nella foto di sinistra, la folla viennese attende di visitare la salma del cancelliere. A destra Dolfuss durante una parata militare.

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    Agosto 1934. Muore a Berlino il. Maresciallo Hinderburg, Presidente del Reich. Con la scomparsa del vincitore di Tannenberg, Hitler accentra nella sua persona anche la Carica di Presidente. Questa data segna una svolta nella politica tedesca, poichè dà via libera al nazismo per una radicale trasformazione costituzionale dello stato germanico e di bruciare tutte le tappe della « rivincita». La foto riproduce un aspetto della solenne cerimonia funebre in onore del Maresciallo.

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    9 ottobre 1934. A Marsiglia vengono uccisi da un fanatico croato Re Alessandro di Jugoslavia e il ministro degli esteri francese Louis Barthou. Il tragico avvenimento va considerato nel quadro della tumultuosa politica interna della Jugoslavia, agitata dalle lotte nazionali dei tre gruppi etnici che la compongono. Alessandro I° era sbarcato in Francia per rinsaldare i vincoli della tradizionale amicizia fra i due paesi. La politica francese considerava con interesse il rafforzamento della Jugoslavia in funzione di sentinella al confine italiano favorendo per questo, la costituzione della Piccola Intesa fra gli stati balcanico-danubiani.
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    13 gennaio 1935. Plebiscito della Saar. La contesa regione- etnicamente tedesca, era stata distaccata dal Reich con il trattato di Versailles, che rimetteva ad un plebiscito il futuro status della regione stessa. Il 13 gennaio 1935 sotto il controllo di commissari neutrali, la Saar decideva grande maggioranza, il proprio ritorno alla Germania. Il 1 marzo Hitler entra a Saarbruken

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    Il risveglio nazionalista italiano, operato dal regime fascista
    contro il trattato di Versaglia, e il potenziamento delle forze armate - specie della Marina che tendeva chiaramente a
    mutare il rapporto di forza nel Mediterraneo, ebbero nell'Inghilterra il più deciso avversario. Qui il ministro degli Esteri Eden nel suo viaggio a Roma, tendente a far recedere Mussolini dai suoi programmi espansionistici.

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    1935. I primi successi alle frontiere e il consolidamento dell'economia nazionale, dovuto ad una accorta politica di sviluppo industriale e al progressivo riassorbimento della disoccupazione, avevano attirato attorno al movimento nazional-socialista il consenso delle grandi masse tedesche. Nella foto, lo spettacolo veramente « kolossal » di una manifestazione del partito a Berlino. Il mito della razza, bandito da Rosemberg, si andava sempre più affermando e con esso si faceva sempre più agguerrito lo spirito di riscossa della Germania. A quest'epoca risalgono le decise prese di posizione di Hitler sul riarmo tedesco.

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    Una caricatura del settimanale francese « Le Rire » del 18 maggio 1935, intitolata « il famoso fachiro Adolfo sulla sua pedana di baionette ». L'atteggiamento bellicoso della nuova Germania incominciava a destare apprensioni in tutto il mondo e particolarmente nel governo e nell'opinione pubblica francese.



    Il posto al sole

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    2 ottobre 1935. Prendendo a motivo l'assalto abissino ai pozzi di Ual Ual, le truppe italiane dislocate in Eritrea varcato il confine del Mareb, iniziarono quella brillante campagna africana che doveva portare, il 5 maggio 1936, alla fine dell'impero negussista di Ailè Selassiè. L'impresa fu giustificata sul piano morale dalla necessità di trovare uno sfogo all'eccedenza demografica nazionale e dal fallimento di tutti i precedenti tentativi di risolvere pacificamente il problema del nostro lavoro in Africa. Il governo italiano tentò di isolare la questione dalla politica europea, ma troppi interessi erano in gioco fra il Mediterraneo e il Mar Rosso, perché non si formasse un fronte diplomatico anti-italiano. Si giunse così alle sanzioni proclamate dalla Società delle Nazioni il 18 novembre 1935.

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    Una caricatura francese dell'epoca della guerra italo-etiopica. L'insuccesso della politica sanzionista capeggiata dall'Inghilterra fu considerato come un fiero colpo al prestigio britannico nel Mediterraneo. Alle sanzioni non avevano aderito la Germania, Il Giappone, l'Austria e l'Ungheria. Si delineava così il futuro fronte dell'Asse Roma-Berlino-Tokio.



    Incontri per la pace

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    Il cinque maggio 1936 le truppe, italiane entrarono nella capitale abissina. Il Negus si rifugiò prima a Gibuti e poi a Londra dove fu accolto con tutti gli onori dal governo britannico. Alcuni mesi dopo le sanzioni, dimostratesi inefficaci, ebbero termine con il riconoscimento del fatto compiuto anche da parte della Gran Bretagna.

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    7 gennaio 1935. Mussolini e Laval a Palazzo Venezia firmano gli accordi italo-francesi. Il riavvicinamento fra le due nazioni latine avviene dopo un lungo periodo di tensione come premessa ad una più larga intesa europea per la soluzione dei problemi aperti dal trattato di Versailles. Laval riconobbe per l'occasione gli interessi italiani in Africa. Non era estranea al riavvicinamento italo-francese la situazione che si era venuta a creare con la sempre crescente potenza hitleriana.

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    11 aprile 1935. Conferenza di Stresa. Ancora una volta l'Italia prese l'iniziativa per ricostruire, in una nuova atmosfera di pacificazione e di comprensione, il fronte dei vincitori della guerra mondiale. Nelle giornate della conferenza, furono discussi fra Mussolini, Mac Donald (Inghilterra), Flandin e Laval (Francia), tutti i problemi europei, con particolare riferimento alla necessità di adeguare la posizione della Germania al suo nuovo peso politico-militare. Si trattava insomma di giungere ad un concreto sistema di sicurezza collettiva che sostituisse gli inefficienti statuti della Società delle Nazioni. Nonostante le speranze sollevate dall'incontro, la conferenza non ebbe alcun risultato pratico a causa dell'atteggiamento britannico e della caduta di Flandin che aprì le porte, in Francia, alla politica ideologica del fronte popolare impersonata da Leon Blum. L'inasprimento dei rapporti internazionali cominciava ad assumere un ritmo fatale.

    La guerra di Spagna

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    Gli storici sono concordi nel considerare la guerra civile di Spagna come la prova generale del secondo conflitto Mondiale. Il 19 luglio 1936, con l'uccisione del capo delle destre Calvo Sotelo, esplose la reazione nazionalista che trovò nella Falange e in parte dell'Esercito, i suoi animatori. L'intervento diretto di Mosca trasformò quello che sarebbe dovuto restare un fatto interno spagnolo in una guerra europea di dottrina per cui alle Brigate Internazionali comuniste che combattevano per il governo rosso di Madrid si contrapposero i legionari italiani 4 tedeschi schierati a fianco dei nazionalisti. Le stragi di quegli anni, di cui furono vittime civili e religiosi, vennero considerate fra le più spaventose della recente storia dell'umanità. La foto in alto ne è una agghiacciante testimonianza. Sotto a sinistra il generalissimo Franco decora i legionari italiani, i quali avevano pagato alla guerra civile spagnola un tributo di cinquemila morti e undicimila feriti. A destra il generale Jose Moscardò, il difensore dell'Alcazar, considerato dalla Spagna d'oggi il simbolo delle virtù eroiche e cavalleresche del suo popolo.

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    Il riarmo tedesco

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    7 marzo 1936. Hitler annuncia al Reichstag la decadenza del trattato di Locarno che fin dal 1925 regolava la smilitarizzazione della regione renana. Nello stesso giorno le truppe tedesche occupano la Renania schierandosi al confine francese. Le nubi nel cielo della pace si addensano.

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    Il capo del fronte popolare francese Leon Blum mentre
    pronuncia alla società delle Nazioni la sua requisitoria contro la politica di preoccupante risveglio nazionalista tedesco.

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    I segni premonitori di quello che sarà il secondo conflitto mondiale non potevano non preoccupare anche la vigile attenzione del Capo della Cristianità Pio XI che in più occasioni fece udire la sua voce ammonitrice. Famosa resterà la sua Enciclica « Divini Redentoris » contro i pericoli del comunismo ateo. A Pio XI successe il Cardinale Eugenio Pacelli col nome di Pio XII.

    La fatale alleanza

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    Settembre 1937. Viaggio di Mussolini in Germania. La spettacolare adunata del Campo di Maggio a Berlino dove Mussolini e Hitler, tennero un discorso al popolo tedesco. Il viaggio e le calorose accoglienze riservate al Capo del Governo Italiano segnarono l'inizio di una sempre più stretta collaborazione politico-militare dei due stati totalitari. Alla base dell'intesa italo-tedesca non vi furono soltanto le somiglianze ideologiche tra nazismo e fascismo, ma anche concreti interessi di fronte all'ormai iniziata politica di accerchiamento degli anglo francesi, con accordi politico-militari fra paesi confinanti con l'Italia e la Germania.

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    Maggio 1938. Il viaggio di Hitler in Italia. A sinistra l'incontro con Mussolini. A destra Hitler e Vittorio Emanuele III sulla berlina reale la sera dell'arrivo a Roma. Le accoglienze romane gareggiarono in grandiosità con quelle riservate 1'anno precedente a Mussolini in Germania. Con questo secondo incontro prendeva corpo il futuro Asse Roma-Berlino e l'alleanza tra i due popoli assumeva politicamente un carattere indissolubile.

    Psicosi di guerra

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    1936. Per le strade di Berlino si simulano attacchi aerei nemici. Un gendarme pone il segnale di pericolo accanto ad una bomba « inesplosa ». Incomincia a diffondersi nei diversi paesi d'Europa quella psicosi di guerra che doveva manifestarsi nelle sue forme più accese e più buffe nel primi mesi del 1939.

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    La psicosi di guerra in Gran Bretagna. Volontarie dei servizi ausiliari in completa tenuta antincendio, con tute d'amianto, maschere antigas ed elmetto regolamentare. Con la proverbiale meticolosità britannica le « prove generali » ebbero luogo in tutte le città del Regno Unito.

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    La psicosi di guerra in Francia. Una squadra di bonifica anti-iprite. La preparazione antiaerea in tutti i paesi era soprattutto orientata verso la difesa dal gas asfissiante.

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    La spettrale figura di una mamma inglese abbondantemente protetta contro le insidie immaginarie dei gas asfissianti tedeschi. La psicosi di guerra raggiunse in Inghilterra punte che si potrebbero definire umoristiche. Si noti nella foto il complicato portenfant.

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    In Inghilterra, naturalmente, si pensò anche ai cani, che si adattarono con evidente fastidio alla maschera antigas. Dopo tante fatiche, quando la guerra venne davvero ci si accorse che era completamente diversa da come si immaginava nelle esercitazioni della vigilia.

    Alleanze e mediazioni

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    Dopo la firma del Patto anticomintern fra Italia, Germania e Giappone. Un alto ufficiale giapponese legge a Tokio, durante una grande manifestazione, un messaggio di amicizia fra i tre paesi, illustrando le ragioni che hanno indotto i tre governi a schierarsi contro la minaccia del comunismo internazionale. Dal Patto Anticomintern nascerà poi il Patto Tripartito che darà un respiro mondiale alla politica di potenza degli stati associati: totalitarismo contro democrazia.

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    Settembre 1938. La crisi dei Sudeti ha condotto l'Europa sull'orlo della guerra. Hitler chiede che le regioni tedesche dei Sudeti, assegnate col Trattato di Versailles alla Cecoslovacchia, vengano restituite alla madrepatria. La Cecoslovacchia, forte delle garanzie franco-britanniche si oppone recisamente alla richiesta, tanto che il conflitto sembra inevitabile. Al momento cruciale la tempestiva azione diplomatica di Mussolini, dopo l'inutile volo di Chamberlain in Germania, riesce a convocare a Monaco di Baviera, per un estremo tentativo di soluzione pacifica, i capi dei governi inglese, francese e tedesco. Dal convegno di Monaco la questione dei Sudeti viene composta in termini di compromesso. I capi di stato, al ritorno nei loro paesi, vengono accolti da manifestazioni di giubilo.
    Il pericolo della guerra sembra scongiurato e la pace ristabilita. Si tratterà invece di un breve armistizio poichè siamo già sul piano inclinato della guerra.

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    22 Maggio 1939. Firma a Berlino del Patto Italo-Tedesco, il « Patto d'acciaio » che perfeziona sul piano militare una intesa ormai in atto da tempo fra le due dittature. Lo schieramento delle forze che dopo sei mesi sarebbero entrate nel conflitto appare così chiaramente delineato: da una parte il blocco italo-tedesco agganciato al Giappone, con i satelliti minori dell'Europa danubiana; dall'altra i franco-inglesi legati con impegno di garanzia verso la Polonia.

    SPOILER (click to view)
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    In nome del principio delle nazionalità e del diritto dei popoli a decidere del proprio destino, alla Conferenza della pace di Versaglia venne distrutta la Monarchia austro-ungarica. Ciò non impedì di creare lo stato mosaico cecoslovacco così chiaramente illustrato in questa cartina. In esecuzione degli accordi di Monaco, il 2 ottobre 1938 le truppe tedesche occuparono i loro territori ed altrettanto fecero i polacchi e gli ungheresi. Gli slovacchi si proclamarono indipendenti.

    Il dominio del mare

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    Il rapido aggravarsi della situazione internazionale pone in primo piano per tutti i paesi il problema degli armamenti. L'Italia dedica particolari cure alla Marina da Guerra che è destinata a sostenere in un eventuale conflitto nel Mediterraneo il peso delle flotte coalizzate inglese e francese. Nel 1939 entrano in squadra le prime corazzate da 35.000 tonnellate della classe "Littorio". La flotta sottomarina aveva conquistato il secondo posto tra tutte le marine del mondo.

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    Chamberlain è passato alla storia col nomignolo irrispettoso dell'uomo dell'ombrello. Ma il suo aspetto mite non deve far pensare che non si rendesse conto della minaccia che gravava sulla Gran Bretagna. A lui l'Inghilterra deve la rapida messa a punto dell'aviazione che giocò in guerra un ruolo di primissimo piano.

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    I programmi navali tedeschi, pur senza trascurare la flotta di superficie, curarono in modo speciale la costruzione di una potentissima flotta sottomarina. In proposito l'alto comando tedesco aveva un'esperienza formidabile derivante dai successi ottenuti nella guerra di corsa sottomarina durante il primo conflitto mondiale. Oltre alla costruzione di centinaia di sommergibili, la marina tedesca potette mettere, in mare alcune formidabili corazzate come la Bismark e la Deutcheland.

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    Marzo 1939. La Cecoslovacchia è nuovamente alla ribalta dell'attenzione internazionale. Moti interni provocati dalla tradizionale rivalità fra cechi e slovacchi diedero il pretesto a Hitler per intervenire con le armi. Si giunse così allo smembramento di quello che era stato definito lo « stato salsicciotto ». Nella foto un momento della grave insurrezione di Bratislava.

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    Benes, il Presidente Cecoslovacco, fautore di una politica di
    intransigenza nei riguardi delle rivendicazioni tedesche, continuò all'estero la sua attività in difesa dell'unità e dell'indipendenza del suo paese. Alla spartizione della Cecoslovacchia parteciparono anche la Polonia e l'Ungheria.

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    15 marzo 1939. I carri armati tedeschi entrano a Praga. La Boemia e la Moravia vennero poste sotto il protettorato tedesco, mentre la Slovacchia, sotto il governo di Monsignor Tiso, dichiara la sua indipendenza e fissa la sua capitale a Bratislava.

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    7 Aprile 1939. Truppe italiane occupano l'Albania. Re Zogu,
    che doveva il suo trono all'appoggio italiano ed era stato
    sostenuto e sovvenzionato per molti anni da Roma, era stato accusato di orientare la politica del suo paese verso interessi contrari a quelli dell'Italia. Zogu si rifugiò in Egitto.
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    Preludio alla guerra

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    Infiniti furono nei mesi cruciali della crisi i tentativi di mediazione da parte di varie personalità europee. Del problema si occuparono, oltre a Mussolini il Papa Pio XII appena eletto al soglio di Pietro, il Presidente Roosevelt e re Leopoldo del Belgio. Tutto fu inutile: l'intransigenza dei due contendenti rese impossibile una soluzione di compromesso. Ad un tratto, inaspettato, nel momento in cui a Mosca i diplomatici franco-inglesi tentavano di negoziare un accordo con l'URSS giunse l'annuncio della firma di un patto di non aggressione, stipulato fra Ribentropp e Molotov presente Stalin. La macchina di guerra tedesca, copertesi le spalle ad oriente, potette iniziare la sua marcia travolgente sulla pianura polacca. Il dado era oramai tratto.

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    Nei primi mesi del 1939 l'Europa ormai senza pace ha un nuovo scossone. Le rivendicazioni tedesche, soddisfatte in Cecoslovacchia, si indirizzano verso le zone occidentali della Polonia ed in particolare su Danzica e sul corridoio omonimo. La polemica si fa subito violenta, lasciando temere il peggio. La Polonia è coperta dalla garanzia anglo-francese ed un colpo di mano tedesco significherebbe la guerra in! tutta l'Europa. E la guerra sarà infatti!

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    Agosto '39. A Varsavia il Presidente della Polonia Masarik passa in rassegna reparti dell'esercito in assetto di guerra. L'antica fierezza del popolo polacco si ridesta in questi giorni, di trepidazione. Il paese è pronto a combattere per la sua indipendenza.

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    Il Maresciallo Ridtz comandante in capo dell'esercito Polacco. Considerato un abile stratega, si trovò a fronteggiare forze troppo superiori per numero e per mezzi, senza poter contare sui promessi aiuti degli alleati occidentali.

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    Il reparto della leggendaria cavalleria polacca che nei primi giorni del conflitto si sacrificò interamente combattendo contro i carri armati di Hitler. L'eroismo dei soldati polacchi fu vano. In pochi giorni di offensiva le truppe tedesche ruppero il fronte e dilagarono nell'interno del paese.

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    La parola al cannone

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    1 settembre 1939. Tutti i tentativi di pacificazione sono falliti. Questa fotografia documenta l'inizio della seconda guerra mondiale: svellendo la sbarra di confine con la Polonia, i soldati tedeschi davano l'avvio alla spaventosa avventura durata sette anni e destinata a coinvolgere nel conflitto tutto il mondo civile.

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    Hitler entra in Danzica liberata, salutato dall'entusiasmo della popolazione tedesca. Il fatale nome della città, che per milioni di uomini in ansia aveva significato « guerra », scompare dalle pagine dei giornali per lasciare il posto ai nomi di altre città coinvolte nel turbine della guerra, così in Polonia, come in Francia, come nel Belgio, come in Finlandia. Più tardi, con l'intervento dell'America e della Russia, tutti i Continenti saranno in fiamme.

    La Battaglia di Finlandia

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    La campagna polacca, iniziata dalla Wermacht il primo settembre 1939, ebbe uno svolgimento fulmineo e si concluse in poco più di un mese. I piani del comando tedesco prevedevano cinque direzioni principali di attacco. A nord, le armate della Pomerania e della Prussia Orientale dovevano ricongiungersi nel corridoio di Danzica, tagliando fuori le truppe polacche dislocate in quel settore. A sud, invece, le truppe tedesche provenienti dalla Slesia e dalla Slovacchia dovevano iniziare una vasta manovra di accerchiamento. La meta delle varie puntate offensive erano: Varsavia, Lodz, Cracovia e Lublino.

    All'atto pratico questo piano subì qualche modifica, in quanto la resistenza delle truppe polacche, malgrado l'eroismo di singoli reparti, fu dovunque inferiore al previsto. Mancò fin dal primo momento, al generalissimo polacco, la possibilità di manovrare per sottrarsi alla morsa tedesca. E, ben presto, al vari tronconi delle armate polacche mancò anche l'unità di comando. Nella foto In alto: la leggendaria cavalleria polacca in una delle sue cariche disperate contro le armate corazzate tedesche. Nella foto in basso; carri armati germanici schierati nella pianura polacca attendono l'ordine di avanzare.

    L'INTERVENTO Franco-Britannico

    Sulle pianure polacche, in fulminei attacchi, i tedeschi, lanciarono, per la prima volta nella storia, le grandi unità corazzate. I carri armati, che lino allora erano stati considerati soltanto come un mezzo da impiegare per l'appoggio tattico alle truppe avanzanti, ebbero invece una funzione strategica. Fu questa infatti, la grande sorpresa del comando tedesco. E furono i carri armati (o, meglio, le « panzer-divisionen) a vincere, con l'aviazione, la guerra sul fronte orientale. L'esercito polacco combattè con molta bravura contro i tedeschi. Il suo eroismo è stato unanimemente riconosciuto. Basti pensare, del resto, che nuclei isolati resistettero a lungo quando già una buona metà del territorio nazionale era già invaso. E' il caso di Gdynia, caduta solo il 19 settembre; di Modlin, che ai arrese il 28 settembre; della Penisola di Hela, di fronte a Danzica, che continuò a resistere fino al 1° ottobre quando già Varsavia era caduta e l'esercito polacco era dissolto. Ma un esercito dall'armamento antiquato, educato per la resistenza in trincea, senza mobilità, senza aviazione, che confidava ancora nella cavalleria contro i carri armati, non poteva reggere all'ondata di ferro e di fuoco lanciatagli addosso dal comando tedesco. E non resse. Non era passata infatti una settimana che già l'unità di comando era finita. Il 17 settembre, poi, nella gigantesca sacca di Kutno, il nerbo dell'esercito era distrutto. Su una scala ancora più vasta, s'era ripetuta la manovra di accerchiamento dei Laghi Masuri con la quale, più di vent'anni prima, un altro tedesco, Hindenburg, aveva colpito in quelle stesse pianure, gli eserciti dello zar. La storia della campagna polacca del 1939 è molto semplice da fare, quindi. E' la storia di un'avanzata senza soste, di una serie di manovre a tenaglia. E si risolve, alla fine, in un elenco di città conquistate, con a fianco una data: Graudenz e Bromberg, 4 ottobre; Kattowitz, 5 ottobre; Cracovia, 6 ottobre; Lodi, 9 ottobre; Bialistok, 16 ottobre; Przemysl, 17 ottobre. Dopo questa data è perfino impossibile seguire un'esatta cronologia. E' una frana. Ai tedeschi attaccanti da occidente s'erano aggiunti i sovietici avanzati da oriente. La tragedia polacca s'avviò quindi alla sua conclusione fumineamente. Il 27 settembre s'arrendeva Varsavia, dopo una resistenza eroica ed inutile. Un dramma che si sarebbe ripetuto ancora, prima della fine della guerra, nella ribellione popolare contro gli occupanti tedeschi. Mentre la Polonia combatteva, il fronte occidentale, sul quale si erano rapidamente schierati gli eserciti, dava l'impressione che la guerra non esistesse. Ma non esistesse, sopratutto, la guerra lampo. Chiusi nelle loro casamatte blindate, i francesi e i britannici attendevano gli eventi. Qualche duello di artiglieri, ogni tanto. Qualche azione di pattuglia. Qualche incursione aerea (più rumore che danni!). Tutto qui. Sembrò anzi che questa inattività preludesse ad una soluzione diplomatica del conflitto prima che accadesse l'irreparabile, Ma era una illusione destinata a cadere. Alle soglie dell'inverno, però, un evento importante scosse l'apatia generale. L'Unione Sovietica, che in forza di accordi con i tedeschi, aveva partecipato alla spartizione della Polonia, iniziò quell'azione di assestamento della sua linea di confine che le avrebbe scatenato addosso, nell'estate del '41, l'offensiva di Hitler. Il primo colpo le andò bene, con una serie di patti di mutua assistenza l'URSS si assicurò importanti basi nei paesi baltici. Era il preludio alla successiva annessione. Poi fu la volta della Finlandia, alla quale furono chieste rettifiche di confine e cessioni di basi militari. Helsinki rifiutò. E fu la guerra. Il 26 novembre le truppe sovietiche passarono all'attacco in Carelia, nella regione dei laghi e nell'estremo nord, a Petsamo. Secondo la generale convinzione, il colosso russo avrebbe annientato le resistenze finniche in pochi giorni. Si sarebbe trattato, cioè, di un bis della Polonia. Ma non fu così. Fino alla metà del febbraio 1940, il piccolo esercito finnico, sfruttando abilmente le particolari condizioni ambientali del fronte, tenne in in scacco i sovietici. Questi ultimi, poi, a quanto sembra, avevano commesso l'errore di sottovalutare l'avversario. Un nome, sopratutto, emerge, dalla cronaca di quei mesi: Mannerheim. Il vecchio maresciallo, che già nel '18 aveva combattuto contro i russi per l'indipendenza del suo paese, fu l'animatore e l'eroe di quella resistenza. Ma con lui va reso onore a tutto il popolo finnico, il quale diede al mondo la prova di quello che può la disperata decisione di una Nazione decisa a lottare per la propria libertà. Tuttavia, anche la resistenza finnica ebbe fine. L'afflusso di sempre nuovi rifornimenti da parte sovietica, il progressivo dissanguamento, le forti perdite, costrinsero Mannerheim a chiedere l'armistizio. Il 12 marzo, a Mosca, venne firmata la pace, L'URSS aveva ottenuto, ma a caro prezzo, le sue basi in Finlandia. Per chiudere, ricorderemo che la guerra finnica minacciò per qualche settimana di modificare il destino del mondo. Da ambo le parti, infatti, si simpatizzò per il piccolo popolo eroico. E questa simpatia si tramutò, in campo occidentale, in un'offerta di aiuti militari. Ma il corpo di spedizione franco-britannico non fu inviato in Finlandia per il veto opposto dagli altri paesi scandinavi, nella conferenza di Copenaghen, al passaggio delle truppe sul loro territorio. Si evitò così un conflitto con l'Unione Sovietica. Ed è facile immaginare quali conseguenze avrebbe avuto.

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    I termini dell'alleanza franco-anglo-polacca prevedevano l'intervento dei due paesi occidentali nel caso di aggressione alla Polonia. Malgrado i tentativi in extremis della diplomazia italiana, francesi e britannici il 8 settembre dichiararono la guerra alla Germania. L'Italia proclamò il 1° settembre la non belligeranza. Si trattava di una formula nuova, negli annali diplomatici. Ma era, in pratica, una posizione di attesa resa necessaria dallo stati di esaurimento in cui si trovavano le truppe italiane dopo le guerre d'Africa e di Spagna. Durante la campagna polacca, britannici e francesi malgrado le sollecitazioni degli alleati orientali, rifiutarono di prendere l'offensiva e rimasero inerti dietro allo schermo della Maginot, ad assistere alla rapida fine della Polonia. Nella foto in alto Il Gran Consiglio del fascismo proclama la non belligeranza. Sotto Chamberlain, Primo Ministro britannico, e la consorte escono armati di maschera antigas da Downing Street dopo la dichiarazione di guerra.

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    Sulla strada di Varsavia

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    Le truppe polacche reagirono vigorosamente ai primi attacchi tedeschi, soprattutto nel settore centrale del fronte. Ma al terzo giorno di offensiva la Wermacht impose alle truppe del maresciallo Ridtz-Smigly la ritirata generale. Il tre settembre le truppe tedesche avevano già spezzato in due le armate polacche nel settore nord del Corridoio di Danzica, ricongiungendo la Prussia Orientale alla Pomerania. Il giorno successivo venivano conquistate dai carri armati Graudenz e Bromberg. Nella foto in alto: Truppe di fanteria polacche al contrattacco di fronte a Posen. Nella foto in basso: formazioni tedesche provenienti dalla Prussia Orientale attaccano le posizioni polacche nel famoso «corridoio».

    Guerra aerea: gli Stukas

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    Gli Stukas, apparecchi da bombardamento in picchiata furono i protagonisti principali della guerra aerea sulla Polonia. Impiegati isolatamente o a stormi, intervennero nella distruzione delle fortificazioni di confine, nell'annientamento delle colonne di rifornimento ed ebbero anche un terrificante effetto psicologico sulle truppe e sulle popolazioni civili con il loro lacerante sibilo durante gli attacchi. Nella foto sotto: gli effetti terrificanti di un bombardamento di Stukas su una cittadina polacca. La Polonia subì, per i bombardamenti aerei, gravissimi danni. Particolarmente colpita fu la capitale, Varsavia.

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    La guerra lampo

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    L'impiego di truppe aero-trasportate, unito alla mobilità dei reparti autocarrati e delle divisioni corazzate, diede all'esercito tedesco altri punti di vantaggio sui polacchi, che disponevano di buone fanterie ma non di moderni mezzi di guerra.

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    Il generale Fritsch, comandante di un'armata tedesca,
    mentre esamina le carte topografiche con gli ufficiali del suo stato maggiore. Il generale Fritsch, cadde in combattimento dinnanzi a Varsavia.

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    Soldati tedeschi esaminano i relitti contorti di un apparecchio polacco abbattuto dalla caccia tedesca. Fin dal primo giorno la Lutwaffe ebbe, sul fronte orientale, il dominio del cielo.

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    La presenza in Polonia di forti minoranze tedesche, dichiaratamente irredentiste, causò al comando polacco molte preoccupazioni. Particolarmente nella zona di Posen e del « corridoio », gruppi di franchi tiratori tedeschi affiancarono l'offensiva di Hitler. Nella foto, una pattuglia polacca perquisisce un contadino sorpreso nelle vicinanze del fronte.

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    La bandiera di guerra tedesca sale sul forte della Westerplatte, conquistato dopo un furibondo bombardamento d'artiglieria. Sono evidenti gli effetti del tiro distruttivo.

    Il crollo della Polonia

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    L'armata tedesca ha raggiunto Modlin ed ha completato l'accerchiamento di Varsavia. Bialystok e Przemysl sono cadute. Le avanguardie naziste sono in vista di Brest-Litovsk ove, nel 1917, era stato firmato lo storico armistizio con la Russia bolscevica. Il 17 settembre l'ultima resistenza nella grande sacca di Kutno è spezzata e i tedeschi si attestano sulla linea Stryi-Leopoll-Brest-Litovsk-Bialistok. Nello stesso giorno i sovietici annunciano il loro intervento per la protezione delle minoranze russe e rutene e invadono la Polonia da oriente. La sorte della sfortunata e valorosa nazione è ormai segnata. Nella foto: una visione del bottino di guerra catturato dai tedeschi nella sacca di Kutno.

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    II governo polacco, abbandonata Leopoli che era stata la sua prima tappa dopo la fuga da Varsavia, si rifugia a Kuty, presso la frontiera romena, da dove raggiungerà successivamente la Francia. A Gdyila sono cessati gli ultimi combattimenti. I sovietici hanno raggiunto Wilno e Grodno. Ma la disperata resistenza continua ancora a Varsavia e a Leopoli, nonchè a Modlin. I polacchi combattono per l'onore della bandiera. Nella foto: i tedeschi impegnati in furiosi combattimenti nelle strade di Varsavia. Dietro a barricate, Improvvisate utilizzando anche i tram cittadini, le truppe polacche resistono ancora.

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    Da questa foto, ripresa da un apparecchio da ricognizione germanico si vedono i risultati di un bombardamento aereo tedesco su un campo di aviazione polacco. E' forse il primo esempio della tecnica del bombardamento a tappeto, effettuato da formazioni massicce.

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    ll generale Wather von Brauchitsch venne nominato Comandante Supremo dell'Esercito Tedesco nel febbraio 1938 a seguito delle dimissione di von Fritsch. Nato il 4 ottobre 1881, a 19 anni venne nominato sottotenente. La sua arma preterita fu l'artiglieria fino a diventarne il Comandante Generale.

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    Anche il porto polacco di Gdynia venne investito nei primi giorni di offensiva. Le truppe polacche, sebbene isolate, si difesero con disperato valore e capitolarono solo quando ogni resistenza apparve vana. Nella foto, il relitto di un piroscafo affondato nel porto. 1 sommergibili polacchi, malgrado alcune perdite, riuscirono a prendere il largo e si rifugiarono in Gran Bretagna continuando a combattere.

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    Le popolazioni polacche, prese dal panico, abbandonarono le loro case e seguirono le truppe
    in ritirata per sfuggire agli effetti distruttivi dei bombardamenti aerei e dei concentramenti di artiglieria. Sulle strade battute dagli Stukas morirono così migliaia di persone. Un notevole numero di profughi attraversò la frontiera romena e si rifugiò successivamente in Francia. Da questa massa di persone e dai militari sbandati che avevano chiesto asilo in Romania, nacque poi l'esercito polacco in esilio.

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    Il rovescio assume gravi proporzioni: Il 6 settembre è caduta Cracovia. il giorno successivo tutta l'alta Slesia.
    Il dieci comincia, la grande battaglia di annientamento
    che in sette giorni distruggerà il grosso dell'armata polacca. Nella foto: le armi catturate.

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    27 settembre 1939. Il comandante polacco di Varsavia accetta l'ennesima intimazione dì resa
    e ordina di cessare una resistenza ormai del tutto inutile. Il giorno successivo sarà la volta di Modlin, mentre la penisola di Hela resisterà fino al primo ottobre. La campagna polacca è terminata. Nella foto: i plenipotenziari polacchi si incontrano con ufficiali tedeschi per la firma della capitolazione e si stringono cavallerescamente la mano.

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    I sovietici, entrati in Polonia negli ultimi giorni di guerra,
    avevano occupato tutta la fascia orientale, congiungendosi
    alle truppe tedesche a Brest Litovsk e a Leopoli. Il 22
    settembre, a Bjalistock, veniva firmato, tra i due eserciti,
    un accordo per la delimitazione delle zone di occupazione.

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    L'indipendenza polacca, per la quale si erano sacrificate generazioni e generazioni di patrioti, non è più che un ricordo. La Germania istituisce nei territori occupati il Governatorato Generale. I sovietici procedono alla virtuale annessione dei territori invasi. La foto commenta e sintetizza la tragica situazione risultante per i Polacchi dalla guerra e dalla duplice invasione straniera.
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    A ovest nulla di nuovo

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    Mentre sulle pianure polacche i tedeschi avanzano rapidamente frantumando le ultime disperate resistenze avversarie, sul fronte occidentale, malgrado i drammatici appelli di Varsavia, vi era la stasi più completa. I due eserciti si erano rapidamente schierati l'uno sulla «Linea Sigfrido » e l'altro sulla « Maginot ». Gli inglesi, per parte loro, avevano già inviato in terra di francia un corpo di spedizione. Ma nei primi mesi del conflitto tutto si ridusse a duello di artiglieria e azione di pattuglie. Nella foto: riservísti francesi alle armi.

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    Artiglieria da campagna francese spara contro le linee tedesche. Nei primi mesi del conflitto il consumo di munizioni raggiunse, malgrado la stasi delle operazioni, punte elevatissime. Il problema dei rifornimenti e della produzione si impose subito all'attenzione degli stati maggiori e delle intendenze.

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    Un mitragliere francese al suo posto di combattimento.
    Gli armamenti francesi, sopratutto nel settore delle armi leggere e da accompagnamento, erano considerati fra i più moderni ed efficienti del mondo.

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    Dietro lo schermo, ritenuto sicuro e solido, della Linea Maginot, l'esercito francese mise a
    punto la sua organizzazione. Poderoso per numero e per mezzi, comandato da generali di altissimo prestigio, appoggiato da una discreta aviazione e dagli alleati britannici, l'esercito di Gamelin era certo di poter tener testa ai tedeschi. Nella foto: Un reparto colombofilo.

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    Il comandante in capo Gen. Gamelin. Il suo prestigio come stratega era altissimo. Uscito dall'Accademia di S. Cyr, Gamelin aveva combattuto valorosamente nella prima guerra mondiale. Era l'esponente della classica strategia francese, impostata su una rigida copertura difensiva e tendente al logoramento del nemico. Non credeva alla guerra lampo.

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    Nei pressi di Rouen fraternizzazione fra reparti britannici e francesi. In terra di Francia
    particolare curiosità avevano destato i gonnellini delle truppe scozzesi che si notano anche nella foto.
    La guerra non aveva ancora perso i suoi aspetti di colore. Ma nei mesi successivi,
    il fango della trincea avrebbe coperto e livellato tutte le uniformi.

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    Fino alla primavera del 1940, le isole britanniche non sentirono la guerra che per qualche, modesto bombardamento aereo notturno e per gli effetti del blocco sottomarino. La tradizionale flemma britannica, però avrebbe dovuto sopportare prove assai più dure. Nella foto: studenti di Eton che al tradizionale tubino hanno aggiunto una modernissima maschera antigas.

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    Ufficiali britannici in visita alla linea Maginot, si interessano della torretta blindata di
    fortino, ultima creazione della tecnica militare in tema di cemento armato.

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    Mentre la « Home Fleet > fa la guardia nel mare del nord, mentre i reparti britannici passano la Manica per affiancarsi ai francesi, fervono in Inghilterra le iniziative « patriottiche ». Tra queste, molto singolare, la mania dei tatuaggi che prese, oltre agli uomini, anche le donne. Naturalmente, al posto dei soliti cuori trafitti in quei giorni
    gli specialisti copersero l'epidermide delle donne britanniche di "Union Jack".

    Blocco e contro blocco

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    Nel settembre 1939 l'Inghilterra dichiarò il blocco totale delle coste tedesche. Forte della sua indiscussa supremazia marittima, la flotta britannica era
    rimasta padrona del mare del Nord fin dal primo giorno di guerra. Tuttavia i sommergibili tedeschi le diedero, per tutta la durata del conflitto, molto filo da torcere. Nella foto: da un porto britannico si muovono le corazzate e gli incrociatori pesanti della «Home Fleet ».

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    I tedeschi risposero alla dichiarazione britannica di blocco con una dichiarazione di controblocco e con la guerra sottomarina totale. In pochi giorni posamine di superficie e sommergibili appositamente attrezzati, disseminarono il Mare del Nord e anche la Manica di mine di tipo modernissimo. Le perdite britanniche, specialmente ad opera delle mine magnetiche ed acustiche, furono fortissime.

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    La prima grande vittoria tedesca sul mare fu costituita dall'affondamento, avvenuto nell'Atlantico ad opera di un sommergibile, della portaerei britannica « Courageous » che vediamo nella foto. A causa dell'insidia delle mine e per i continui attacchi aerei, la flotta britannica dovette ridurre le sue crociere nel mare del Nord, consentendo così ai tedeschi la tradizionale guerra di corsa che però diede risultati inferiori a quelli della guerra 1915-18.

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    Un colpo sensazionale fu quello del comandante Prien il quale col suo sommergibile riuscì a penetrare, entro la munitissima base britannica di Scapa Flow silurando e affondando la corazzata Royal Oak. La propaganda diede il massimo rilievo all'impresa di Prien, poichè nella stessa baia, vent'anni prima, la Flotta tedesca si era auto affondata per non subire l'onta della resa.
    Poco più tardi, il 21 dicembre 1939, gli inglesi resero in un certo senso, la pariglia al colpo di mano dei Comandante Prien con il Tenente di Vascello Phillips che al comando del sommergibile «Ursula » penetrò, superando con grande audacia tutti gli sbarramenti di mine e la forte vigilanza, nella foce dell'Elba e silurò un incrociatore di 6.000 Tonnellate della classe Koln.

    Al di qua al di la del Reno

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    Alle soglie del primo inverno di guerra, le truppe che si fronteggiavano sulle due sponde del Reno, si prepararono ad affrontare, più che gli attacchi nemici, la durezza della stagione. Con la prima neve, anzi, cessarono perfino i duelli di artiglieria e gli scontri di pattuglie. Nella foto: un reparto francese dà il cambio ai commilitoni in un fortino della Linea Maginot.

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    Malgrado le condizioni proibitive del tempo, da ambo le parti l'aviazione esplicò una discreta attività di disturbo. In questo periodo si registrarono i primi attacchi a città indifese, dall'una e dall'altra parte del fronte. Nella foto: una batteria della Flak tedesca durante un'incursione notturna di aerei inglesi.

    L'attacco Russo alla Finlandia

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    Il patto di non aggressione russo-tedesco del 23 agosto era stato firmato dalla Germania con lo scopo preciso di garantirsi alle spalle in caso di guerra con le democrazie occidentali. Da parte sovietica, invece, il trattato venne interpretato come un tacito consenso nazista all'estensione dell'influenza sovietica sui i paesi baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia), nonchè sulla Finlandia e su parte della Polonia. In quest'ultimo paese, l'intesa fra i due dittatori fu relativamente facile e, dopo l'occupazione sovietica della parte orientale della Polonia, si giunse, il 28 settembre, ad una delimitazione delle zone di occupazione e di influenza. Successivamente, senza palese contrarietà da parte tedesca, l'URSS impose ai tre paesi baltici trattati di mutua assistenza, comprendenti cessioni territoriali e l'uso di alcune basi militari. Era chiaro il disegno della diplomazia di Mosca: tornare, approfittando degli impegni tedeschi in occidente, alle posizioni zariste nel Baltico, perdute negli anni della rivoluzione. Ma quando l'URSS si volse verso la Finlandia per ripetere il gioco, si trovò di fronte ad una resistenza fiera e insospettata. Nella foto: Il Maresciallo Mannerheim Comandante dell'esercito Finnico, (a sinistra) circondato dal suo stato maggiore.

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    La resistenza del piccolo esercito finnico fu eroica e si impose all'ammirazione del mondo. Fin dal primo giorno i poderosi attacchi sovietici, condotti con grande dispendio di uomini e di mezzi, si infransero sulle linee avversarie. Fu un miracolo dovuto all'entusiasmo patriottico dei finlandesi e all'abilità dei loro generali che già nel 1918, ai tempi delle lotte per l'indipendenza, avevano dimostrato il loro grande valore. Nella foto: il generale Ostermann, fedele collaboratore del maresciallo Mannerheim.

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    L'URSS aveva chiesto alla Finlandia alcune pesanti concessioni, comprendenti tra l'altro l'istmo della Carelia meridionale e le miniere di nikel di Petsamo all'estremo nord. Ma il governo di Helsinki, pur conscio della potenza dell'avversario e della limitatezza delle proprie forze, respinse le pretese russe che avrebbero ridotto ad una finzione la indipendenza nazionale finlandese. In seguito al rifiuto finnico l'URSS iniziò il 26 novembre l'attacco alla piccola nazione. Nella foto: il Presidente della repubblica finnica, Kallio, mentre visita gli apprestamenti militari della Linea Mannerheim.

    La guerra sotto zero



    La guerra sui varia fronti della Finlandia, ma soprattutto nella zona dei laghi e nell'estremo nord, ebbe aspetti completamente inediti, per le particolarissime condizioni ambientali e climatiche. I finnici, sotto l'abile guida del maresciallo Mannerheim, seppero sfruttare a fondo la conformazione geografica del loro paese ed organizzarono le truppe in modo da tenere in scacco i massicci attacchi sovietici. Anche la renna, fu un'alleata preziosa nella battaglia invernale.



    Mentre sulla linea Mannerheim, che sbarrava l'istmo careliano, gli attacchi dei carri armati sovietici erano resi vani da un munitissimo sistema di fortificazioni, negli altri settori del fronte i reparti finnici di sciatori infersero duri colpi al nemico con brillanti colpi di mano. Scivolando silenziosamente tra i boschi. i bianchi soldati di Mannerheím giungevano di sorpresa alle spalle delle formazioni nemiche, distruggendole.

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    Il mascheramento mimetico degli sciatori finlandesi era perfetto. Una tuta bianca copriva le loro uniformi e li confondeva nel nitore della neve. Temprati
    da una costante pratica sportiva, i finnici furono combattenti coraggiosi e decisi. Qui uno schieramento di fucilieri in difesa contraerea.

    Singolari amicizie

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    L'eroica resistenza finlandese commosse il mondo che pure era impegnato, da parecchi mesi, in un grande conflitto. Cosi nel campo delle democrazie, come in quello italo-tedesco, numerose furono le iniziative a favore della Finlandia, specialmente per l'assistenza ai feriti. Francia e Gran Bretagna giunsero perfino ad organizzare un corpo di spedizione che avrebbe dovuto venire in aiuto ai finlandesi. Ma alla conferenza di Copenaghen i paesi scandinavi rifiutarono il passaggio alle truppe franco britanniche e l'iniziativa fu abbandonata. L'URSS in seguito all'attaco della Finlandia, fu espulsa dalla Società delle Nazioni che ancora sedeva a Ginevra. Nella foto alcune crocerossine francesi in partenza per Helsinki.

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    La lotta, per i rigori della stagione invernale, fu durissima. Ma i sovietici, che avevano fatto affidamento sulla loro strapotenza di mezzi per vincere rapidamente la partita, subirono le maggiori conseguenze perchè erano impreparati ad affrontare l'inverno. Numerosissimi furono, tra i russi, i casi di congelamento.
    Nella foto: protetti da folte pellicce e incappucciati come fantasmi, gli sciatori finnici passano al contrattacco nel settore centrale del fronte.
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    Primo Natale di guerra

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    25 dicembre 1940. E' il primo Natale di guerra. Su tutti i fronti, meno che su quello finlandese, il cannone tace per un giorno. Ma, pur fatti segno ad un ennesimo attacco, i finlandesi celebrano la Natività. Sull'albero di Natale, come sulle linee strenuamente difese, sventola la bandiera della Patria.

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    Nell'eroica difesa contro l'attacco russo, le perdite finniche furono gravissime. Migliaia di morti, decine di migliaia di feriti; ecco il pesante prezzo della libertà e dell'indipendenza per il piccolo popolo. Nella foto: un ferito finlandese verso il pronto soccorso. Il gelo rese più penose le condizioni dei colpiti.

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    La Finlandia è i1 paese dei laghi tanti ve ne sono dìsseminati in tutto il territorio nazionale. La popolazione conta poco più di 4 milioni. Le maggiori risorse sono le foreste e la pesca. La zona di Petsamo, con le più ricche miniere di nikel del mondo, ora in mano alla Russia, è stato il motivo principale che ha determinato il conflitto russo-finnico.

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    L'incrociatore Graf von Spee, di diecimila tonnellate, era una delle cosidette «corazzate tascabili» della marina tedesca. Costruito mentre erano ancora in vigore le clausole militari del trattato di Versailles (alla marina tedesca era vietato di costruire navi di tonnellaggio superiore alle 10.000 tonn.) era un autentico gioiello di perfezione tecnica ed aveva la potenza di fuoco di una corazzata. All'inizio del conflitto, eludendo il blocco britannico (anche altre navi tedesche erano riuscite nella stessa impresa) l'incrociatore iniziò la guerra di corsa nell'Atlantico; con discreto successo. Il 13-12-1939 una formazione navale britannica scoprì l'incrociatore al largo della costa Uruguayana e ingaggiò battaglia. Il « von Spee », colpito da varie cannonate, si rifugiò nel porto neutrale di Montevideo per riparare i danni. Ma, avuta dalle autorità uruguayane l'intimazione di abbandonare il porto entro 48 ore, il comandante dell'incrociatore, ubbidendo agli ordini di Berlino, portò la nave al limite delle acque territoriali dello stato neutrale e procedette all'autoaffondamento. Il gesto fu compiuto perchè il « von Spee », a causa dei danni e della superiorità dell'avversario, avrebbe certamente perduto la partita sacrificando inutilmente l'equipaggio.

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    In una vignetta del giornale inglese « Daily Express » è ridicolizzata la stasi tedesca dell'inverno 1939-40. Hitler cogitabondo si trascina dietro la Wermach indeciso su quale punto attaccare. La bomba esploderà il 9 aprile 1940 con l'attacco alla Norvegia.



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    Il comandante dell'incrociatore « Graf von
    Spee », Hans Langsdorf, dopo aver disposto per il salvataggio dei membri dell'equipaggio, si suicidò in nome della tradizione per cui il Comandante segue la sorte della sua nave.

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    Malgrado la superiorità di mezzi della marina sovietica, nel dicembre il naviglio leggero finlandese tenne sgombero il golfo di Finlandia consentendo l'afflusso dei rifornimenti. Poi il gelo bloccò ogni comunicazione sul mare e la guerra assunse aspetti particolarmente aspri.

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    Artiglieria finnica in azione nelle retrovie della Linea Mannerheim. Gli attacchi sovietici
    vennero ripetuti quasi senza interruzione in dicembre, gennaio e febbraio. Ma solo al principio di marzo le truppe russe riuscirono ad incrinare la resistenza dell'avversario.

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    Feriti finlandesi vengono sgomberati verso le retrovie. Nel cuore dell'inverno le comunicazioni con i mezzi normali divennero difficilissime. Per Il traffico dei rifornimenti, ambo le parti combattenti dovettero utilizzare i sistemi classici: slitte trainate da cani.

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    L'esperienza ha dimostrato che nella guerra moderna le sofferenze maggiori sono riservate
    alla popolazione civile. Sopratutto i bambini nel recente conflitto mondiale hanno pagato un
    alto tributo di sacrifici. Qui, bimbi profughi finlandesi accolti alla frontiera con la Svezia.

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    Particolarmente brillante fu il comportamento delle truppe
    finniche all'estremo nord, dove combatterono a temperature polari contro forze infinitamente superiori. Il loro comandante fu il generale Wallenius.

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    Alla metà di febbraio, i sovietici, dopo aver riorganizzato le loro truppe, assai provate dalla resistenza finnica e dal rigore dell'inverno, scatenarono sul
    fronte careliano una vigorosa offensiva. Il primo urto venne contenuto. I difensori della Linea Mannerheim, anzi, riuscirono a distruggere completamente numerose colonne sovietiche. Nella loto: mucchi di cadaveri sovietici e relitti contorti di macchine segnano la via della ritirata.

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    L'afflusso di nuove truppe sovietiche ristabilì ben presto la situazione Alla fine di marzo la Carelia meridionale era perduta e si combatteva ormai sull'ultima linea di resistenza del sistema difensivo filandese. Nella foto: un treno sovietico di munizioni. verso il fronte.

    La Finlandia sconfitta

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    Mezzi imponenti furono messi in campo dai sovietici per risolvere di forza la pericolosa situazione del fronte finnico. Contro i carri armati nulla potette la disperata volontà dell'esercito di Mannerheim. La Finlandia fu costretta a chiedere l'armistizio e il 12 marzo firmava a Mosca il trattato di pace con l'Unione Sovietica. Nella foto: carri armati sovietici schierati per l'ultima offensiva.

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    Con il trattato di pace l'URSS si assicurò il possesso dell'istmo di Carelia, di Petsamo e di alcune basi navali ottenendo anche importanti rettifiche di frontiera nel settore centrale. Nella foto: il triste esodo dei finlandesi che abbandonano sulla tradizionale slitta trainata dalla renna le zone cedute alla Russia.

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    Nel quadro dell'azione di blocco e contro-blocco, il naviglio di superficie tedesco ebbe compiti particolarmente duri sopratutto per la enorme sproporzione di mezzi rispetto alla marina britannica. Oltre alla guerra di corsa in mari lontani di cui l'episodio del Graf Spee rimarrà il più notevole, la vigilanza e l'offesa venivano portate fin nelle più remote e desolate regioni artiche, ove il termometro segna costantemente 60" sotto zero. Le incrostazioni di ghiaccio di questa nave germanica, rendono chiaramente l'idea delle proibitive condizioni nelle quali si era costretti a combattere.

    Dalla Norvegia web counter a Dunkerque

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    14 febbraio 1940. Il cacciatorpediniere inglese Cossak abborda nel fiordo norvegese di Josing la nave ausiliaria tedesca Altmark. L'Altmark
    era reduce da una missione di rifornimento alla Graf Von Spee che aveva tragicamente concluso la sua guerra di corsa nell'Atlaintico autoaffondandosi nella rada di Montevideo. A bordo del bastimento tedesco erano duecento prigionieri inglesi che la Marina britannica voleva, liberare. L'episodio,
    svoltosi nelle acque territoriali norvegesi, diede l'avvio ad una violenta polemica che portò all'invasione tedesca del 9 aprile 1940.

    Il nove aprile 1940 il Comando supremo tedesco emanò un comunicato col quale annunciava che « per impedire la violazione da parte britannica
    della Danimarca e della Norvegia », le forze germaniche avevano assunto « la protezione armata dei due paesi ». Si iniziava cosi, nel mare del Nord
    e nell'Atlantico, una gigantesca operazione aeronavale che avrebbe portato le armate hitleriane oltre il circolo polare artico. Ma perchè i tedeschi s'erano imbarcati per una avventura così rischiosa ed incerta, che li avrebbe costretti ad affrontare, nel suo elemento, la poderosa forza navale britannica? Perché s'erano impegnati su un fronte tanto lontano dalle loro basi ed apparentemente secondario? La propaganda nazista giustificò l'impresa affermando che l' azione tedesca si era resa necessaria per prevenire un'analoga mossa britannica, e la tesi sembra non del tutto infondata. I tedeschi, infatti, fin dai primi mesi di guerra sfruttarono la comoda strada di rifornimento che le acque territoriali norvegesi offrivano alle loro navi mercantili e i britannici, nel tentativo di stroncare tale traffico (si trattava dei rifornimenti di minerali di ferro, essenziali per la macchina bellica tedesca), non avevano esitato a violare reiteramente la neutralità del Governo di Oslo. Anzi, nel febbraio, due caccia britannici, penetrati nel fiordo di Josing, avevano abbordato un mercantile germanico, l'Almark, che recava a bordo marinai inglesi prigionieri. A questo clamoroso incidente seguiva poi, l'otto aprile, la posa di campi minati dinnanzi a vari porti norvegesi, effettuata da navi britanniche e francesi. La « Via del ferro » era così interrotta. Ma per poco, che già erano in navigazione le forze germaniche destinate ad occupare la Norvegia. Senza dubbio i tedeschi giocarono d'azzardo, lanciando le loro truppe oltre lo Skager Rak. Ma all'audacia si sposò un perfetto calcolo del tempo e a questo i nazisti dovettero il loro successo sulla più grande potenza navale del mondo. L'ammiraglio Saalwhchter, comandante della squadra navale tedesca che protesse gli sbarchi a terra, sapeva di poter contare, grazie all'elemento sorpresa, su nove ore di vantaggio sull'avversario. Si trattava quindi di prendere solidamente possesso delle principali basi norvegesi prima che la flotta britannica gli fosse addosso. E quelle nove ore furono sfruttate a fondo, da Oslo ad Arendal, da Kristiansand a Stavanger, da Bergen a Trondheim a Narvik, oltre cinquantamila soldati tedeschi furono portati oltre il mare con perdite minime, quando ancora le navi britanniche erano nei loro porti della Scozia. Poche ore dopo, vasti campi minati proteggevano le divisioni navali tedesche dall'offesa nemica, mentre le formazioni corazzate s'irradiavano nell'interno per completare l'occupazione del Paese. La reazione franco-britannica, sia pure tardiva e inefficace, non mancò. In soli cinque giorni, infatti, fu organizzato un corpo di spedizione che il 14 aprile sbarcava in Norvegia a dare man forte ai reparti di Re Kaakon che si battevano valorosamente contro forze superiori per numero e per mezzi. Ma c'era ormai ben poco da fare e se anche per qualche tempo i britannici sperarono di interrompere, con la loro presenza nello Skager Rak, il flusso dei rifornimenti alle truppe sbarcate in Norvegia da Hitler, mettendole così in crisi l'illusione cadde quando l'intervento massiccio dell'aviazione germanica costrinse la flotta inglese ad abbandonare il campo. Comunque, sia ad Andalsnes che a Namsos, sia a Tromsoe che a Narvik, i britannici e i francesi riuscirono a prendere terra e
    a creare difficili problemi ai tedeschi, ormai padroni di metà del territorio norvegese. A Narvik, anzi, i tedeschi dovettero cedere alla superiorità
    avversaria e attestarsi nell'interno, in attesa dei rinforzi. Questi vennero dal cielo con la prima azione massiccia di paracadutisti della guerra. Ancora qualche giorno di lotta e poi, il primo maggio il grosso del corpo di spedizione alleato da vette abbandonare la Norvegia. Rimase tuttavia, all'estremo nord, il contingente che si era battuto a Narvik ma apparve ben presto evidente al comando alleato che il mantenimento della testa di ponte avrebbe richiesto sacrifici troppo alti e il 9 maggio anche questo fiordo veniva abbandonato. Dopo un mese di continua battaglia, la campagna di Norvegia era finita con il pieno successo tedesco. L'eco dell'ultima cannonata non s'era ancora spenta all'estremo nord che già, sul fronte occidentale, fino ad allora completamente fermo, si accendeva un'altra gigantesca battaglia che coinvolse Belgio, Olanda e Lussemburgo. Anche in questo caso l'offensiva tedesca fu preceduta da una dichiarazione dell'alto comando di Hitler con la quale si annunciava la protezione della neutralità dei tre paesi, minacciata dai piani franco-britannici. Ma la tesi, se aveva qualche concreto fondamento nel caso della Norvegia, era completamente falsa per l'Olanda, il Belgio e il Lusseburgo. In realtà i tedeschi, invadendo i tre paesi neutrali, attuavano un piano lungamente e minuziosamente preparato in ogni particolare: piano che, nelle sue linee generali, riproduce quello studiato prima del '14 da von Schlieff e che veniva attuato con mezzi nuovi e con un tecnica di guerra rivoluzionaria. L'invasione del Belgio, dell'Olanda e del Lussemburgo doveva cioè rendere possibile l'aggiramento del grosso dell'armata francese schierata dietro il baluardo della Maginot e consenti , nello stesso tempo, di isolare le forze del corpo di spedizione britannico da quelle dell'alleato, in altre parole, le armate germaniche attaccanti in direzione della Francia attraverso il territorio belga-olandese, si dovevano trasformare in una specie di ventaglio di fuoco che, facendo perno su Metz, era destinato a spazzare ogni resisenza dalla Manica alla Mosa. Questo abile piano fu attuato in tre tempi successivi ma senza alcuna soluzione di continuità. Nei cinque giorni di offensiva lo sforzo principale fu concentrato contro la linea fortificata dell'esercito belga fra Dinant, Liegi e Anversa, mentre più a nord paracadutisti, truppe motorizzate stroncavano fulmineamente ogni resistenza olandese. Poi, operato lo sfondamento nel Belgio e aperta una pericolosa falla dinnazi a Sedan . tedeschi iniziarono la loro corsa al mare realizzando in poco più di dieci giorni un disegno strategico che nel '14 avevano vanamente tentato per quattro anni... Il 21 maggio, raggiunta Abbeville sulla Manica, la grande operazione poteva dirsi coronata dal successo, grazie alla puntata in profondità delle colonne corazzate germaniche. Le armate anglo-franco-belghe operanti sull'ala sinistra del fronte erano accerchiate su una fascia di terra, fra Calais e Ostenda. La situazione appariva drammatica. La guerra era ad una svolta decisiva. Mentre sulla linea della Somme il generale Weygand, nuovo comandante dell'esercito francese, tentava dispetamente di organizzare l'estrema difesa della Capitale minacciata, nelle Fiandre quasi un milione di uomini combattevano per sopravvivere. Era però una battaglia perduta, malgrado ogni sforzo e ogni eroismo. Il 28 aprile uno dei tre comandanti Leopoldo del Belgio, doveva riconoscerlo e chiedeva ai tedeschi la capitolazione che toglieva agli assediati l'apporto delle ultime superstiti unità del'esercito belga. Il cerchio, intanto, si andava restringendo sempre più intorno al porto di Dunkerque, fulcro dell'ultima resistenza. Ma nè gli allagamenti provocati dai difensori anglo-francesi, nè la natura del terreno, facilmente adattabile alla difesa, potevano salvare l'armata stretta fra il mare e il cerchio di fuoco delle divisioni tedesche. Il visconte di Gort, comandante delle truppe britanniche, decise allora il reimbarco che si svolse in un'atmosfera da tragedia. Poteva così iniziare il terzo tempo dell'offensiva tedesca, quello dell'annientamento delle truppe avversarie di Parigi.

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    8 aprile 1940. I franco-britannici comunicano al governo di Oslo di aver minato le acque territoriali norvegesi dinnanzi a Statlandet, Bud, e Vestifiord per impedire il passaggio delle navi tedesche. La mossa tendeva non soltanto a rendere impossibile il passaggio nell'Atlantico agli incrociatori
    corsari tedeschi, ma anche a bloccare il traffico di minerale di ferro fra la Germania e Narvik. Nella foto, navi britanniche procedono alla posa delle
    mine nelle acque territoriali della Norvegia.

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    9 aprile 1940. La reazione tedesca alle operazioni franco-britanniche fu immediata. E, mentre il Comando supremo dichiarava di assumere « la protezione armata » della Danimarca e della Norvegia, forti contingenti di truppe occupavano di sorpresa posizioni strategiche nei due paesi. Le operazioni tedesche si svolgevano sotto la protezione della flotta, di numerose formazioni aeree e con la copertura di campi minati che impedirono un massiccio intervento da parte della Home Fleet. Nella cartina di sinistra: gli sbarramenti di mine deposti dalle navi britanniche. Nella cartina di destra: Le città sottolineate furono l'obiettivo degli sbarchi tedeschi sulla costa norvegese nei primi giorni dell'invasione.

    La Norvegia si difende

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    Colte di sorpresa, le truppe norvegesi non furono in grado, soprattutto nei primi giorni, di opporsi validamente alla massiccia offensiva tedesca. Ma
    quando i nazisti vollero inoltrarsi nell'interno del paese, i norvegesi, sfruttando le asperità del terreno, diedero loro molto filo da torcere. Eroica fu
    la resistenza della guarnigione norvegese di Kongsvinger, a nord est di Oslo. Nella foto: soldati norvegesi scavano trincee attorno a Narvik.

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    Re Haakon di Norvegia, fin dai primi giorni dell'azione tedesca, si era trasferito col governo ad Hamar, affidando il comando delle truppe al generale Ruhe. Ad Oslo, intanto veniva costituito dai tedeschi il governo presieduto dal comandante Vidkun Quisling, già ministro della difesa nazionale. Il nome di Quisling servi da allora a indicare i gabinetti filo-tedeschi che si sarebbero via via creati nei paesi occupati. A sinistra: Re Haakon VII di Norvegia. A destra: un soldato norvegese fra le nevi dell'estremo nord consuma il suo frugale pasto.

    L'invasione della Norvegia

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    9.10 aprile 1940. Il comando supremo tedesco sapeva di poter contare, nelle operazioni aero-navali in Norvegia, soltanto su un vantaggio di nove
    ore nei confronti dell'avversario. Si calcolava infatti che la flotta alleata non sarebbe stata in grado di intervenire prima di quel tempo. Nella foto dragamine tedeschi aprono la strada in un fiordo norvegese alle unità maggiori di superficie e alle navi trasporto truppe e materiali.

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    9.10 aprile 1940. Il maggiore sforzo navale tedesco fu compiuto per l'occupazione del fiordo di Oslo e per la presa di possesso dei porti meridionali
    di Egersund, Stavanger e Bergen. Ma anche più a nord, malgrado le difficoltà e la più grave minaccia della reazione britannica, vennero sbarcati
    forti contingenti di truppe: circa quindicimila uomini a Trondheim e circa 2500 a Narvik, nell'estremo nord. In totale la marina tedesca trasportò
    sulle coste norvegesi, in quella prima azione, 35 mila uomini. Nella foto un convoglio germanico in navigazione.

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    13 aprile 1940. Ad Oslo, ormai in saldo possesso dei tedeschi, continuano gli sbarchi per alimentare le colonne germaniche che ormai si inoltrano
    nell'interno della Norvegia, vincendo le sporadiche resistenze avversarie. Altri sbarchi, intanto, vengono effettuati lungo tutta la costa. A Narvik, in
    questo stesso giorno, si svolge un importante scontro navale tra una squadra britannica, di cui faceva parte anche la nave da battaglia Warspite, e una
    formazione di cacciatorpediniere tedeschi. Le unità tedesche furono messe fuori combattimento ma lo scontro non fu risolutivo e le truppe tedesche
    mantennero le loro posizioni sulla costa. Le prime azioni navali britanniche contro i tedeschi si erano avute il 10 aprile. Nella foto a sinistra: truppe
    germaniche in vista di Oslo. Nella foto a destra: Truppe da sbarco prendono posto nei battelli pneumatici che le porteranno nell'interno del fiordo.

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    Al successo delle operazioni in Norvegia, la Lutwaffe diede un contributo formidabile soprattutto nei primissimi giorni. Buona parte delle truppe
    che avevano occupato Oslo, Kristiansand, Stavanger, Bergen, Trondheim e Narvik erano state aviotrasportate. Nello stesso tempo l'aviazione batteva con successo le basi navali ed aeree norvegesi. Decisivo fu l'intervento aereo nella lotta contro le formazioni navali britanniche che subirono sensibili danni. Nella foto di sinistra: Junkers da trasporto tedeschi in volo verso l'estremo nord. Nella foto di destra: un mitragliere dell'aviazione germanica.
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    Guerra calda sottozero

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    Le truppe tedesche sbarcate nei porti settentrionali della Norvegia, nonostante il terreno si prestasse pochissimo alle manovre in profondità, riuscirono a tagliare la parte settentrionale del paese da quella meridionale e a controllare il tronco ferroviario che portava alle miniere di ferro della
    Svezia. Nella foto: Il porto e la città di Trandhejm sotto il controllo dei cannoni tedeschi.

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    Il fiordo di Oslo fu il centro principale di irradiazione delle colonne motorizzate tedesche verso l'interno della Norvegia meridionale. Le truppe germaniche, vincendo una più organica resistenza norvegese, procedettero all'occupazione della provincia di Oestfeld e quindi si lanciarono in direzione nord costringendo il governo norvegese ad abbandonare la capitale provvisoria di Hamar. Inoltre il congiungimento delle colonne provenienti da Oslo e da Bergen tagliò da ogni rifornimento le truppe che ancora resistevano nel sud. Nella foto di sinistra sbarco di mezzi motorizzati tedeschi nel poro di Arendal. Nella foto di destra artiglieria pesante tedesca in postazione all'imbocco dello Skager Rak.

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    I tedeschi occuparono il fiord di Oslo a mezzo dì truppe imbarcate su 10 cacciatorpediniere che furono lasciati a presidio del porto. In seguito gli inglesi contrattaccarono con forti formazioni di caccia sostenuti da navi da battaglia. I 10 CCTT germanici furono tutti affondati dopo aver distrutto diverse unità similari Inglesi ed i loro equipaggi seguitarono a combattere a terra al seguito delle truppe alpine. Nella foto: un CT tedesco con la prua sugli scogli dopo un drammatico combattimento.

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    Nell'estremo nord la marina tedesca potette operare soltanto
    con i sommergibili, che dovettero affrontare, oltre le insidie dei campi minati e della caccia alleata, anche i rigori di un clima eccezionalmente rigido.

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    12 aprile 1940. Mentre le forze aereonavali alleate contrastavano lungo la costa norvegese le manovre di assestamento germaniche, in Inghilterra si andava organizzando rapidamente il corpo di spedizione franco-britannico destinato a dar man forte all'esercito norvegese. Nella foto il ministro Eden passa in rassegna a Edimburgo un reparto in partenza.

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    Gli sbarchi franco-britannici ebbero inizio nella notte del 14 aprile. Poiché i tedeschi avevano già occupato le principali basi, gli alleati furono costretti a prender terra in località secondarie: Harstad (a nord di Narvik), Namsos (a nord di Trondhejm), Molde, Andalsnes, Statland. Nella foto truppe francesi in navigazione verso la località di sbarco.

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    A Oslo, fin dai primi giorni, il governo di Quisling aveva
    lanciato alla popolazione un proclama invitante a desistere da ogni resistenza. Ma le truppe norvegesi continuarono ancora a combattere valorosamente fino al 9 maggio. In seguito si organizzò in varie località del paese la guerriglia contro gli occupatori. Nella foto due gendarmi norvegesi di Oslo assistono al passaggio di un reparto tedesco.

    Oltre il circolo polare

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    I comandanti militari tedeschi in Norvegia:
    gen. Falkenhorst comandante le Armate; il
    contrammiraglio Carls, comandante le forze
    navali, l'ammiraglio Saalwachter comandante la squadra che ha forzato il fiordo di Oslo.

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    22 aprile 1940. Nella regione di Narvik un corpo di spedizione franco-britannico di circa 9000 mila uomini si ricongiunge con le truppe norvegesi forti di 10.000 uomini. Insieme riescono a cacciare dalle loro posizioni in città i 4000 uomini delle truppe alpine tedesche, che pero, ritirandosi sulle alture circostanti, impedirono agli alleati di impadronirsi della ferrovia. Finalmente, fra il 25 aprile e il 4 maggio, rifornimenti e rinforzi paracadutati permisero ai tedeschi di passare al contrattacco e di riconquistare la città, che il 9 maggio veniva definitivamente abbandonata dalle truppe alleate. Nella foto in alto truppe tedesche in marcia verso Narvik, mentre in cielo si disegna un'aurora boreale. In basso un colpo di mano norvegese contro mezzi motorizzati tedeschi.



    Contemporaneamente alle operazioni in Norvegia si svolse l'occupazione tedesca della Danimarca, che avvenne senza alcuna resistenza da parte danese. Re Cristiano X, in un proclama alla nazione, dichiarò di cedere soltanto alla forza, e le due camere ratificarono la sua decisione di porre la neutralità del paese sotto la protezione delle forze armate tedesche. Nella foto truppe germaniche entrano a Lindholm.



    Col reimbarco delle truppe di Narvik, che seguiva a pochi giorni di distanza quello dei contingenti sbarcati più a sud, si concludeva disastrosamente per gli alleati la campagna norvegese. L'intero paese cadeva così, con le sue importantissime basi aereonavali, sotto il controllo delle forze armate germaniche. Non è facile stabilire nemmeno oggi, a tanti anni di distanza, quali furono le perdite negli scontri aereonavali nel Mare del Nord. Da parte britannica fu accusata la perdita di quattro torpediniere, di una corvetta e di dieci altre navi da guerra. I tedeschi dichiararono invece di aver distrutto complessivamente sessantaquattro unità britanniche tra le quali nove incrociatori e nove caccia. Per parte loro, i tedeschi persero - secondo notizie britanniche - due navi da battaglia, quattro incrociatori e undici torpediniere. Nella foto un incrociatore tedesco smantella a colpi di cannone un cacciatorpediniere britannico.

    L'invasione del Belgio

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    10 maggio 1940. Nel momento in cui la campagna di Norvegia si concludeva con lo sgombero di Narvik da parte degli alleati, la stasi sul fronte occidentale veniva rotta dall'improvviso attacco tedesco contro il Belgio, l'Olanda e il Lussemburgo. Si ripeteva così, coinvolgendo questa volta anche l'Olanda, il disegno strategico già messo in atto nel 1914 dai generali di Guglielmo II. Il Belgio, che all'inizio del conflitto aveva dichiarato la propria neutralità, non si lasciò sorprendere, e appoggiandosi alle fortificazioni di Liegi, Malmedi e Eben oppose alle truppe tedesche avanzanti una vigorosa resistenza. Nella foto di sinistra Re Leopoldo II del Belgio. Nella foto di destra truppe belghe passate in rassegna a Bruxelless davanti al Palazzo Reale.

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    Gli effettivi dell'esercito belga ammontavano a circa 100 mila uomini, che furono rapidamente portati ad oltre mezzo milione di armati con la mobilitazione generale. Il Belgio mise in campo anche numerosi carri armati e circa 300 aereoplani. Nella foto a sinistra carri armati belgi si attestano alla frontiera tedesca. Nella foto a destra il Generale Michiels, capo di Stato Maggiore belga.

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    12 maggio 1940. Dopo due giorni di avanzata in territorio belga, i tedeschi dovettero affrontare il forte di Eben Emael che dominava i passaggi sulla Mosa e sul Canale Alberto e che era considerato uno dei più muniti del mondo. La conquista del forte avvenne in poche ore sbalordendo gli stati maggiori. Secondo le informazioni di fonte alleata sembra che in quell'azione abbia contribuito al fulmineo successo tedesco l'attività di una misteriosa quinta colonna, mentre, secondo i tedeschi, il colpo di mano fu reso possibile grazie all'impiego combinato degli alianti e dei paracadutisti. Il giorno successiva le truppe germaniche entravano in Liegi costringendo l'armate di Re Leopoldo ad appoggiarsi su Anversa. Nella foto il forte di Eben appena conquistato dai tedeschi.

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    Mentre i tedeschi continuavano ad avanzare, le truppe francesi entravano in Belgio per collegarsi agli alleati in ritirata. Ma, uscendo dalle loro fortificazioni, i francesi favorivano il piano di Van Brauchitsch tendente ad attirarli verso Nord-Est, per poi vibrare un colpo di maglio contro l'intero schieramento. Infatti, il 14 maggio, la battaglia divampa furibonda su tutto il fronte da Anversa a Namour. Nella foto truppe belghe durante un mitragliamento aereo tedesco.

    Il destino dell'Olanda

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    L'Olanda disponeva di scarsissime forze militari, ma aveva preparato fin dei primi mesi del conflitto un piano difensivo che si basava a nord su un sistema di fortificazioni campali, e a sud sulla possibilità di allagare in poche ore vaste zone del paese. L'offensiva tedesca, però, fu talmente rapida da non consentire l'attuazione di tale piano. L'Olanda settentrionale veniva occupata in soli due giorni da Groninga allo Zuiderzee, mediante l'impiego di chiatte blindate. e di canotti di gomma, che rendevano inutile l'allagamento effettuato dai difensori. Qui la Principessa Giuliana passa in rassegna un reparto della Guardia.

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    11 maggio 1940. Per occupare le località strategiche sulla costa prima che potessero sopraggiungere i rinforzi alleati, i tedeschi impiegarono in massa per la prima volta i paracadutisti, che presero possesso di Rotterdam aiutati da un'efficiente quinta colonna. Al terzo giorno dell'offensiva le avanguardie tedesche raggiungevano Ulbrecht e quindi l'Aia e Amsterdam. Nella foto lancio in massa di paracadutisti nei dintorni di Rotterdam.

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    Dopo soli cinque giorni di resistenza l'esercito olandese, ristretto su una breve fascia di terra e senza scampo, chiese ai tedeschi la resa, che fu firmata il 16 maggio nella scuola del villaggio di Rjisord, a pochi chilometri da Rotterdam. Nella foto una pittoresca visione della guerra in Olanda. Un vecchio mulino a vento contro i modernissimi mezzi motorizzati germanici sullo sfondo di Rotterdam presso chè distrutta dall'aviazione tedesca.

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    Chiedendo la resa, il generale Winckelmarnn comandante dell'esercito olandese dichiarò: «Praticamente senza assistenza alcuna, unicamente con le nostre forze, non vedevamo la possibilità di continuare la lotta. La guerra era completamente unilaterale ». Malgrado la resa, alcuni reparti olandesi continuarono a resistere fino al 19 aprile nelle isolette dello Zeeland. La Regina Guglielmina si rifugiò a Londra. Nella foto la regina visita un rifugio a L'Aia.

    La battaglia delle Fiandre

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    Dopo la capitolazione olandese, la manovra tedesca continuò a svilupparsi irresistibile nel Belgio. I piani dell'alto comando hitleriano, che si ispiravano evidentemente all'impostazione strategica tendente a penetrare in profondità attraverso il Belgio nel territorio francese fino a raggiungere la costa della Manica isolando così l'ala sinistra dello schieramento francese e le forze britanniche che tenevano il fronte. La cartina mostra i primi sviluppi dell'offensiva.

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    Le forze del corpo di spedizione britannico in Francia, che erano attestate nel settore più settentrionale del fronte, ammontavano a non meno mezzo milione di uomini appoggiati da consistenti formazioni corazzate e riforniti attraverso la Manica da un intenso traffico navale. Il primo urto tra inglesi e tedeschi avvenne a nord di Lilla il 14 maggio. Nella foto Re Giorgio d'Inghilterra in visita agli apprestamenti difensivi delle truppe britanniche che tenevano il fronte.

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    I profughi polacchi che erano riusciti a raggiungere la Francia e la Gran Bretagna dopo la capitolazione del loro paese, si riorganizzarono in esercito con l'aiuto degli alleati. Nella foto il generale Sikorski, Capo del Governo Polacco in esilio.

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    Durante tutta la campagna in Norvegia e nelle Fiandre, l'Italia aveva continuato a mantenere il suo atteggiamento di non belligeranza. Si ebbero però in quel periodo i primi atti di ostilità da parte dei fili inglesi nei confronti delle navi mercantili italiane in viaggio nel Mediterraneo e nell'Atlantico. Particolarmente prese di mira furono le navi carboniere provenienti dai porti tedeschi. Le violazioni britanniche del diritto internazionale marittimo suscitarono le più vive proteste del Governo italiano, che nel rapporto del Ministro Pietromarchi documentò gli abusi patiti. Nella foto in alto un caccia britannico spara un colpo di avvertimento per obbligare una nave italiana a fermarsi. Nella foto in basso, un picchetto armato britannico sale a bordo del bastimento italiano, per eseguire. la perquisizione.

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    Il 10 maggio 1940, dopo una tempestosa seduta alla Camera
    dei Comuni, il Primo Ministro Chamberlain diede le dimissioni. Al suo posto diventò primo ministro Winston Churchill, fino allora primo Lord dell'Ammiragliato e qui ritratto con un mitra avuto in omaggio dagli americani.

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    Una crisi ministeriale si era già registrata in Francia, ove il 20 marzo il gabinetto Daladier si era dimesso ed era stato sostituito da un ministero presieduto da Reynaud. Nella foto Daladier, circondato dai ministri Bonnet, La Chambre, Pomaret, Chautemps, Mandel, e Campinchi, mentre lascia l'Eliseo dopo aver presentato al Presidente della Repubblica le dimissioni.
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    La resistenza Francese

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    Il 15 maggio 1940, nel tratto di fronte fra Dinant e Carignan - a sud est della fatale Sedan - le divisioni corazzate tedesche vinsero la resistenza della Nona Armata francese e forzarono la linea della Mosa aprendosi un varco nel più importante settore dello schieramento alleato. Il generalissimo Gamelin, invece di ritirare le truppe dal Belgio, cercò di riorganizzarne la resistenza esponendosi così ad un disastro. Difatti, dopo due giorni di accanita battaglia, il 17 maggio crollava tutto il fronte da Anversa a Namour. Si iniziava così una vera e propria rotta. Lovanio e Malines cadevano a mezzogiorno. Nel pomeriggio i tedeschi irrompevano nella fortezza di Anversa, e la sera stessa i primi scaglioni hitleriani entravano in Bruxelles che era stata dichiarata città aperta. Nella foto colonne di carri armati francesi verso il fronte nel disperato tentativo di arrestare l'avanzata tedesca.

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    II 10 maggio 1940 il Comandante in capo dell'esercito francese, generale Gamelin, accusato di gravi errori strategici nella condotta della battaglia, era sostituito dal Gen. Weygand.

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    Malgrado tutto i francesi ridevano, e continuavano a non credere nella potenza militare tedesca. Ecco una caricatura de "Le Rire" - < Hitler fotografato al fronte>



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    Il generale Weygand assunse il comando in un momento drammatico della battaglia: le truppe corazzate tedesche avevano aperto due ampie brecce sul fronte francese. A nord dilagavano oltre Namour e Anversa, puntando verso la costa di Ostenda. A Sud, raggiunta Maubeuge, la direttrice d'attacco muoveva verso Amiens. Nella foto di sinistra fanterie tedesche all'attacco, nella zona di Sédan. A destra una stazione ferroviaria belga distrutta dagli Stukas.

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    La lotta si è già spostata verso la Somme. Le forze franco-belghe, intuendo la manovra aggirante tedesca, tentano , di sottrarsi all'accerchiamento con il contrattacco. Ma l'azione non riesce, e le puntate dei carri armati francesi sono neutralizzate dal tiro micidiale degli «88» tedeschi. Nella foto di sinistra un carrista francese si arrende. Nella foto a destra un treno armato tedesco in azione contro le fortificazioni francesi nella zona di Verdun.

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    Il fronte in movimento riguardava fino a questo momento circa 300 chilometri dall'estremo arco settentrionale, tra la Manica e la frontiera lussemburghese. Il 20 maggio, però, i tedeschi attaccarono in forze anche il sistema fortificato francese che da Metz a Sedan si collegava con la linea Maginot. Il generale Weygand si accinse allora a costituire quella linea di sicurezza arretrata che poi avrebbe portato il suo nome e che si appoggiava al corso delle Somme e dell'Aisne congiungendosi a Metz con la cintura difensiva del Reno. Nella foto un deposito di munizioni dell'artiglieria francese in un bosco a ridosso del fronte.

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    21 maggio 1940. Improvvisamente il massimo sforzo offensivo tedesco, che da Laon sembrava puntare direttamente su Parigi, si rivolse verso il Nord
    Ovest, in direzione delle Fiandre. Si scatenò così la battaglia delle Fiandre che avrebbe dovuto portare all'annientamento di tutta l'ala sinistra franco-britannica, accerchiata fra Lilla, Dunkerque e Ostenda. Nella foto una batteria anticarro francese in azione nella zona di San Quintin.

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    21 maggio 1940. La manovra tedesca verso il mare viene coronata da pieno successo, e una colonna celere germanica raggiunge ad Abbeville la costa della Manica, completando l'accerchiamento dell'Armata di Lord Gort. Nella zona di Calais truppe corazzate britanniche tentarono di aprirsi un varco verso sud, ma furono ricacciate con forti perdite dagli anticarro tedeschi. Nella foto il colpo di un «88» tedesco ha perforato la corazza di un tank inglese.

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    Divenuti insicuri i porti del passo di Calais, I convogli britannici di rifornimento dovettero appoggiarsi sulla più meridionale base di Le Havre. L'aviazione tedesca iniziò quindi il martellamento del porto. Nella foto gli effetti di un bombardamento di Stukas su Le Havre.

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    Nella battaglia delle Fiandre le truppe tedesche si trovarono a lottare su un terreno intersecato da molti corsi d'acqua. Ma questi ostacoli naturali poterono essere superati grazie alla perfetta organizzazione della Wermacht e alla minuziosa preparazione del piano strategico. Truppe tedesche sull'Oise si apprestano a varcare il fiume sui battelli di gomma.

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    La Gran Bretagna seguiva con ansia le sorti della battaglia
    delle Fiandre, dove era impegnato tutto il suo esercito. Numerosi convogli di feriti giungevano ogni giorno nel porto
    di Dover, testimoniando dell'asprezza dei combattimenti.
    Nella foto la Regina Elisabetta d'Inghilterra in visita al
    feriti in un ospedale di Londra.

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    Per proteggere la testa di ponte delle Fiandre, che si andava restringendo attorno a Dunkerque, la Royal Air Force britannica impiegò in massa tutte le sue forze. I caccia britannici riuscirono ad infliggere al nemico gravi perdite, ma non poterono conquistare la supremazia del cielo. Nella foto un aereo da bombardamento tedesco abbattuto nel cielo di Lilla.

    Uragano di ferro e di fuoco

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    La Francia è in pericolo, dichiarava al senato francese il Presidente del Consiglio Reynaud. « Ma se mi si dicesse che per salvare la Francia è necessario un miracolo, direi che credo al miracolo poichè credo nella Francia ». Ma il miracolo non avvenne. La sacca delle Fiandre si andava restringendo, fra sempre più accaniti combattimenti. Il 24 maggio veniva forzata la linea dell'Escaut. Il giorno successivo cadeva Gand, e il 27 maggio si arrendevano Boulogne e Calais. Nella foto una colonna corazzata tedesca avanza combattendo verso Calais, fra il fumo degli incendi.

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    28 maggio 1940. Re Leopoldo del Belgio, ritenendo ormai vano il sacrificio delle sue truppe ridotte nel breve tratto di costa tra Zeebrugge e l'Yser, chiede l'armistizio. Circa 400 mila combattenti cessano così ogni resistenza. Britannici e francesi accusarono in quei giorni Re Leopoldo di tradimento, per aver lasciato scoperto il fianco nord del fronte. Re Alberto, scrisse un giornale britannico, era stato un re cavaliere, Re Leopoldo passerà alla storia come il re traditore. Nella foto a sinistra carri armati tedeschi stroncano le resistenze belghe. Nella foto a destra soldati tedeschi dinanzi a un forte francese conquistato.

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    La sorte delle armate franco britanniche serrate nella morsa di Dunkerque è ormai definitivamente segnata, ma gli alleati resistono disperatamente alle
    incalzanti forze germaniche nel tentativo di consentire il salvataggio via mare del maggior numero possibile di soldati. Di fronte al porto assediato i francesi aprono le chiuse provocando l'allagamento delle dune circostanti. Nella foto in alto una colonna corazzata tedesca entra in Pont Remy sulla Somme. Nella foto in basso soldati francesi della 98 Armata che fu interamente annientata si arrendono alle preponderanti forze tedesche.

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    31. maggio 1940. Ha inizio a Dunkerque la grande operazione di sgombero delle truppe franco-britanniche. Mentre le retroguardie organizzano febbrilmente un campo trincerato intorno alla città, le navi prendono a bordo i primi contingenti di truppe. Nella foto a sinistra soldati inglesi si affollano sotto le murate di una nave. Nella foto in alto a destra una colonna motorizzata franco britannica distrutta dall'aviazione germanica alle porte di Dunkerque. Nella foto in basso a destra un caccia britannico imbarca feriti francesi.

    La rotta di Dunkerque

    SPOILER (click to view)
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    2 giugno 1940. Nel porto di Dunkerque circa 300 mila soldati britannici e 90 mila francesi, chiusi in un cerchio di fuoco dalle armate tedesche cercano scampo nella fuga e si ammassano sulle imbarcazioni che portano alle navi ancorate nella rada. Le armi e i materiali vengono abbandonati sulla spiaggia: l'ordine è di salvare gli uomini. Intorno alla città le truppe di copertura oppongono l'ultima disperata resistenza per rendere possibile la grande operazione di sgombero.

    DA DUNKERQUE ALLA MAGINOT

    Mentre a Dunkerque s'andava compiendo in un'atmosfera di tragedia greca, il destino delle armate anglo-francesi accerchiate, sulla linea della
    Somme il generale. Weygand, da pochi giorni alla testa delle truppe alleate, tentava di organizzare la resistenza ad oltranza di fronte ai tedeschi, ormai penetrati in terra pii Francia. Lo sforzo di Weygand, in quei giorni drammatici di attesa, fu sovrumano. Egli, richiamando reggimenti e divisioni da tutti i settori, ammassando materiali da tutti i depositi, mobilitando fin l'ultimo uomo disponibile, riuscì, in meno di una settimana, a schierare in campo tre armate, per un totale di trenta divisioni. Ma non si limita a questo. Malgrado la ristrettezza del tempo a disposizione, egli volle anche adeguare gli apprestamenti difensivi ai terribili insegnamenti della prima fase della campagna, cercando di opporre alla nuova tecnica offensiva tedesca, imperniata sulle puntate in profondità di massicce formazioni di carri, una difesa elastica. Scaglionò quindi le sue truppe in profondità, appaggiandole ai capisaldi che, almeno teoricamente, sarebbero stati in grado di continuare a combattere anche se aggirati, anche se superati dalla offensiva nemica, per poi scompaginare le truppe attaccanti con una serie di contromanovre tattiche. Con particolare cura furono sistemate la difesa delle strade convergenti su Parigi, sulle quali Weygand riteneva che si sarebbe concentrato lo sforzo germanico. Del resto la difesa della capitale minacciata e la copertura della Maginot, ancora intatta, erano le mete del generalissimo francese. Ma, nonostante gli sforzi di Weygand, la macchina militare francese si era ormai spezzata sui campi delle Fiandre. E le trenta divisioni schierate sulla Somme, già intaccate nel morale, presentavano gravi lacune nell'armamento, nell'equipaggiamento, nella mobilità. Le truppe corazzate erano state pressochè annientate nella prima fase della campagna. Quelle motorizzate avevano perso una forte percentuale dei loro effettivi. E, infine, l'aviazione si era talmente ridotta di numero da non rappresentare più una efficente forza combattente. Solo in fatto di artiglierie i francesi si trovavano in condizioni relativamente soddisfacenti di fronte all'impiego combinato dei panzer e degli Stukas. Ma torniamo a Dunkerque, dove la resistenza disperata degli anglo-francesi si esaurisce rapidamente, mano a mano che il nemico si avvicina alla spiaggia, ormai affollata di materiali abbandonati e di uomini in fuga. Quasi mezzo milione di soldati, di cui circa centomila francesi, sono in attesa della salvezza che può venire, ormai, solo dal mare. Ed ecco, in quei giorni drammatici, la mobilitazione di tutti i mezzi navali in grado di attraversare la Manica. Si tratta di uno sforzo immane, francese e britannico, per salvare il salvabile dell'armata dei condannati, novecento battelli di tutti i tipi, dall'incrociatore allo yacht da diporto che fanno la spola fra Dunkerque e Dover, fra Dunkerque e gli altri porti della Manica con a bordo i resti delle divisioni accerchiate. Ed ecco, sopra questa flotta della disperazione, l'attacco massiccio, continuo, terrificante, degli Stukas presenti nel cielo della battaglia ad ogni ora del giorno e della notte con il loro lacerante sibilo. Una corsa alla morte che dura dal 30 maggio al 3 giugno. Poi, la sera del 3, mentre l'ultima formazione britannica si allontana all'orizzonte, protetta da un velo di nebbia che aveva ostacolato le operazioni della Luftwaffer i tedeschi raggiungono la spiaggia. 40 mila prigionieri si aggiungono al milione e più di uomini catturati dall'inizio dell'offensiva. Ma le navi hanno recato in salvo oltre la Manica, ben 338 mila uomini. Nel contempo, mentre non si è ancora attenuato l'eco di sbigottito stupore causata dal disastro di Dunkerque, gli hitleriani attaccano su tutto il fronte della Somme.. E' l'alba del 5 giugno e le sei armate tedesche rovesciano sul nemico una valanga di ferro e di fuoco. Dopo la bruciante preparazione di artiglieria, l'offensiva dei carri e delle fanterie, appoggiate da massicce formazioni di aerei. Il piano germanico prevede tre tempi. Il gruppo di armate settentrionale, comandato da von Bock deve rompere le difese francesi sulla sinistra, raggiungere e superare la bassa Senno, isolare Parigi da occidente. Ottenuto questo importante risultato, sarebbe stato compito del gruppo di von Rundstetd di puntare decisamente verso sud, battendo così il grosso dell'esercito francese, ormai disorientato dalla mossa avversaria. Alla fine il gruppo di von Leeb, attaccando frontalmente la Linea Maginot (alle cui spalle si sarebbe trovato Rundstetd) avrebbe scardinato le ultime difese francesi, provocando il crollo definitivo della Francia. La manovra tedesca, sapientemente preparata, avrebbe dovuto comprendere, infine, un'azione dimostrativa in direzione di Parigi, allo scopo di far sguarnire le ali ai francesi per favorire così la chiusura della gigantesca tenaglia alle foci della Senno e sulle Argonne. II piano fu attuato con puntualità cronometrica dalle varie armate tedesche. Nessun errore, nessun ritardo vi fu a compromettere l'esito come era accaduto sulla Marna tanti anni prima. Dopo quattro giorni di offensiva, la Linea Weygand era crollata e le divisioni francesi, risospinte in campo aperto, iniziavano, malgrado sporadici irrigidimenti, quella ritirata che di, lì a qualche giorno si sarebbe tramutata in una rotta. E' impossibile, nel breve spazio che ci è concesso, riassumere le tappe dell'avanzata tedesca, anche limitandole all'enunciazione di una data e di una località. Diremo soltanto che il 10 giugno i tedeschi dell'ala sinistra erano già a meno di cento chilometri da Parigi, mentre il giorno successivo le armate del centro erano a Compiègne. E a sud la marcia non era meno travolgente, avendo superato Rerms e la Marna. Il 13 giugno la situazione dell'esercito francese era ormai disperata, Parigi veniva dichiarata città aperta e il giorno successivo vi entravano, senza incontrare resistenza, le armate di van Kiikler. Si ripeteva così, a settant'anni di distanza, la tragedia di cui era stata testimone la generazione di Victor Hugo, resa possibile, anche questa volta, dall'intrinseca debolezza politica e sociale della Francia, mal coperta dall'illusorio baluardo della Maginot. Questa linea fortificata senza confronti nel mondo, fu anzi attaccata e scavalcata, nel giro di poche ore, proprio nei giorni successivi alla conquista di Parigi, da Montmedy t Verdun, dal Reno alla frontiera svizzera. L'impresa, ritenuta impossibile, fu resa possibile da una tecnica rivoluzionaria e dall'incredibile audacia di piccoli gruppi di guastatori, ma anche dal fatto che la Maginot, guarnita da poche truppe attaccata frontalmente e sul rovescio, non era più che una specie di zattera nel mare in tempesta di una Francia ormai invasa per più di un terzo del suo territorio. Giungiamo così, con lo sfondamento della Maginot al 16 giugno. Da sei giorni anche l'Italia è uscita dalla non belligeranza e si è gettata nella lotta, sulle Alpi, in Libia e nell'Impero.

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    Lo sgombero di Dunkerque fu reso penoso e difficile non solo dagli incessanti attacchi aerei tedeschi ma anche dalla mancanza di attrezzature portuali adeguate. Per raggiungere le imbarcazioni i soldati dovettero inoltrarsi disarmati tra le onde della Manica. Per cooperare al salvataggio dell'armata circondata, in Inghilterra erano stati requisiti tutti i natanti di piccolo cabotaggio, compresi gli yachts da diporto. Nella foto: si imbarcano i feriti.

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    Il 2 e il 3 giugno il cerchio tedesco si andò sempre più serrando attorno a Dunkerque. Un disperato contrattacco francese venne respinto, mentre cadeva Ghyvelde a una diecina di chilometri ad est del porto. Qualche ora dopo i tedeschi erano alle porte della città, mentre l'aviazione di Von Richtofen e Granert martellava continuamente le navi alla fonda e le truppe ammassare sulle rive. Nella eccezionale foto un effetto dei bombardamenti tedeschi sulle truppe inglesi in fuga.

    Lo sfondamento della "Maginot"

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    Le perdite anglo-francesi nel mare dì Dunkerque furono elevatissime. Vennero affondate dai tedeschi circa 250 unità, di cui 37 da guerra. Ma ben più alto fu il numero delle navi danneggiate più o meno gravemente. Nella foto: due piroscafi francesi affondati.

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    Il generale Gort, comandante delle truppe inglesi in Francia, decora un soldato francese , particolarmente distintosi nei combattimenti intorno alla sacca di Dunkerque.

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    La sera del 3 giugno, mentre le ultime navi britanniche, approfittando di una fitta nebbia, si dileguavano oltre l'orizzonte, i tedeschi occuparono la spiaggia contesa, che si presentava come un immenso cimitero di navi e di materiale bellico d'ogni genere.

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    In quattro giorni gli anglo-francesi riuscirono a trasportare Oltremanica complessivamente 338 mila uomini, ma abbandonarono in mano tedesca più di 40 mila prigionieri e tutto il materiale delle armate accerchiate, che costituì, insieme alle navi recuperabili, un gigantesco bottino.
    Nella foto automezzi inglesi abbandonati, e un caccia francese affondato.

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    Le operazioni di sgombero, alle quali parteciparono 200
    navi francesi e 700 navi britanniche, furono dirette dall'Ammiraglio francese Abrial, che qui vedíamo mentre riceve l'elogio del Presidente della Reubblica Lebrun.

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    4 giugno 1940. Mentre i tedeschi annunciavano nei loro bollettini la grande vittoria, Churchill faceva ai Comuni le sue storiche dichiarazioni:. «Una settimana fa io temevo di dover annunziare il più grande disastro della storia britannica. Avevo infatti motivo di ritenere che tutte le truppe partecipanti alla battaglia nella Francia del Nord fossero sul punto di doversi arrendere o di lasciarsi massacrare dal primo all'ultimo uomo. Ora sono certo di potere invece, annunziare che 335 mila soldati inglesi e francesi sono stati trasferiti dalle Fiandre mercè un vero miracolo ». Churchill disse poi: Quanto a noi, difenderemo la nostra isola, a qualunque costo. Non ci arrenderemo mai! Combatteremo in Francia nei mari, negli oceani, in terra, in cielo, nelle nostre strade ». Nelle foto tre aspetti del mare di Dunkerque dopo la grande battaglia di annientamento in cui sembravano decise a favore dei tedeschi le sorti della guerra.

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    In Francia il disastro di Dunkerque provocò un'ennesima crisi ministeriale. Reynaud si dimise e dopo poche ore riformò un governo al quale non partecipava più Daladier mentre De Gaulle, da poco promosso generale, vi aveva la carica di ministro della Difesa Nazionale. Nella foto un concentramento di prigionieri franco-britannici a Dunkerque, in un paesaggio reso quasi lunare dagli intensi bombardamenti della aviazione germanica.

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    Il « Defiant », caccia biposto armato di quattro mitragliatrici in torretta, fu uno dei protagonisti delle grandi battaglie aeree combattute nel cielo delle Fiandre. Al suo apparire, inferse duri colpi ai cacciatori Tedeschi che attaccavano di coda secondo la loro tattica tradizionale. Ma, esaurito l'elemento sorpresa, i germanici modificarono i loro piani d'attacco e anche la sorte dei « Defiant » fu segnata per la notevole superiorità numerica degli aviatori germanici.

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    Gli Stukas, impiegati in formazioni massicce contro le linee e le retrovie francesi furono nelle Fiandre e in Francia, uno degli elementi principali della vittoria tedesca. Questo nuovissimo tipo di bombardiere, usato per la prima volta in Polonia, ebbe anche un importante influsso psicologico sul crollo della Francia ove ancor oggi vengono ricordate con terrore le allucinanti incursioni sulle strade ingorgate dalle truppe e dai civili in fuga. Particolarmente efficace fu l'impiego dei bombardieri in picchiata contro i carri armati francesi che vennero distrutti in gran numero prima ancora di poter prendere contatto con i panzer germanici. Infine gli Stukas ebbero notevole parte nello sfondamento della Maginot, i cui forti erano senza difesa dal nuovo tipo di attacco aereo.

    L'Inghilterra assediata

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    Dopo la vittoriosa battaglia di Dunkerque, lo stesso Churchill previde la possibilità di un attacco tedesco alla Gran Bretagna. In realtà la Germania si andava, rapidamente preparando per questa offensiva che, nei piani di Hítler, avrebbe dovuto concludere il conflitto. L'alto comando tedesco prevedeva nell'attacco all'Inghilterra l'intensificazione della guerra sottomarina che avrebbe dovuto tagliare l'Isola dalle sue fonti di rifornimento, per renderne più precarie le possibiltà di difesa. Nella foto uno schieramento di sommergibili "tascabili" tedeschi per l'impiego costiero.

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    Nonostante le gravi perdite subite nel corso della battaglia delle Fiandre la Royal Air Force britannica, appoggiata a numerosi, modernissimi aerodromi, costituiva ancora una imponente forza animata da grande spirito combattivo. I Blenheim (nella foto) continuarono a coadiuvare sulla linea della Somme gli sforzi difensivi dell'esercito francese e dei pochissimi contingenti di truppe britanniche rimaste in linea.

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    Mentre le armate tedesche riprendevano la loro offensiva in Francia, continuavano nell'Atlantico i successi degli "U Boote" contro il traffico mercantile britannico. I tedeschi attribuivano alla guerra sottomarina una importanza decisiva poichè i due terzi del fabbisogno del popolo inglese deve essere importato. Durante la guerra 1914-18, per esplicita ammissione degli inglesi, se gli affondamenti fossero durati quindici giorni di più la Gran Bretagna avrebbe perduto la partita. Nella foto: l'equipaggio di un sommergibile tedesco emerge per assistere alla fine di un piroscafo mercantile inglese che sprofonda negli abissi dopo essere stato colpito da un siluro.

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    Lo Stukas era un nemico ignoto e troppo potente per le forze corazzate francesi. L'opera di distruzione completata dai Panzer e dagli «88», fu iniziata dai terribili bombardieri in picchiata della Luftwaffe, che inchiodarono al suolo intere formazioni di carri d'assalto.

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    Nella guerra navale i tedeschi impiegarono, fin dai primi
    mesi del 1940, un nuovo tipo di mina, che causò ai britannici gravi perdite. Si trattava della mina magnetica (cui seguirono poi le mine acustiche) che esplodeva non appena nel suo raggio di azione entrava la massa metallica di una nave. Nella foto Re Giorgio d'Inghilterra esamina una mina magnetica tedesca recuperata da un dragamine inglese.

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    Anche l'aviazione francese si trovò in terribili condizioni di inferiorità qualitativa e quantitativa. Ben poco poterono i pur ottimi piloti francesi contro gli espertissimi aviatori germanici. Nella foto: un campo di aviazione francese dopo un attacco tedesco a volo radente.

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    Ecco un esempio di azione coordinata aero-terrestre, le fanterie hanno richiesto l'intervento dell'aviazione contro un nido di resistenza francese. Passati gli Stukas l'avanzata può riprendere. Da notare che, per raggiungere la massima fulmineità in queste operazioni combinate, i comandi tedeschi, contro ogni consuetudine, ordinarono l'intervento degli aerei "in chiaro", cioè senza usare i cifrari la cui traduzione richiedeva del tempo prezioso.

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    Effetti di un bombardamento di Stukas su una linea
    ferroviaria francese nei pressi di Parigi. I tedeschi, mentre
    completavano l'occupazione delle Fiandre, andavano preparando, con massicci attacchi aerei contro í centri logistici
    francesi, il terreno per la nuova offensiva oltre la Somme.

    L'intervento Italiano

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    10 giugno 1940. Dal balcone di Palazzo Venezia Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Francia e alla Gran Bretagna. La guerra si accendeva così su altri 7.500 chilometri di fronte, dalle Alpi Occidentali ai deserti africani. Truppe italiane erano inoltre schierate prudenzialmente in Albania e sulla frontiera con la Jugoslavia, mentre la flotta e l'aviazione si accingevano a sostenere l'urto delle superiori forze avversarie. L'Italia schierava in campo 3 Armate sul fronte alpino occidentale, 2 Armate su quello Orientale, 2 Armate nell'Italia centro meridionale, 1 corpo d'Armata in Albania, 2 Armate in Libia, e nell'Impero le forze metropolitane ed indigene al comando del viceré Amedeo Duca d'Aosta.

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    Dopo una breve tregua, le armate germaniche che avevano occupato Dunkerque, iniziarono l'attacco contro la illusoria linea Weygand che il comandante francese aveva organizzato affrettatamente lungo la Somme, L'Oise e l'Aisne, tra Abbeville, San Quintino e Metz. Alcuni reparti inglesi furono tagliati fuori dal Corpo di spedizione imbarcatosi a Dunkerque e seguitarono con i francesi, a resistere accanitamente. Nella foto in alto l'allucinante visione del tiro notturno di una mitragliatrice inglese Bren, che tenta di ostacolare l'avanzata tedesca. A sinistra guastatori tedeschi all'attacco. A destra un carrista inglese alza le mani in segno di resa di fronte ai «panzer» tedeschi.

    La Francia si difende

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    Come abbiamo già visto anche in precedenza, l'impiego dei mezzi corazzati tedeschi fu determinante nella Campagna di Francia. I francesi, forniti anch'essi dì unità corazzate di eccellente costruzione e di pesante tonnellaggio, tentarono di reagire alla irruente tattica tedesca ma invano. I carristi francesi si gettarono nell'inferno della battaglia con grande spirito di sacrificio anche se i risultati furono sfortunatamente insignificanti data la preponderanza tedesca.
    In questo eccezionale documento fotografico un carro armato francese spara in piena corsa contro il nemico avanzante.

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    I francesi tentarono di martellare anche con grossi pezzi le formazioni tedesche, ma senza ottenere grandi successi a causa della loro impressionante modalità. Nella foto un grosso calibro francese montato su affusto ferroviario.

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    I protagonisti della Francia sconfitta. In seguito al disastro di Dunkerque il
    gabinetto Reynaud si dimetteva e veniva ricostituito, come già detto, con a
    capo lo stesso Reynaud. Del nuovo governo, del quale non faceva più parte Daladier, era Ministro per la Difesa nazionale Carlo De Gaulle futuro capo del governo della Francia Libera. Nella foto Reynaud, il gen. Weygand ed il Maresc. Petain, che in seguito assumerà il titolo di Capo dello Stato Francese.

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    10 giugno 1940. Le colonne tedesche dell'Ovest raggiungono la Serena a Rouen, tagliando i collegamenti fra Parigi e Le Havre; quindi superano il fiume, raggiungendo Vernon a non più di centro chilometri in linea d'aria dalla capitale, mentre le truppe franco-britanniche rimaste in una sacca fra Dieppe e Fècamp sono costrette alla resa. Nella foto una colonna corazzata tedesca supera la linea ferroviaria Le Havre Rouen, dove brucia un treno di rifornimenti.

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    Il Generale Guderian, comandante dei mezzi corazzati tedeschi durante l'offensiva in Francia, mentre ispeziona un carro. Guderian aveva studiato per molti anni la tecnica d'impiego delle « PanzerdivisionIen » che poi venne sfruttata con altrettanto successo sui vari fronti.

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    L'11 giugno i tedeschi sono a Compiègne e Chantilly, mentre più a sud le armate di Hitler dilagano oltre la Marna, senza che vi sia questa volta a fermarle, come nel '14, il genio di un Generale Gallieni. Nella foto l'immagine della sconfitta francese, ormai irreparabile: una interminabile
    colonna di prigionieri sulla strada di Amiens.

    La caduta di Parigi

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    13 giugno 1940. La ritirata francese si sta tramutando in una rotta. Sulle strade che portano verso il sud, le colonne militari si mescolano alle popolazioni civili in fuga. Mentre i carri armati irrompono dappertutto, gli Stukas continuano a martellare dal cielo í resti delle armate francesi. Parigi circondata ormai dai tedeschi, è dichiarata città aperta. Il mattino successivo vi penetrano le avanguardie dell'armata di Von Kukler. Nella foto sullo sfondo della Torre Eiffel sventola la bandiera con la svastica della Germania di Hitler.

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    14 giugno 1940. Per la seconda volta in meno di settant'anni, i tedeschi hanno conquistato la capitale francese. I tempi dei maquis sono ancora di là da venire. Sbigottiti dal rapido crollo del loro esercito, i parigini osservano i soldati tedeschi che rendono un cavalleresco omaggio al sacello del Milite Ignoto all'Etoile. La vita riprese presto, a Parigi. Qualche giorno dopo uscivano già i quotidiani, tra i quali « La Victoire » che si definiva giornale « revisionista ».

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    Parigi, giugno 1940. Le truppe germaniche sfilano nella parata della vittoria. sullo sfondo l'Arco di Trionfo, occupata la capitale francese, la manovra germanica si sviluppò ad est, ad ovest e a sud. Da un lato venne occupata Le Havre, mentre continuava l'avanzata verso Caen e Chartres. All'estrema destra. crollava il grande rettangolo delle Argonne e si iniziava, dopo la caduta di Montmè dy, l'attacco diretto contro la linea Maginot.

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    Occupata Parigi, le truppe tedesche apprestarono immediatamente a difesa la capitale, contro l'eventualità di un ritorno offensivo dei francesi. Ma le precauzioni del Comando germanico si dimostrarono inutili. Il « miracolo » della Marna non si ripetè. L'esercito francese aveva praticamente cessato di esistere come forza combattente dopo lo sfondamento della Linea Weygand. Nella foto batterie contraeree tedesche sui tetti di Parigi.

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    Il cannone « Valerie », catturato dai francesi nella guerra 1915-18 assieme a molti altri cimeli di quel conflitto fu dai tedeschi, riportato a Berlino. Nella foto il « Valerie », inghirlandato di alloro, prima del trasferimento.
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    Lo sfondamento della Maginot

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    La Linea Maginot e la Linea Sigfrido. Per parecchi mesi i due eserciti contrapposti erano rimasti fermi dietro alle formidabili barriere dei due complessi fortificati. Era quasi sembrato che il conflitto dovesse esaurirsi in una interminabile lotta di logoramento simile a quella del 1914-18. Ma se i francesi, cristallizzati nel loro concetto ai guerra di posizione, affidarono ogni loro fortuna alla Linea Maginot, i tedeschi considerarono la Sigfrido soltanto come uno schermo protettivo dietro ai quale avere agio di mettere a punto la loro macchina di guerra con cui battere il nemico in campo aperto.

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    Là Linea Maginot era costituita da una serie di forti scaglionati in profondità lungo tutto l'arco di frontiera dalla Svizzera al Belgio. Tra un caposaldo e l'altro correva una vastissima rete di collegamenti sotterranei mentre in superficie, alle opere maggiori si aggiungevano le più modeste ridotte per le fanterie di prima linea e imponenti sbarramenti anticarro. Estesi campi minati completavano il sistema difensiv. che i tecnici militari giudicavano inespugnabile.

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    I servizi della Linea Maginot erano stati studiati e realizzati in modo da assicurare alle truppe di presidio le migliori condizioni di vita anche in caso di una prolungata resistenza. Nella foto In alto una piccola ferrovia a scartamento ridotto per il trasporto del rancio lungo le interminabili gallerie sotterranee. Nella foto al centro l'impianto per l'aria condizionata in una delle opere maggiori della Linea. In basso i soldati si sottopongono alla cura dei raggi ultravioletti per compensare i disagi della permanenza al chiuso dei sotterranei.

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    Una visione degli interminabili tunnel che per diecine di
    chilometri collegavano fra loro i fortini blindati della Maginot.


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    Le ostruzioni anticarro di fronte alla Maginot, che dovevano
    rivelarsi una fragile ed illusoria barriera di fronte all'audace tattica dell'esercito tedesco da tempo predisposta.



    La linea Sigfrido

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    La Linea Sigfrido, di ideazione e costruzione più recente della Maginot, aveva caratteristiche molto diverse da quelle del sistema fortificato francese. Invece delle gigantesche opere francesi, i tedeschi avevano costruito una serie di ridotte in cemento armato, sistemate in modo da controllare vicendevolmente le rispettive zone di sicurezza. Inoltre, in sede tattica, il comando germanico aveva stabilito in un piano di stretta cooperazione dei veri e propri fortini mobili inseriti nel sistema. Nella foto in alto una panoramica della Linea Sigfrido con i caratteristici ostacoli anticarro. Nella foto in basso a sinistra un altro sbarramento del tipo cosi detto a dente rafforzato da un profondo fossato. Nella foto in basso a destra un colossale bunker della Sigfrido.
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    15 giugno 1940. Le armate tedesche che avevano operato sull'ala destra dello schieramento francese, iniziano l'attacco alle fortificazioni della Linea Maginot, investendola sia direttamente dalla parte della Saar sia sul rovescio, dalle posizioni di Vitry e Sainte Mehould. Nelle giornate del 15 e del 16 giugno l'offensiva raggiunge il pieno successo, con lo sfondamento su entrambe le linee della Mosa e con l'occupazione della storica città di Verdun. Nelle loto una pattuglia tedesca di lanciafiamme assalta da un angolo morto una ridotta corazzata della Maginot. In basso a destra dalla feritoia è ormai entrata la morte.

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    16 e17 giugno. Mentre continua metodica l'opera di smantellamento della Maginot, le colonne celeri tedesche, che hanno rotto il fronte anche nello Champagne, dilagano rapidamente verso sud, e il giorno 17 toccano la frontiera svizzera a Portarlier.. La linea fortificata è così completamente circondata, rendendo impossibile la ritirata alle armate dell'est. Osservare nella foto come l'assalto degli specialisti tedeschi alle casematte francesi abbia tutta l'aria di una esercitazione. Il fatto è che l'impresa era stata studiata con tutta la tipica meticolosità tedesca e nel momento dell'azione ogni uomo sapeva con estrema esattezza qual'era il suo posto e quali erano i movimenti da compiere per cooperare al successo. L'azione costò pochissime perdite, in rapporto ai risultati. Nella foto a sinistra I lanciafiamme all'opera. In alto a destra a distanza ravvicinata vengono lanciate nelle feritoie potenti cariche di esplosivo- In basso la fine.

    Arditi all'attacco

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    Due fasi dell'attacco di una pattuglia di guastatori tedeschi ad un bunker della Maginot. In alto, dopo il passaggio dei lanciafiamme. il guastatore getta nell'interno del fortino una granata a mano. In basso l'ingegnosa tecnica usata dai tedeschi per neutralizzare il tiro delle armi leggere dei francesi assediati. Giunti a ridosso della posizione nemica seguendo un itinerario defilato, gli uomini del genio pionieri gettano contro la feritoia sacchetti di sabbia.

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    La tecnica degli assalti ai bunker era perfetta e implacabile. Grazie al coordinamento dei movimenti, un piccolo nucleo di uomini bastava a distruggere opere apparentemente inespugnabili. Nella foto in alto l'azione combinata di due guastatori mentre esplode una carta alla base del fortino, l'altro assaltatore si appresta a lanciare la sua granata nella torretta. In basso due aspetti della resa di un fortino francese.
    Nella foto in alto, sono visibili i tremendi effetti del tiro dell'artiglieria pesante tedesca e dei bombardamenti aerei contro un forte della Linea Maginot. In basso la bandiera con la croce uncinata sulla cupola di cemento di un forte espugnato consacra la vittoria. Se si considera quale somma di sforzi e di sacrifici è costata al popolo francese e con quanta rapidità i tedeschi l'hanno frantumata, la Linea Maginot rimarrà nella storia delle opere fortificate militari la più gigantesca ma anche la più inutile delle costruzioni.

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    L'Inghilterra difende il suo impero: destinazione Singapore.

    L'Italia in guerra

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    9 giugno 1940: varo della Nave da Battaglia a Roma, gemella della Littorio, della Vittorio Veneto e della Impero. Queste unità, armate con pezzi
    da 381, con le loro 30 miglia di velocità e con la perfezionatissima protezione orizzontale e verticale, erano considerate tra le più potenti del mondo. Infatti nessuna delle navi similari presenti nel mediterraneo durante i primi anni del conflitto era in grado di tener loro testa e solo alcuni anni dopo apparvero, sotto la bandiera inglese e statunitense, unità pari a questa conquista del nostro Genio Navale.

    Nel pomeriggio del 10 giugno il ministro degli esteri Galeazzo Ciano riceveva gli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna e comunicava loro che
    dal giorno seguente l'Italia si sarebbe considerata in guerra con i due Paesi. Poco dopo, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciava la storica decisione al popolo italiano. Si chiudeva cori, dopo nove mesi, la pagina della non belligeranza italiana e il turbine della guerra si scatenava sulla Penisola. Perché l'Italia aveva scelto proprio quel momento per entrare nel conflitto? Perché non aveva conservato la comoda posizione di attesa che aveva adottato nel settembre del '89 e che, forse, le avrebbe dato, quale unica grande potenza europea neutrale, le più ampie possibilità di mediazione e di manovra? La risposta a questa domanda non va ricercata nella pletora di memoriali che è sorta in questi ultimi anni dai rigurgiti della disfatta, Meno che meno nei tanti apocrifi testamenti mussoliniani o nella libellistica di parte. La verità vera, infatti, la potrebbe dire soltanto Mussolini che, invece, tace per sempre. Comunque, sulla base delle varie testimonianze degli uomini che furono più vicini al Capo del governo in quel cruciale momento della nostra storia, pare ormai accertato che Mussolini, impressionato dai travolgenti successi tedeschi e dalla fragilità dimostrata dal fronte delle democrazie, ritenne che la guerra si sarebbe esaurita in breve volgere di mesi e che all'imminente crollo francese sarebbe seguita la capitolazione britannica o, quanto meno, una pace concordata in una grande conferenza internazionale, Se l'Italia non avesse gettato il peso delle sue armi sulla bilancia, egli pensò, assai difficilmente avrebbe potuto far valere le proprie rivendicazioni mediterranee e africane. Non solo, ma avrebbe corso Al rischio di trovarsi isolata in una combinazione anglo-tedesca di cui s'intravedeva con una certa approssimazione le linee nella stessa antabiografia di Rider « Mein Kampf », combinazione nella quale non v'era posto per terzi incomodi latini. Benito Mussolini, insomma, ebbe paura di perdere l'autobus della pace e di rovinare, con un attimo di indecisione e di debolezza, l'edificio di potenza e di prestigio così faticosamente e sanguinosamente costruito in Etiopia e in Spagna. Dai diari di Ciano, dalle testimonianze dei suoi ministri e dei suoi amici risulta evidente che la decisione di intervenire nel conflitto si maturò nella sua mente solo negli ultimi giorni, dopo un serie di crisi di fiducia che il genero s'era industriato di volgere a favore della sua politica di neutralità intinta di anti-germanesimo e di anglo-filia. E se alla fine, per rispetto dell'alleanza che lo legava alla Germania e per la convinzione di creare una solida base alle fortune d'Italia, Mussolini si decise, fu anche perché i rapporti militari dal fronte non lasciavano dubbi, la Germania, dicevano, avrebbe vinto la guerra. Non fu dunque, come generalmente si afferma, la decisione di un uomo solo, contro il parere dei suoi consiglieri. Fu, invece, una risoluzione presa con animo combattuto e sulla quale concordano in molti, così al vertice come alla base. Sapeva, Mussolini, dell'impreparazione militare dell'Italia? Anche qui bisogna sfrondare molte leggende. C'è chi parla di un Capo del Governo perpetuamente imbrogliato dai suoi luogotenenti e tradito dai suoi generali e c'è chi afferma che Mussolini non volle sentir ragione quando gli furono prospettate le reali condizioni delle nostre forze armate. Ambedue le tesi sono errate. Mussolini conosceva perfettamente le possibilità della macchina militare italiana e le capacità di resistenza del Paese. Sapeva che se la Marina poteva reggere con onore il confronto con le forze avversarie e che se l'aviazione, tutto sommato, se la sarebbe cavata, l'esercito era rimasto molto in arretrato, soprattutto nel settore della meccanizzazione e dell'artiglieria. Sapeva, inoltre, che l'Impero, isolato dalla Madrepatria, non avrebbe potuto reggere ad un attacco concentrico e che anche in Libia la situazione non sarebbe stata certo rosea. Ma quale era la situazione degli avversari, in quel momento? La Francia era ormai virtualmente battuta, sul territorio nazionale, anche se avrebbe potuto continuare a combattere nel suo impero coloniale e sul mare, ove la flotta era quasi intatta. L'Inghilterra, perduto quasi tutto il suo esercito nella rotta di Dunkerque, doveva pensare seriamente a difendere il proprio territorio nazionale, minacciato dalla progettata invasione tedesca. Nel Mediterraneo, quindi, l'Italia avrebbe potuto, anche nella peggiore delle ipotesi, reggere il peso di un'offensiva, che non sarebbe stata certo irresistibile, degli sfiduciati anglo-francesi, con la prospettiva (che poi si sarebbe realizzata in pieno) di vedere uscire dalla lotta i francesi. Il tutto, s'intende, per il limitato numero di mesi che ancora dividevano il mondo dall'agognata pace generale. Tutte queste premesse logiche all'entrata in guerra italiana si dimostrarono poi errate. L'Inghilterra, sebbene fosse rimasta sola a combattere, non si arrese e non volle trattare la pace. La Francia, poco a poco, si converti al gaullismo, e il conflitto, per una serie di molteplici errori, si allargò come una macchia d'olio, a sempre nuovi paesi. Fino a che. di fronte alla coalizione avversaria, la sorte dell'Asse Roma-Berlino-Tokio, si rivelò segnata. L'Italia era dunque impreparata ad un conflitto mondiale, specialmente di fronte al colosso americano. Ma era perfettamente in grado di reggere ad un conflitto di minori proporzioni quale si credeva che fosse la guerra contro una Francia ormai in ginocchio e una Gran Bretagna duramente provata. Prova ne sia che ha, nonostante tutto, resistito validamente per quaranta mesi! L'errore fu di non aver preveduto come inevitabile l'intervento americano a fianco dei britannici. Come errore fu, da parte tedesca, l'aver sottovalutato la potenza militare sovietica. Naturalmente per valutare nella giusta misura le possibilità italiane, bisognerebbe parlare anche della condotta militare della guerra da parte dello Stato Maggiore. Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano e questa è la sede meno adatta per una polemica. Vi accenneremo brevemente in seguito ove, illustrando le varie fasi del conflitto sui nostri fronti, non potremo farne a meno. Quindici giorni di guerra, in totale e solo quattro giorni di battaglia. Quattro giorni d'inferno, nel gelo, ad altezze varianti fra i duemila e i tremila metri, di fronte ad un nemico ostinato che non voleva darsi per vinto. Quattro giorni che, se non portarono a risultati spettacolari sul piano strategico, dimostrarono però che il soldato italiano sapeva battersi bene. Lo avrebbe dimostrato ancor più nella lunga vicenda che purtroppo si chiuse tragicamente 1' 8 settembre 1943. Ma la sconfitta e la capitolazione non possono cancellare le pagine luminose di eroismo scritte prima di quell'infausto giorno dagli eroici soldati d'Italia.

    Le forze armate Italiane

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    All'entrata in guerra, la marina italiana rappresentava, nel Mediterraneo, una forza poderosa: sei corazzate (di cui due da 35.000 tonnellate ancora in allestimento) sette incrociatori pesanti e 26 leggeri, 15 esploratori; 130 cacciatorpediniere e torpediniere, 125 sommergibili da media e grande crociera e un numero imponente di unità minori. Le unità italiane, appoggiate alle munitissime basi metropolitane, erano inoltre in grado di concentrarsi rapidamente nell'uno o nell'altro bacino e quindi di fare fronte compatte alla flotta franco-britannica che, superiore per tonnellaggio, doveva però fare i conti con la posizione strategica della penisola italiana. In alto una veduta aerea della flotta italiana in navigazione. La Cavour s e la Giulio Cesare, completamente rimodernate fra il '36 e il '40, avanzano in linea di fila, attorniate dalle unità minori. In basso un aspetto della potente flotta sottomnarina italiana.

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    Al contrario di quanto era accaduto nel 1915, all'entrata in guerra non fu indetta la mobilitazione generale. Le grandi unità già da tempo predisposte si erano venute completando gradatamente, attraverso il richiamo alle armi di alcune classi. Nel giugno 1940, l'Italia schierava un complesso di circa 51 divisioni così dislocate: alla frontiera alpina occidentale, la 4a Armata in riserva e la 7a Armata. Alla frontiera alpina orientale la 2a Armata e l'Armata del Po. Nell'Italia centro-meridionale, due, Armate per la difesa territoriale. In Albania un corpo d'occupazione della forza di un Corpo d'Armata.. In Libia la 5a Armata in Tripolitania e la l0a Armata in Cirenaica. Nell'Impero truppe coloniali e metropolitane ripartite fra i varia scacchieri. Le truppe italiane, all'inizio del conflitto, rappresentavano un complesso militarmente efficiente. Lo spirito dei soldati si dimostrò sempre elevatissimo.

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    Nel decennio precedente la seconda guerra mondiale, l'aeronautica militare italiana era stata oggetto di cure attente e continue da parte del governo, italiano. Soprattutto durante la lunga gestione di Italo Balbo, piloti e macchine erano stati collaudati su tutti i cieli del mondo, in arditissime imprese che avevano suscitato l'ammirazione dell'opinione pubblica internazionale. Tuttavia, come del resto era accaduto per l'esercito, l'aviazione aveva risentito il peso delle due successive guerre Etiopia e di Spagna e si era presentata nel conflitto mondiale con un numero relativamente ridotto di apparecchi. Qualche prototipo, poi, soprattutto nel settore della caccia, era rapidamente invecchiato e fu sostituito con modelli più moderni fin dai primi mesi di guerra. Tale sforzo fu possibile grazie al grande sviluppo dell'industria aeronautica nazionale e anche all'aiuto degli alleati tedeschi. Anche la difesa antiaerea DICAT affidata alla Milizia come, specialità a parte, era e si dimostrò vincente e agguerrita.

    CAPI MILITARI DELL'ITALIA IN GUERRA

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    Maresc. P. Badoglio Capo di S.M. Generale

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    Maresc. R. Graziavi Capo di S.M. dell'Esercito

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    Umberto di Savoia Com.te Gruppo Armate Nord

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    Gen. F. Pricolo Capo di S.M, dell'Aviazione

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    Amm. D. Cavagnari Capo di S.M. della Marina

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    Luog. Gen. A. Starace Capo di S.M. della Milizia

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    Amedeo Aosta Com.te dell. Truppe dell'Impero

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    Maresc. I. Balbo. Com.te delle Truppe in Libia

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    Gen. A. Guzzoni Com.te 4° Armata







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    Soldati di terra, di mare, e dell'aria, diceva il proclama di Vittorio Emanuele III capo supremo di tutte le forze di terra, di mare, e dell'aria -seguendo i miei sentimenti e le tradizioni della mia Casa, come 25 anni or sono, ritorno tra voi, Il mio primo pensiero vi raggiunge mentre, come me dividendo l'attaccamento profondo e la dedizione completa alla nostra Patria immortale, vi accingete ad affrontare, insieme con la Germania alleata, nuove difficili prove con fede incrollabile di superarle.

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    Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. Con queste
    parole, il 10 Giugno 1940 Mussolini diede, dal balcone di palazzo Venezia
    l'annuncio dell'entrata in guerra. Il giorno dopo assumeva il comando delle truppe operanti su tutti i fronti e confermava Badoglio nella carica di Capo di Stato Maggiore Generale. Graziani rimaneva quale Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Pricolo quale Capo di Stato Maggiore dell"Aeronautica e Cavagnari quale Capo di Stato Maggiore della Marina.

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    In pochissimi giorni tutto il paese, che era da tempo preparato, assunse la sua veste di guerra. Zone di interesse militare o industriale vennero mimetizzate, mentre si provvide prontamente a proteggere o a mettere al sicuro il patrimonio artistico nazionale. L'oscuramento fu subito totale. Intanto, sul mare, soprattutto nel canale di Sicilia, nel Tirreno e nello Jonio, nonché dinnanzi alle principali basi navali, i posamine della Marina provvedevano a sistemare estesi sbarramenti, a tutela del traffico. A sinistra l'Ara Pacis a Roma assume - ironia del destino - la sua veste di guerra. A destra posamine Italiani in navigazione mentre si apprestano a depositare il loro micidiale carico.
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    La guerra sul mare

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    10 giugno 1940 - Ancora oggi pochi sanno che la prima azione di guerra sul mare è stata compiuta la notte sull'11 giugno dalle due navi posacavi Giasone e Città di Milano e da quattro pescherecci già appartenenti alla soc. Sapri contraddistinti come Gruppo Orata. Si trattava di recidere i sette cavi sottomarini che legavano Londra alle sue basi mediterranee. Quattro furono troncati nella prima e terza notte di guerra dalla Giasone che appare nella foto; gli altri tre cavi furono recisi nel corso di sette missioni effettuate dai motopescherecci. La Città di Milano dal canto suo troncò il cavo Tunisia-Jugoslavia. I comandanti delle unità nell'audace impresa furono: Cap. di Freg. Fiorentino, Cap. di Corv. Osti, Cap. di Corv. Vanni, Ten. Vasc. Fetta. Il personale specializzato della Soc. Pirelli era agli ordini dell'ing. Schiaffino.

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    11 giugno 1940 - Allo scoccare dell'ora fatale della guerra i.primi successi nel Mediterraneo furono conseguiti dai nostri sommergibili che avevano già
    preso il mare in attesa di ordini. L'onore di mettere a segno il primo siluro contro un bersaglio inglese toccò al Capitano di Corvetta Tosoni-Fittoni che al comando del Bagnolini colò a picco l'incrociatore a Calypso di cinquemila tonnellate. In quegli stessi primi giorni di guerra i nostri sommergibili distrussero inoltre due petroliere, un cacciatorpediniere francese, cinque piroscafi armati e un quadrimotore Sunderland abbattuto dalle mitragliatrici del smg. Sirena. Tre nostri sommergibili non fecero ritorno alla base. L'intrepido comandante Tosoni-Fittoni (nella foto qui di lato) cadde poi nell'Oceano Atlantico al comando del smg. Michele Bianchi con il quale aveva conseguito altre strepitose vittorie, tanto da meritare l'appellativo di Corsaro dell'Atlantico.

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    Secondo un cliché abusatissimo, l'attacco italiano alla Francia fu una pugnalata alla schiena, cioè una specie di maramaldesca bravata, fatta al solo
    scopo di poter vantare, al tavolo della pace, che Mussolini sperava imminente, qualche titolo di merito. Il dieci giugno 1940 la Francia , se pure in critiche condizioni, era però tutt'altro che vinta. Il suo impero coloniale era intatto, la sua marina militare in piena efficienza e inoltre, alle sue spalle, c'era 1'Inghilterra che andava richiamando dal Dominions tutte le truppe disponibili. I francesi, insomma, avevano ancora (e De Gaulle lo avrebbe dimostrato)) spirito combattivo e volontà di resistenza. Ne fu una prova l'incursione contro Genova effettuata dalla squadra francese qui riprodotta nei primi giorni del conflitto.

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    In quella giornata si distinse una vecchia torpediniera italiana, una delle cosidette Tre Pipe che già avevano combattuto nella prima guerra mondiale: la
    Calatafimi. La piccola nave, che incrociava nel Golfo di Liguria in missione antisommergibili, scorta la formazione navale avversaria si lanciò contro di essa, incurante della superiorità numerica e la attaccò decisamente col siluro. Le navi francesi, sorprese da tale gesto di audacia, invertirono la rotta per rifugiarsi a Tolone. Nelle foto la Calatafimi e il suo eroico comandante, medaglia d'oro Brignole.

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    Originariamente i piani del comando italiano prevedevano, sull'arco del confine occidentale, soltanto un'attività strettamente difensiva. L'andamento delle operazioni tedesche e la generale persuasione che con il crollo della Francia la guerra si sarebbe avviata rapidamente a conclusione, indussero però lo Stato Maggiore a modificare le sue vedute. Fu deciso quindi che anche sul fronte alpino si sarebbe passati all'offensiva. Lo spostamento dei reparti sulle loro nuove posizioni e gli apprestamenti necessari furono completati a tempo di primato fra il 10 e il 21 giugno, data d'inizio della gigantesca offensiva. In alto a sinistra sentinella sulle Alpi mentre ferve la preparazione militare. In basso a sinistra le truppe passano il confine mentre imperversa una bufera di neve. Il tempo, malgrado la stagione estiva, fu sempre inclemente e ostacolò non poco le operazioni militari. Nelle foto a destra (dall'alto in basso): truppe someggiate si inoltrano nel territorio francese sul confine del Moncenisio; gli alpini, intanto, superano la sbarra di frontiera sul San Bernardo; nelle retrovie i carri armati, coperti di neve, attendono l'ordine di entrare in azione.

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    La situazione delle truppe italiane in Libia non era delle più facili, nei primi giorni del conflitto. L'urto nemico poteva venire da tutti e due i fronti: quello tunisino e quello egiziano, mentre le flotte riunite francese e britannica avrebbero potuto con facilità interrompere il flusso dei rifornimenti dalla Madre Patria. Ma le truppe nazionali e indigene, in vivaci e riuscite azioni di pattuglie presero l'iniziativa anche in Africa. Nella foto a destra bersaglieri motociclisti sulla Balbia mentre varcano il confine egiziano. La grande strada costruita dal Maresciallo Balbo fu per tutta la durata del conflitto la vena maestra del nostro sistema logistico. Nella foto di sinistra un caratteristico tipo di graduato delle nostre truppe indigene. I libici servirono con fedeltà ed eroismo sotto la bandiera italiana, rinnovando le gesta delle precedenti campagne coloniali. Pochi mesi di guerra nel deserto dimostrarono che l'era delle campagne coloniali, condotte con limitati contingenti di soldati metropolitani e con formazioni più o meno regolari di indigeni era ormai tramontata. Anche in Africa al cammello e al cavallo si sostituivano il camion e carro armato. Nella foto una carica di Spahis.

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    Sopra: il settore del Monginevro del fronte italo-francese. Su queste aspre montagne i soldati italiani combatterono la loro breve ma durissima battaglia. Per la prima volta dall'inizio del conflitto i cannoni tuonavano sopra i duemila metri, e per la prima volta un esercito, particolarmente preparato, portava la guerra di movimento sulle creste del più impraticabile tratto delle Alpi. Sotto: Tre momenti della guerra sul fronte italo-francese. Fanterie italiane avanzano su un ghiacciaio. E' giugno ma la guerra si combatte sulle nevi eterne, e i soldati hanno l'equipaggiamento invernale. I francesi sono appostati sulla difensiva in fortini e ridotte particolarmente attrezzate. Al centro una postazione fissa dell'artiglieria italiana facente parte del sistema difensivo del Vallo Alpino. In basso una fase del trasporto feriti verso l'ospedale. Particolari difficoltà, data la natura del terreno, dovettero, superare i servizi sanitari impiegati sul fronte delle Alpi Occidentali.

    La guerra sul mare

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    17 giugno 1940: - Il gabinetto Reynaud, che ha portato la Francia alla disfatta, rassegna le dimissioni. Subentra al suo posto un governo militare, con a
    capo il vecchio Maresciallo Pétain. Il vincitore di Verdun, in considerazione della situazione senza speranza delle truppe francesi, si mette subito in contatto, attraverso il governo spagnolo, con il comando tedesco. Intanto la battaglia continua. Il 18 viene respinto dai tedeschi l'ultimo disperato contrattacco francese sull'altipiano di Langres. Il giorno successivo cadono le Mans, Rennes, Chebourg. Il venti i germanici entrano a Brest, Tours, Bruges, Strasburgo. La loro marcia, ormai, non è più contrastata che da qualche isola di resistenza. La ritirata francese, si fa sempre più caotica. Nella foto il governo Pétain. Da sinistra a destra: Mireaux (Istruzione), Darlan (Marina), Bandoin (Esteri), Alibert (Giustizia), Laval (Vice Presidente del Consiglio), Marquet (Interno), Bouthillier (Finanze), Maresciallo Pétain, Caziot (Agricoltura), gen. Weygand (Difesa Nazionale), Ybarnegaray (Gioventù e Famiglia), Lémery (Colonie), gen. Pujo e gen. Colzon (Aviazione e Guerra).

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    Gli ultimi giorni della guerra in Francia furono caratterizzati da una avanzata sempre più rapida e sempre meno contrastata delle truppe motorizzate tedesche. Nella foto a sinistra soldati tedeschi, sul confine franco-svizzero, controllano i documenti delle persone che passano la frontiera. Nella foto a destra la bandiera tedesca è stata issata sul monumento alla vittoria nella foresta di Compiégne, ove nel 1918 era stato firmato l'armistizio.

    L'incontro di Monaco

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    19 giugno 1940. Mussolini e Hitler si incontrano a Monaco per concordare le clausole armistiziali da imporre alla Francia e per discutere sulla futura condotta delle operazioni militari. La vittoria sembra vicina, quasi a portata di mano, ma intanto si combatte ancora accanitamente. In quello stesso giorno, a Saumur, gli allievi della scuola militare francese si battono eroicamente, nel generale crollo, utilizzando le armi in dotazione alla scuola.

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    27 giugno 1940. Sul fronte del conflitto europeo si registra un intervento dell'Unione Sovietica. Con un ultimatum, il Governo di Mosca chiede alla Romania la restituzione del territori della Bessarabia. Il governo di Bucarest risponde con una nota nella quale si chiede di parlamentare. Interpretando la nota come un assenso alle sue richieste, il Cremlino invade la regione. Nella fot: carri armati sovietici dopo aver superato il confine romeno, sfilano in parata.

    La guerra aerea

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    Entrata nel conflitto con un altissimo spirito combattivo, l'Arma Azzurra inizio subito l'attacco delle basi nemiche, conquistando d'impeto quel predominio nel cielo che avrebbe mantenuto, con grandi sacrifici di uomini e di mezzi, fino al 1941. Nella foto in alto una formazione di apparecchi da bombardamento in volo verso le Alpi si appresta a bombardare le retrovie francesi. In basso in un campo di aviazione un armiere scrive indirizzi sulle bombe.

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    11 novembre 1918, Foresta di Compiégne. I plenipotenziari franco-britannici posano per una storica fotografia dinnanzi al vagone nel quale poco prima era stato firmato l'armistizio vittorioso con la Germania di Guglielmo II.

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    21 giugno 1940 ore 15,30, Foresta di Compiégne. La delegazione francese di armistizio, composta dei generali Huntziger, Parisot e Bergeret, dal Vice Ammiraglio Laluc e dall'ambasciatore Noel si presenta per trattare la resa.

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    22 giugno 1940: nello stesso vagone del 1918, che i francesi avevano trasformato in museo, il generale von Keitel e il generale Huntziger firmano l'armistizio. Una clausola del documento stabiliva che esso sarebbe entrato in vigore sei ore dopo la firma di un patto armistiziale con l'Italia. Nei tre giorni di guerra che intercorsero fra i due armistizi, i tedeschi continuarono quindi l'avanzata, raggiungendo con le avanguardie Poitiers, Rochefort, La Roehelie, Saint Etienne, Aix les Bains. Peraltro, mentre il grosso delle forze francesi depose le armi prima ancora che entrasse in vigore il patto armistiziale, alcuni forti della Maginot continuarono a combattere. Per fare cessare il fuoco fu necessario l'intervento diretto della commissione di armistizio.

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    Le condizioni dell'armistizio franco-tedesco furono relativamente blande. La Francia fu divisa in due zone: una sotto occupazione militare tedesca (comprendente tutta la costa atlantica e gran parte dei territori conquistati) e l'altra sotto dl controllo del governo Pétain. I francesi si impegnavano a non interferire in alcun modo sulle operazioni militari tedesche, a smobilitare le loro truppe di terra e a concentrare in alcune zone determinate i contingenti coloniali. La flotta avrebbe dovuto ritirarsi in alcuni porti africani e a Tolone. Nelle foto, in alto i due capi missione appongono la firma al documento di armistizio. Nella foto in basso i delegati francesi scendono dallo storico vagone di Compiégne.

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    La lotta a 3000 metri

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    Due erano le principali direttrici di attacco delle truppe italiane sul fronte alpino. La quarta armata avrebbe dovuto puntare su Briangon e su Modane,
    cercando di stringere in una morsa le truppe francesi attestate nella zona del Piccolo S. Bernardo. La prima armata, invece, avrebbe dovuto operare fra il Colle della Maddalena e il mare su due obiettivi: il Nizzardo e la Provenza. L'avanzata, malgrado le asperità del terreno e l'accanita resistenza francese, fu abbastanza rapida. In quattro giorni di offensiva gli italiani riuscirono infatti a travolgere quasi su tutto il fronte gli apprestamenti difensivi francesi, smantellando alcuni forti assai muniti, tra i quali degno di nota è quello di Chaberton. Il forte continuò a sparare fino all'ultimo fino a quando, cioè, rimase in piedi l'ultima torretta. Nella foto in alto la nostra artiglieria alpina raggiunse con una faticosa cordata la postazione assegnata. Nella foto in basso sotto il tiro del forte di Traversette il 12° Btg CCNN d'assalto scatta all'attacco.

    La resistenza francese

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    Le truppe francesi si batterono con accanimento per difendere il suolo della Patria. Il loro eroico comportamento fu riconosciuto dalle truppe attaccanti italiane che spesso concessero l'onore delle armi ai vinti. Nella foto una pattuglia francese striscia nella neve per contrastare l'irruenza degli attacchi italiani.

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    Anche i marocchini combatterono sul fronte alpino, assieme ad alcuni contingenti senegalesi. Erano le sole truppe di rincalzo di cui disponesse la Francia, che aveva gettato nella fornace, dinnanzi a Parigi, le sue migliori divisioni. Nella foto truppe prendono posizione sulle Alpi.

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    Le truppe francesi poste a difesa delle Alpi mantennero fino all'ultimo un morale elevatissimo. In molti casi, come si apprese dall'interrogatorio dei prigionieri, esse non erano al corrente della reale situazione della Francia. Infatti per parecchi l'armistizio fu una sorpresa. Nella foto uno « chasseur des Alpes » nella tuta mimetica bianca.

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    Prigionieri francesi in attesa di essere internati dopo la resa del fortino di Le Pilon, dall'espressione sconvolta dei visi s'intuisce la durezza della lotta anche se fu breve.

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    Durante i pochi giorni di guerra, l'aviazione francese effettuò sulle città italiane alcuni raids notturni, con un numero limitato di apparecchi. Furono bombardate Milano, Torino e Venezia, ma con scarsissimi danni. Nella foto la contraerea italiana in azione contro bombardieri francesi.

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    21.giugno 1940. Le truppe italiane del fronte occidentale iniziano la offensiva, al comando del Principe Ereditario Umberto di Savoia. Il fronte d'attacco è tra i più difficili e accidentati e i francesi vi hanno ancora numerose truppe (valutate a quasi venti divisioni), che si appoggiano a tre linee di fortificazioni e ad una catena di montagne alte dai duemila ai tremila metri. Non meno forte l'artiglieria con un complesso di oltre duemila bocche da fuoco, di cui parecchie di grosso calibro. Contro questo formidabile complesso difensivo in condizioni climatiche proibitive, che avrebbero provocato numerosi casi di congelamento, si avventano le due armate italiane la 1' (dal monte Granero al mare) e la 4' (dal monte Granero al Monte Rosa). Nella foto a sinistra le camicie nere di un battaglione della Milizia all'attacco sul S. Bernardo. Nella foto a destra il forte francese di Viraysse, conquistato dalle nostre truppe.

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    In quindici giorni di guerra l'esercito italiano registrò circa seimila uomini fuori combattimento sul fronte occidentale. Queste perdite relativamente elevate furono dovute all'asperità del terreno, alla necessità di operare sotto il fuoco d'interdizione francese e alla robustezza degli apprestamenti difensivi nemici. Nella foto Mussolini in visita ad un ospedale.

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    Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, nella sua qualità di Comandante del gruppo di Armate impegnate sul fronte Occidentale accompagnato dal suo stato maggiore ispeziona le unità reduci dagli aspri combattimenti svoltisi nel settore del Monginevro.

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    Un cimitero di guerra italiano ai piedi delle Alpi. I caduti,
    nella battaglia dl giugno, furono circa un migliaio, in buona parte alpini. Inferiori alle nostre le perdite francesi.

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    I treni armati erano una specialità della Marina che già
    durante la prima guerra Mondiale aveva dato brillanti prove nella difesa delle coste Adriatiche. Durante l'ultimo conflitto essi si prodigarono nella difesa delle coste della Patria e particolarmente in Sicilia. Durante un bombardamento di appoggio alle forze operanti, il T.V. Ingrao (nella foto) comandante dei treno armato della Liguria riportato in copettina, cadde eroicamente nell'adempimento del proprio dovere. Alla sua memoria fu concessa la Medaglia d'oro.

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    Nella breve campagna di Francia presso chè tutte le specialità delle nostre Forze Armate trovarono modo di cimentarsi e di pagare il loro tributo di sangue. Qui la fanteria di Marina del < San Marco > entra a Mentone col suo glorioso stendardo.
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    L'armistizio con l'Italia

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    24 giugno 1940. I plenipotenziari francesi entrano, salutati da un picchetto di carabinieri, nella Villa Incisa all'Olgiata, nei dintorni di Roma per firmare
    l'armistizio con l'Italia. La firma avviene alle 19,25. Per l'Italia appone la sua firma il Maresciallo Badoglio. Da parte francese firma il gen. Huntziger. Nella notte le ostilità cessano su tutti i fronti fra la Francia battuta e l'Asse. Nella foto in basso Badoglio legge le condizioni di Armistizio.

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    22 Giugno 1940. La Francia sconfitta al Museo di Berlino.

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    Pur essendo rimaste completamente isolate dalla Madre Patria, le truppe italiane dislocate nell'Impero condussero, durante i primi mesi di guerra, alcune importanti operazioni offensive tendenti a migliorare la situazione strategica al confine del Sudan e del Kenia e ad eliminare la pericolosa spina nel fianco costituita dalla Somalia britannica e dalle truppe stazionanti su quel territorio. Nella cartina sono segnate le direttrici degli attacchi italiani nell'estate del 1940.

    VITTORIE ITALIANE IN AFRICA

    Nei mesi che seguirono la caduta della Francia, i due principali contendenti. Gran Bretagna e Germania, divisi dalla Manica e dal Mare del Nord, continuarono il loro duello mortale solo con l'aviazione e con la marina. Fu quello il periodo che viene definito dagli storici col nome di « Battaglia d'Inghilterra » e se anche si trattò di una serie apparentemente frammentaria di attacchi e di contrattacchi, di combattimenti fra caccia e caccia, fra bombardieri e caccia, fra contraerea e bombardieri, il termine è pienamente giustificato. Nel cielo della Manica, nel cielo di Londra, nel cielo di Daventry sì decise forse il conflitto. E non meno importanti furono le operazioni sul mare ove si andava intensificando l'offensiva sottomarina. Nel Mediterraneo e in Africa Orientale dove, in quella fase della guerra, fra il giugno e il settembre del 1940, si svolsero le sole operazioni terrestri.In Libia, all'atto della dichiarazione di guerra non erano previste per le nostre truppe operazioni offensive di rilievo. Si temeva infatti un attacco concentrico dal confine tunisino e da quello egiziano. Ma, dopo l'armistizio, essendo stata rinforzata la decima armata con gli effettivi ritirati dalla frontiera della Tunisia, lo Stato Maggiore Italiano cominciò a ritenere possibile un attacco alle forze britanniche che in quel momento erano particolarmente ridotte. Il governatore della Libia Maresciallo Balbo anzi, quando fu abbattuto per un tragico errore nel cielo di Tobruk, era appunto reduce da un'ispezione alle nostre truppe in vista di un'azione che era stata espressamente richiesta da Roma. E il Maresciallo Graziani che il 8 luglio lo sostituì nel comando, trovò a Cirene un telegramma che gli ordinava di attaccare il 15 luglio, mentre un successivo telegramma gli chiedeva almeno di rivolgersi contro Sollum. Ma l'offensiva non ebbe luogo. Graziani, così come precedentemente Balbo, riteneva infatti insufficenti le forze a sua disposizione, sopratutto per quanto riguardava l'artiglieria, i carri armati e la motorizzazione, mentre lo Stato Maggiore pensava ad una guerra coloniale di vecchio tipo, fondata sulla potenza delle fanterie e sull'ausilio delle truppe camellate. Solo nel settembre Graziani attaccò verso Sidi el Barrani, non potendo più respingere le pressanti richieste di Roma. Stasi, dunque, in Libia. Ma stasi relativa, inframezzata dì colpi di Mano, di veloci raids desertici, da una parte e dall'altra, di una continua lotta di pattuglie avanzate, mentre le aviazioni contrapposte saggiavano le proprie forze in frequenti incursioni. Sul mare, intanto, il primo scontro importante, dopo le imprese più o meno fortunate di singole unità. La battaglia di Punta Stilo, cioè, che vide di fronte il nerbo delle due flotte e che si chiuse con la ritirata delle navi britanniche, sorprese dalla decisione del nostro comando navale. Quindici minuti di fuoco, in tutto. Ma in quel quarto d'ora, nello Ionio, la flotta italiana, pur notevolmente inferiore per numero e per potenza di fuoco, dimostrò che i britannici non possedevano il dominio del mare. Che cioè nel Mediterraneo, ogni loro Mossa avrebbe trovato di fronte la nostra marina e che sarebbe stata pagata a caro prezzo. Lo Scontro dunque anche se il bilancio delle perdite da una parte e dall'altra fu modesto, ebbe per l'Italia importanti conseguenze positive. Rese possibile cioè, il costante rifornimento delle truppe operanti in Libia. E questo « ponte » di navi non venne mai meno, per tre lunghi anni, perfino nei momenti più critici. La battaglia di Punta Stilo, però, rivelò anche la deficiente cooperazione fra la flotta e l'arma aerea. Questa mancata coesione non avrebbe mancato di far sentire nell'avvenire il suo peso negativo. Rimane da esaminare, in questa rapida rassegna, la situazione dell'Africa Orientale. L'Impero, conquistato di recente e non ancora del tutto pacificato, si trovava in condizioni critiche sviluppo del fronte, malgrado la limitatezza delle forze, malgrado le difficoltà d'ogni genere provocate dal clima micidiale e dalle asperità del terreno, fu proprio in Africa Orientale che si ebbero le prime riuscite operazioni offensive delle truppe italiane. Merito del Duca d'Aosta e dei suoi generali, vera «elite» africanista italiana, che diedero alla guerra, nei loro scacchieri, un'impronta decisa, audace, garibaldina. Merito della brillante organizzazione che in pochissimi anni era stata data all'immenso territorio. Merito, infine, della fedeltà degli indigeni che avevano ingrossato le limitate schiere metropolitane. Il primo attacco fu quello su Cassala nel Sudan Anglo-egiziano. L'impresa riusci perfetta come una manovra e non certo per la mancata reazione avversaria. Ma il sistema di comunicazioni rapide aveva reso possibile alle nostre truppe di conseguire la superiorità tattica nel settore prescelto e quindi l'accanita resistenza britannica si rivelò ben presto inutile. Del pari inutile fu la resistenza di Gallaba, di Kurmuk, di Ghezzan e, nel Kenia, di Moyale e di Buma. Dopo queste imprese di limitata importanza militare, fu la volta di un colpo più grosso, quello contro la Somalia britannica. Per l'attacco a quel possedimento la tecnica dei colpi di mano, attuata con successo a Cassala e nel Kenia, non poteva valere. Si trattava infatti di superare un complesso di fortificazioni campali moderne e non già di battere in campo aperto un modesto contingente avversario. Di conquistare una colonia e non già di occupare un villaggio. L'offensiva venne quindi accuratamente preparata dal generale Nasi e condotta con perfetta sincronia da tre colonne celeri, miste di nazionali e di indigeni. L'investimento delle due linee difensive britanniche fu violentissimo e in cinque giorni di combattimenti l'avversario venne travolto e sconfitto senza possibilità di ripresa. Non gli restava altra via che il reimbarco, sotto il martellamento della nostra aviazione. Una piccola Dunkerque africana, dunque...Ma la potenza britannica, sopratutto in Africa, era tale da poter reggere anche a colpi più duri. E infatti, nei mesi successivi, i nostri comandi in Africa Orientale ebbero notizia di poderosi concentramenti inglesi su tutti gli scacchieri e dovettero, sia pure malvolentieri, chiudere il brillante ciclo operativo che aveva portato le truppe italiane oltre i confini, per limitarsi ad una cauta difensiva. Nei mesi successivi, purtroppo, le generose illusioni dei primi mesi di guerra sarebbero cadute, Ma le truppe dell'Impero, comandate dall'eroico Duca d'Aosta avrebbero scritto, anche nell'avversa fortuna, nuove pagine di gloria.

    L'offensiva in Egitto

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    Con l'armistizio francese la situazione delle truppe italiane in Libia, che era sembrata criticissima per la possibilità di un attacco simultaneo dal confine egiziano e da quello tunisino, migliorò sensibilmente. D'altra parte, fin dai primi giorni di guerra, le truppe metropolitane e indigene, respingendo con decisione alcuni attacchi britannici e stroncando alcuni colpi di mano, avevano dimostrato di essere in grado di mantenere le loro posizioni. Nella foto reparti di artiglieria e di fanteria in marcia verso il confine egiziano con obiettivo Sidi el Barrani e Marsa Matruk.

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    Anche reparti libici parteciparono valorosamente alla guerra in Africa Settentrionale. Queste truppe comandate da ufficiali nazionali, avevano dimostrato il loro attaccamento alla bandiera italiana già nelle operazioni di riconquista dopo la rivolta senussita e nell'offensiva in Etiopia, durante la quale furono alle dipendenze del Generale Graziani sul fronte meridionale. Nella foto truppe libiche in marcia.

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    Epicentro dei primi combattimenti gin Libia fu la Ridotta Capuzzo, sul confine egiziano. La posizione, che copriva la strada Sollum-Bardia, fu reiteratamente attaccata da grosse pattuglie britanniche le quali volevano saggiare la resistenza dei difensori. Nella foto artiglieria italiana in azione di fronte alla ridotta contesa.

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    Nei vasti territori dell'Impero era dislocato un esercito valutato a circa duecentocinquantamila uomini, fra truppe nazionali e indigene. Queste ultime, però, costituivano il nerbo delle forze a disposizione del Duca d'Aosta, che gli Inglesi avevano definito c il più risoluto dei generali italiani. Nella foto in alto sfilata dei «dubat» a Mogadiscio. I <dubat» erano divenuti popolarissimi, per le loro doti guerriere e per la loro fedeltà. Nella foto in basso una banda irregolare «Galla» operante al confine con il Sudan.

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    Così in Libia come nell'Impero, i cammelli e i mehara, che avevano rappresentato nelle precedenti campagne coloniali il veicolo di trasporto universale, dovettero cedere il passo alla motorizzazione. Tuttavia specialmente in Etiopia, i reparti di meharisti seppero rendersi utili in molte occasioni. Nelle due foto reparti di meharisti durante una parata.

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    Numerosi furono gli atti di valore compiuti dalle truppe indigene, le quali confermarono dovunque, anche in condizioni difficilissime, piena fedeltà alla bandiera italiana.
    Nella foto un graduato delle truppe somale.

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    Il Comando italiano aveva concentrato sui fronti africani un buon nerbo di truppe motorizzate e corazzate. Ma i mezzi si dimostrarono ben presto inadeguati ai bisogni della nuova tecnica di guerra e sopratutto tecnicamente superati. Nella foto un reparto di carri armati leggeri in Africa Settentrionale.

    Nel cielo di Tobruk

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    Il Maresciallo dell'Aria Italo Balbo aveva assunto, all'inizio della guerra, il comando delle truppe operanti sul fronte libico. Contro il parere dello Stato Maggiore (Badoglio), Balbo si era dichiarato per una guerra audacemente offensiva in Africa ed aveva chiesto ripetutamente, senza ottenerli, rinforzi in truppe e materiali. Dopo l'armistizio con la Francia, si era messo a preparare febbrilmente un'azione verso l'Egitto, contando sull'elemento sorpresa per battere le forze britanniche ancora in crisi di organizzazione. Ma il 28 giugno, l'aereo di Balbo, reduce da un'ispezione alle truppe, fu colpito, nel cielo di Tobruk, dalla nostra contraerea e abbattuto in fiamme. L'apparecchio, apparso nel cielo della piazzaforte dopo un'incursione britannica, era stato scambiato per un Blenheim e centrato dall'artiglieria del « San Giorgio ». Nelle foto i feretri contenenti le spoglie di Italo Balbo e dei suoi compagni di volo passano per le vie di Tripoli.

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    Le truppe in Libia, all'inizio del conflitto erano così dislocate: Tripolitania, 5" armata (Garibaldi) costituita dalle divisioni Bologna, Savona, Sabratha, Brescia, Sirte, Pavia e dalla 23 Marzo CCNN. Fronte sahariano: sette battaglioni libici. Cirenaica: 10" armata (Berti) costituita dalle divisioni Cirene, Marmarica, Catanzaro, da due divisioni di CCNN e da due divisioni libiche. Un totale di 210 mila uomini, circa, di cui 35 mila indigeni. L'artiglieria era valutata a circa 670 pezzi di vario calibro, mentre gli automezzi erano circa 3500 e i carri armati (in genere di tipo leggero) 270. Nella foto artiglieria libica.

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    Nei primi mesi di guerra la Marina Italiana soffrì perdite dolorosissime. Il 28 giugno il CT. « Espero », mentre navigava da Taranto a Tobruk con
    uomini e materiali a bordo, fu attaccato insieme alle altre due unità della squadriglia, da 2 incrociatori e 4 CT. britannici. Il comandante del caccia capo
    squadriglia « Espero », capitano di Vascello Baroni (nella foto a destra), permise alle unità similari di salvarsi sacrificandosi con la sua unità. Alla sua memoria fu concessa la Medaglia d'Oro. Il19 luglio inoltre, gli incrociatori leggeri Colleoni e Bande Nere attaccarono al largo di Creta quattro cacciatorpediniere inglesi della classe « Hero ». Sopraggiunti l'incrociatore pesante australiano Sidney e ill CT. Havoc e i nostri incrociatori furono duramente impegnati. Nell'eccezionale documento fotografico si vede il « Colleoni » con la plancia in fiamme e la prua colpita da un siluro mentre sta per affondare dopo l'aspro combattimento. Anche al suo comandante, capitano di Vascello Novaro, fu concessa la Medaglia d'Oro,

    L'infamia di Orano

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    3 luglio 1940 - ore 17,55. L'armistizio firmato con la Francia prevedeva che la flotta francese avrebbe dovuto raggiungere un porto metropolitano per
    esservi disarnata. Tale operazione potè essere compiuta solo in parte, data la dislocazione delle forze navali francesi e l'accanita opposizione britannica. Il pomeriggio del 3 luglio nella baia di Mers el Kebir, nei pressi di Orano, ove si trovava concentrato il nerbo della flotta francese, si presentava la torpediniera britannica « Foxhound ». Vi si trovava l'ammiraglio britannico il quale consegnava al comandante francese una nota ultimativa. Il documento intimava ai francesi di scegliere fra l'auto affondamento di tutte le unità, l'internamento in un porto britannico e il disarmo in un porto delle Antille. In caso di rifiuto l'Home Fleet avrebbe cannoneggiato la flotta francese. Nella foto in alto la « Dunkerque », una delle più moderne ed efficienti unità della flotta francese.
    Nella foto in basso gli effetti del tiro britannico sulle navi francesi a Mers el Kebír. In primo piano la corazzata Provence dietro a destra la nave da battaglia Strasbourg che riuscì ad aprirsi il varco. In fondo la corazzata Bretagne già in fiamme sotto il tiro inglese.

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    Il vice ammiraglio Gensoul, comandante della squadra francese, chieste istruzioni al governo di Vichy, respinse le richieste britanniche. Fu così che la Home Fleet, presentatasi in forze di fronte alla rada, iniziò proditoriamente il cannoneggiamento delle navi francesi le quali, avendo i fuochi spenti, non erano in grado di manovrare e di opporsi validamente alla tempesta di fuoco scatenatasi contro di esse. Durante l'intenso bombardamento i danni arrecati alla flotta francese furono notevolissimi. La corazzata Bretagna, colpita in pieno da alcune salve, colò a picco e la stessa fine fecero altre unità minori. Tuttavia il giorno successivo la corazzata «Strasbourg», seguita da venticinque unità, riuscì a violare il blocco e a raggiungere Tolone. Nella foto in alto la Bretagner inquadrata dal tiro britannico, salta in aria. In basso la tragica fine della corazzata che affonda con tutto l'equipaggio.

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    L'episodio di Orano non rimase isolato. Anche la squadra
    francese ancorata nel porto di Alessandria fu disarmata
    dai britannici, mentre la stessa sorte subivano le minori
    unità sorprese dall'armistizio nei porti inglesi. Maggior
    fortuna ebbe la squadra di Dakar, che rimase indisturbata
    fino al settembre e poi respinse un tentativo degaullista.
    Nella foto l'ammiraglio inglese inviato a chiedere la resa
    delle unità francesi di Mers el Kebir lascia la nave dopo
    aver ricevuto un netto rifiuto. Sono le 17,30 del 3 luglio.

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    L'improvvisa azione britannica contro Orano provocò in Francia una grande indignazione. L'opinione pubblica, francese, che già imputava alla scarsa cooperazione inglese il disastro militare del giugno, fu scossa dall'annuncio della strage. Si parlò anche di dichiarazione di guerra tra il governo di Vichy e quello di Londra. Ma intanto De Gaulle, in Inghilterra, andava predicando in favore della ripresa della lotta contro gli invasori germanici. Nella foto l'arnmiraglío Gensoul tiene l'orazione funebre per le vittime di Mers el Kebir.

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    Mentre a Mers el Kebir l'ammiraglio Somerville cannoneggiava le unità francesi, l'Ammiraglio A. Cunningham, comandante della squadra di Alessandria, si trovava in grande imbarazzo davanti alle unità francesi rifugiate nel porto. Infatti, Cunningham riteneva un atto di nero tradimento ed estremamente ripugnante » il proditorio attacco alle navi francesi. In seguito, con opportune trattative la squadra francese di Alessandria fu pacificamente internata. Nella foto l'Ammiraglio Cunningham.
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    La conquista di Cassala

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    Cassala, a pochi chilometri dal confine eritreo, era stata occupata dagli italiani durante la campagna del '96 ma era stata successivamente abbandonata, enrando a far parte del Sudn anglo-egiziamo. Si trattava di un importante centro commerciale e strategico, poichè vi convergevano numerose strade. Venne così decisa, dal Duca d'Aosta, la sua riconquista. Nella fot: una suggestiva veduta di Cassala con le sue singolari montagne.

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    Il via all'attacco venne dato di sorpresa il 4 luglio 1940. Sulla città puntarono, da direttrici convergenti, tre colonne di truppe nazionali e indigene che travolsero le sporadiche resistenze britanniche. Nella foto meharisti passano, il Gasc in piena continuando l'avanzata su Cassala.

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    La cavalleria indigena e i carri armati, le bande irregolari e le truppe nazionali cooperarono con perfetta manovra alla conquista di Cassala. Travolgente fu l'attacco della cavalleria eritrea che mise in fuga numerosi reparti anglo-sudanesi. Nella foto in alto gli eritrei nella carica finale. Nella foto in basso i carri armati, scortati dall'aviazione, marciano sulle infuocate sabbie del Sudan Anglo-Egiziano verso l'obiettivo di Gassala.

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    Cassala è raggiunta e il tricolore torna a sventolare sulle posizioni abbandonate cinquant'anni prima. L'accoglienza delle popolazioni fu cordiale e le fortificazioni che gli inglesi avevano lasciato quasi intatte, nella fuga precipitosa, furono ben presto rimesse in efficienza nell'eventualità di un loro ritorno offensivo. Nella foto di sinistra sosta delle truppe autocarrate a Cassala. Nella foto di destra il tricolore dinnanzi al forte appena conquistato.

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    Quasi contemporaneamente alla conquista di Cassala, le truppe dell'Impero conseguivano, sempre sul fronte sudanese, altri importanti successi. Il 16 luglio, con una incursione su Kurmuk, il locale presidio britannico veniva messo in fuga. Nella foto a destra le bande che hanno occupato Kurmuk irrigidite nel saluto alla bandiera italiana che sale sull'antenna della stazione radiotelegrafica. Nella foto a sinistra la banca di Kurmuk.

    La battaglia di punta stilo

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    9 luglio 1940. Battaglia navale di Punta Stilo. Fu questo il primo importante scontro navale nel Mediterraneo. La ricognizione italiana aveva segnalato la presenza in mare, a sud di Creta, di un'importante formazione britannica che, divisa in tre gruppi, procedeva verso il Canale di Sicilia. Le forze avversarie in mare erano state valutate grosso modo ad una portaerei, tre navi da battaglia e numerosi incrociatori e cacciatorpediniere. La flotta italiana, al comando delí'Amm. Campioni, venne quindi concentrata nello Jonio e, malgrado la sua sensibile inferiorità numerica, corse al combattimento. Prima ancora che si stabilisse il contatto balistico fra le due formazioni navali, un sommergibile italiano aveva affondato un cacciatorpediniere, mentre era andato a vuoto, con la perdita di cinque apparecchi, un attacco di aero-siluranti britannici contro le nostre maggiori unità. Poi, a distanza di pochi minuti dall'ultimo attacco aereo, le corazzate italiane aprivano il fuoco contro la flotta britannica. Il contatto durò complessivamente quindici minuti e si concluse quando gli inglesi si allontanarono, ripiegando sulle loro basi. Nella battaglia, che l'ammiraglio Cunningham definì insoddisfacente, le perdite italiane furono di un caccia (lo « Zeffiro ») e di un sommergibile, mentre la Giulio Cesare venne danneggiata da un colpo da 381 in coperta. I britannici persero un caccia, un piroscafo e 18 aerei. Inoltre furono seriamente danneggiate la Hood e l'Ark Royal, nonchè due incrociatori e due caccia. Le perdite britanniche aumentarono il giorno successivo ad opera dell'aviazione quando la formazione fu raggiunta presso le Baleari. Nella foto in alto le artiglierie della Cavour aprono il fuoco, alla distanza di 26 mila metri, contro la formazione avversaria. Nella foto in basso l'eccezionale momento in cui le salve britanniche inquadrano la nostra formazione.

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    Il primo scontro navale in Mediterraneo si chiuse senza importanti conseguenze sull'equilibrio marittimo. Ma si trattò indubbiamente di un successo italiano di prestigio poichè per la prima volta nella storia una formazione britannica s'era sottratta al combattimento pur trovandosi di fronte a forze inferiori per numero e per mezzi. Nella foto in alto gli effetti del tiro britannico sulla Cavour il cui equipaggio ebbe una ventina di morti e numerosi feriti. In basso a sinistra un eccezionale documento di fonte inglese: la portaerei britannica Ark Royal inquadrata dal tiro della nostra aviazione presso le Baleari. A destra il Gen. Cagna caduto alla testa delle sue formazioni nell'attacco alle navi britanniche e decorato di medaglia d'oro alla memoria.

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    18 luglio 1940 - All'entrata in guerra dell'italia il generale Franco aveva modificato la sua neutralità dichiarando, come già Mussolini nel '39, la non belligeranza. Ma le pressioni italo-tedesche per portare nel conflitto la Spagna non ebbero alcun risultato. I britannici poterono così conservare Il possesso di Gibilterra. La piazzaforte, che malgrado i suoi formidabili apprestamenti difensivi non avrebbe potuto reggere a lungo ad un attacco da terra, fu così, per tutta la durata del conflitto, uno dei fulcri dell'azione britannica nel Mediterraneo. Per neutralizzarne almeno in parte la potenza, l'aviazione la bersagliò in numerose azioni di bombardamento. Si trattava però di un'impresa eccezionale, poichè dalle basi metropolitane un'incursione su Gibilterraa richiedeva un volo senza scalo di 3200 chilometri l'impresa fu realizzata per la prima volta il 18 luglio 1940.

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    19 luglio 1940. In un discorso al Reichstag, Hitler rivolge alla Gran Bretagna un appello alla ragione, cioè una formale offerta di pace. Il Fuhrer, pur
    glorificando la forza militare della Germania e pur dichiarando che la guerra, per l'Inghilterra, era ormai irrimediabilmente persa, aveva mantenuto un
    tono relativamente moderato. Una nota ufficiosa avrebbe spiegato poi che l'Asse non voleva la sconfitta e la rovina dei popoli che avevano accettato la cattiva politica dei loro uomini di stato, ma intendeva dare a tutti un posto in Europa secondo le capacità dei singoli e la loro volontà di leale collaborazione. L'invito cadde nel vuoto, per l'ostilità dell'Inghilterra a qualsiasi accordo e la lotta continuò.

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    Respinta da Churchill l'offerta di pace hitleriana, lo Stato maggiore tedesco, che fin dalla caduta della Francia era andato preparando i piani di invasione della Gran. Bretagna, decise di iniziare l'offensiva aerea contro le città britanniche che di tale piano era la necessaria premessa. Così l'8 agosto 1940 Goering diede il via alla gigantesca operazione che per alcuni mesi tenne l'isola sotto una valanga di ferro e di fuoco. I principali obiettivi furono, soprattutto nella prima fase, i porti della Manica, gli aerodromi costieri e la città di Londra, Nella foto a sinistra Aerei tedeschi in volo verso Londra. Nella foto a destra una veduta di Londra prima degli attacchi germanici.

    L'avanzata nel Kenia

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    Mentre sulla Manica si svolgeva la battaglia aerea d'Inghilterra, le sole operazioni terrestri di rilievo venivano registrate nella lontana Africa Orientale.
    Infatti le truppe dell'Impero, dopo la conquista di Cassala e di Kurmuk, continuavano nell'azione offensiva nella zona del Nilo Azzurro e si impossessavano di Ghezzan a sud est di Kurmuk e di Dumbode. Più a nord, veniva occupata con un audace colpo di mano, la località di Gallabat. Nella foto in alto un'ispezione ai fortini della cerchia esterna di difesa a Cassala. Nella foto in basso, mitraglieri in azione fra le rocce che si affacciano verso la frontiera del Kenia.

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    I carri armati leggeri e le unità autocarrate ebbero una parte notevolissima nel successo di queste operazioni. Le colonne celeri italiane sorpresero infatti il nemico che dopo un inutile tentativo di resistenza abbandonò le posizioni dandosi alla fuga. Nella foto a sinistra una colonna sosta nella boscaglia. Nella foto a destra il residente inglese di Mojale fatto prigioniero viene intrattenuto affabilmente dai nostri ufficiali.

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    Dopo i successi nel Sudan, le truppe dell'Imper. passarono all'offensiva sulla frontiera del Kenia, per eliminare il pericoloso saliente di Dolo. Nella zona la difesa britannica fu particolarmente accanita. Mojale, investita dalle nostre truppe, tenne duro per parecchi giorni e i britannici, sloggiati dalle loro posizioni tornarono varie volte alla contro offensiva, ma sempre invano. Anzi, dopo violenti combattimenti, erano costretti ad abbandonare anche Debel e Buna. Quest'ultima località, a novanta chilometri dal confine, segnò la punta massima della penetrazione italiana nel Kenia. Nella foto in alto Sul forte Harrington di Mojale sventola la bandiera italiana. Nella foto in basso le bandiere catturate al nemico nei primi mesi di guerra nell'Impero.

    Inglesi in fuga

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    3 Agosto 1940. Hanno inizio le operazioni contro il Somaliland. La colonia britannica era fortemente presidiata. Gli inglesi, anzi, vi avevano costruito una duplice linea di capisaldi, protetti da reticolato. Le truppe del presidio composte da battaglioni indiani e rhodesiani, nonché da forze cammellate britanniche, era particolarmente agguerrito. L'offensiva italiana si svolse su tre direttrici principali. La colonna di sinistra aveva per obiettivo Zeila, quella centrale Adadlek e quella di destra Aducina. Queste due ultime colonne, dovevano poi congiungersi per l'attacco alla capitale della colonia. Nella foto carri armati italiani a Zeila.

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    La marcia delle truppe italiane, malgrado le proibitive condizioni del terreno e le altissime temperature, che sfioravano i 50 gradi, procedette rapidamente travolgendo la prima linea di difesa avversaria. Il 6 agosto la colonna di sinistra raggiungeva il mare e occupava Zeila. Poi, lungo la costa, inviava un distaccamento a Bulhar. Più difficile il compito della colonna centrale che dopo una marcia durissima, prendeva contatto con il grosso delle forze britanniche al passo di Karrin e veniva Impegnata in aspri combattimenti. Nella foto colonne celeri verso Hargheisa.

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    I combattimenti fra il passo Carrin e Adadlek durarono cinque giorni fra alterne vicende. Ma alla fine le truppe italiane riuscivano a sfondare la linea britannica costringendo l'avversario a battere in ritirata verso Berbera. Nella foto truppe carrellate indigene in avanzata.

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    La seconda linea di resistenza britannica, che circondava Berbera, fu travolta in due giorni di offensiva. A La Faruk, ad una trentina di chilometri dalla capitale della colonia, le due colonne si congiungevano, mentre da Bulhar avanzava anche il distaccamento inviato da Zeila. I1 generale Nasi, comandante delle truppe operanti nel Somaliland aveva praticamente vinto la partita. Nella foto in alto autocarri italiani nella boscaglia. Nella foto in basso le fedeli truppe coloniali muovono all'attacco secondo la loro tattica in ordine sparso.

    Il tricolore nel Somaliland

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    L'entusiasmo delle truppe per il rapido successo dell'offensiva fu grandissimo. Nazionali e coloniali andarono a gara nell'attacco, superando con incredibile abnegazione le durissime difficoltà del clima e del terreno. Nelle due foto scene di esultanza dopo il combattimento per la conquista del fortino di Girreh.

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    Ormai, superata la Faruk, le truppe italiane marciano verso Berbera. La ritirata britannica si trasforma in rotta. Nella foto una veduta degli apprestamenti difensivi britannici.

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    Le perdite inglesi, in uomini e materiali, furono ingentissime e diedero la prova dell'accanimento della battaglia del Somaliland. Nella foto automezzi britannici distrutti sulla rotabile che porta a Berbera.

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    Le popolazioni indigene dei Somaliland si affrettarono a fare atto di sottomissione alle nostre autorità militari, dimostrano simpatia per gli italiani. Nella foto un capo tribù si sottomette a un nostro comando.

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    Il comando delle truppe che conquistarono la
    Somalia Britannica fu tenuto dal generale
    Nasi. Vecchio coloniale, Nasi seppe organizzare splendidamente l'offensiva, sia da un
    punto di vista strettamente militare, sia dal
    punto di vista logistico, cozzava contro difficoltà che gli stessi britannici avevano considerato insormontabili. Nella foto in alto il gen. Narri. Nella foto in basso il comandante della
    colonna che attaccò Berbera, Gen. Frusci.

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    19 agosto 1940. Sul palazzo del governatore britannico di Berbera sventola il tricolore vittorioso. Le truppe inglesi hanno lasciato la colonia a bordo di alcune navi da guerra, sotto il nostro cannoneggiamento e sotto i continui attacchi dell'arma aerea. Si è conclusa così una delle più brillanti imprese coloniali.

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    La conquista nel Somaliland fu l'ultima azione offensiva italiana nell'Impero. Il logorio materiali reso necessario dall'impresa era stato tale da indurre i comandi a desistere dal consumare ulteriormente le loro limitate risorse di mezzi che non erano reintegrabili, dato l'isolamento della Madre Patria. Nei mesi successivi la bilancia delle forze si spostò in favore dei britannici che erano in grado di far affluire in Africa Orientale rinforzi provenienti da tutte le loro colonie. Nella foto di sinistra prigionieri di colore dopo l'occupazione di Berbera. Nella foto di destra una bandiera britannica catturata nel Somaliland.
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    Cosa avviene, intanto, nel'Unione Sovietica e negli Stati Uniti, cioè nelle due grandi potenze rimaste estranee al conflitto? L'URSS, che si era notevolmente avvantaggiata con poca spesa, in conseguenza delle operazioni tedesche in Polonia, conservava ufficialmente un atteggiamento favorevole alla Germania. Il primo agosto, anzi, il Ministro degli Esteri Molotov attaccava in un discorso gli appetiti imperialistci degli Stati Uniti e del Giappone e dichiarava che perciò il popolo doveva essere sempre in stato di mobilitazione davanti al pericolo di un attacco bellico. Ma la frase era a doppio uso e difatti i sovietici schierarono il nerbo del loro esercito alla frontiera con la Germania, mentre continuavano a trattare con Hitler per aumentare la propria influenza nei Balcani. Nella foto a sinistra una parata militare sulla Piazza Rossa davanti al Cremlino. A destra Molotov.

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    Negli Stati Uniti, dove Roosvelt in vista della imminente campagna elettorale aveva promesso che non avrebbe mandato a morire oltre i confini i giovani americani se non per la difesa della Patria, cresceva intanto, malgrado la propaganda degli isolazionisti, l'ostilità per l'Asse. Viene costituita la cosidetta fascia di sicurezza di 300 chilometri intorno alle coste americane, interdetta ai belligeranti. Inoltre viene creata, anche in conseguenza dell'affitto di alcune isole britanniche in cambio di aiuti militari, una estesa catena di basi navali. Nel luglio il tonnellaggio della flotta viene portato a oltre tre milioni di tonnellate. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, viene infine introdotta la coscrizione militare obbligatoria. Nella foto la scuola militare di West Point.

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    Nel marzo 1917 l'ammiraglio britannico Jellícos aveva dichiarato che se la Germania avesse mantenuto lo stesso ritmo nell'offensiva sottomarina fino
    a novembre, l'Inghilterra avrebbe inevitabilmente perso la guerra. La grande isola assediata avrebbe dovuto, cioè, alzare la bandiera bianca perchè non sarebbe stata in grado di fornire le truppe di armi e di munizioni, di provvedere al sostentamento della popolazione civile e di far lavorare le fabbriche. In una parola, senza i rifornimenti dal mare non avrebbe potuto vivere giacché la cifra degli affondamenti aveva superato i diciotto milioni di tonnellate. Anche nel corso del secondo conflitto mondiale, la potente flotta sottomarina tedesca creò gravi preoccupazioni ai britannici, raggiungendo, in alcuni periodi, punte elevatissime di affondamenti. Cominciata quasi in sordina l'offensiva della flotta subacquea dell'amm. Doenitz, si sviluppò in tutta la sua imponenza dopo l'occupazione della Norvegia e della Francia, cioè nell'estate del 1940. In quei mesi fu combattuta nell'Oceano, nel Golfo di Biscaglia e nel Mare del Nord una lotta gigantesca che è passata alla storia come la «Battaglia dell'Atlantico». In questa battaglia l'Inghilterra lottò per la vita o per la morte. Nella cartina le rotte dei convogli spesso teatro di epiche battaglie con sommergibili tedeschi e italiani.

    LA BATTAGLIA DELL'ATLANTICO

    In entrambi i conflitti mondiali la Germania iniziò con inesplicabile ritardo la guerra sottomarina ad oltranza. Nella prima guerra, giunse a questa decisione il 9 gennaio 1917. Nella seconda, il blocco totale e la guerra dei sommergi ili senza restrizioni fu proclamata il 17 agosto 1 40. Perché, nell'uno e nell'altro caso, tanto ritardo? La spiegazione è di carattere politico ed è strettamente legata alla tenace speranza germanica di mantenere gli Stati Uniti fuori del conflitto, nonché alla necessità di non tirare troppo la corda con gli altri neutrali, ugualmente danneggiati dall'attività dei sommergibili. Ma si trattò, sia nel '14 che nel '39, di un gravissimo errore che precluse alla Germania la possibilità di dare alla Gran Bretagna il conio decisivo. L'Inghilterra, per la sua posizione insulare dipende infatti, per i rifornimenti essenziali, sia di materie prime per le industrie, sia per i bisogni alimentari delle popolazioni, dal mare. Interrompere per un certo tempo il flusso continuo delle navi nei suoi porti, significa dunque rendere impossibile la vita sulla Grande Isola. Porre, intorno alle sue coste, un ferreo blocco, significa trasformarla in una grande fortezza assediata destinata a cadere per fame in breve tempo. L'Inghilterra era stata in una simile drammatica situazione nei primi mesi del 1917, appena proclamato il blocco totale. E la situazione si riprodusse fedelmente nell'estate del '40, dopo la stasi quasi completa che aveva contraddistinto i primi mesi dell'anno. Quale sarebbe stata l'efflcenza bellica della Gran Bretagna se l'offensiva fosse cominciata prima? Se cioè i tedeschi, ammaestrati dall'esperienza della marina imperiale, avessero iniziato la Battaglia dell'Atlantico, senza le attenuazioni volute dal diritto internazionale, fin dal giorno dell'attacco contro la Polonia? E' difficile rispondere a questa domanda, anche perchè non sono sufficentemente note le cifre che si riferiscono all'entità della flotta sottomarina germanica all'inizio della guerra. Ma, anche con un numero di sommergibili limitato (pare che Hitler non disponesse che di una cinquantina di unità), i risultati non sarebbero mancati, come non mancarono, del resto, pure fra alti e bassi, fino a quando le esigenze delle operazioni in Scandinavia non costrinsero i tedeschi a concentrare le loro forze navali, di superfice e sottomarine, nelle acque norvegesi. Comunque, nel maggio del 1940, ancor prima della dichiarazione di blocco totale, la guerra sottomarina aveva avuto una ripresa considerevole, per raggiungere, nei mesi successivi, fra il giugno e il settembre, le punte più elevate. Erano le conseguenze dell'occupazione delle basi norvegesi, che rendeva possibile il controllo dell'imboccatura settentrionale del Mare del Nord. Poi, malgrado la posa di un immenso campo minato dalle Orcadi alla Manica, a protezione del traffico diretto a Edimburgo, Hull e Londra, la costituzione di nuove basi tra Le Havre e Bordeaux. nonchè tra Calais e Ostenda, fu per i britannici un nuovo grave colpo, cadevano infatti nel raggio d'azione dei sommergibili tedeschi anche i porti della costa occidentale mentre quelli della Manica diventavano praticamente inutilizzabili, a causa dei continui attacchi aerei. La situazione era dunque critica, per la Gran Bretagna, a pochi mesi dall'occupazione della Francia. Estromessa dal continente, attaccata dall'arma aerea nei suoi centri più vitali, minacciata dall'invasione dei paracadutisti severamente impegnata in Africa, l'Inghilterra s'avviava infatti al collasso interno per la crescente attività dei sommergibili, che stavano per affamarla.Se si salvò dalla stretta mortale, l'Inghilterra lo deve, più che alla tenacia del suo premier, Churchill, più che all'abnegazione della popolazione civile, più che all'eroismo dei marinai, all'apporto delle marine mercantili dei paesi invasi, nonchè alla cessione, da parte americana, di un nucleo di 50 preziose unità antisommergibili. Olanda, Norvegia, Danimarca e almeno in parte la Francia, diedero infatti alla navigazione mercantile britannica, una volta occupato il loro territorio nazionale, le loro navi, che reintegrarono così i vuoti spaventosi aperti dall'offensiva degli «U-Bootes». Il resto fu fatto con la cessione di numerosissime unità mercantili da parte di vari paesi non belligeranti. E' impossibile fare delle cifre attendibili sulle perdite subite dai britannici. Anche oggi, a dieci anni di distanza dalla fine del conflitto, mancano dati completi. E le cifre fatte durante la guerra sono contestatissime. Basti dire che nel luglio 1940 i tedeschi dichiaravano di aver complessivamente affondato quasi quattro milioni e mezzo di tonnellate di naviglio nemico, mentre i britannici ammettevano soltanto una perdita pari ad un quarto di tale cifra. La massima punta degli affondamenti fu comunque raggiunta fra il maggio e il luglio 1940, circa quattrocentomila tonnellate mensili. Poi, con il rarefarsi e l'ingrossarsi dei convogli, le statistiche subirono una flessione, stabilizzandosi all'incirca sulle duecentocinquantamila tonnellate al mese. Battaglia vittoriosa, dunque, per i sommergibili tedeschi, quella dell'Atlantico. Ma, come a tutte le battaglie di Hitler, anche questa volta mancò lo sfruttamentb a fondo del successo ottenuto. E mancò, precisamente, a coronamento del martellamento aereo e del blocco sottomarino, l'invasione della Gran Bretagna. Mentre nell'Atlantico l'Inghilterra lottava per sopravvivere, in Africa Settentrionale il suo corpo di spedizione doveva subire un grave rovescio, la ritirata dal confine egiziano a Marea Matruk, con la perdita di Sollum e di Sidi el Barrani, sotto l'impeto offensivo delle truppe del Maresciallo Graziani. La rapida preparazione, per il geniale disegno operativo e per l'eroismo e l'abnegatione delle truppe, la prima avanzata italiana in Egitto deve essere considerata tra le più belle della nostra guerra. Purtroppo la bilancia delle forze, m quel, settore, s'andava spostando a nostro svantaggio e ben presto i rincalzi britannici, provenienti da tutti i paesi del Commonwealth, avrebbero scatenato sugli avanposti attendati in pieno deserto la micidiale offensiva che fra il dicembre e il gennaio mise in grave crisi tutto il nostro schieramento nell'Africa Settentrionale.

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    Un'intensa propaganda marinara prima ancora dell'avvento del nazismo al potere, aveva diffuso nell'opinione pubblica tedesca un acceso spirito di rivincita. Diecine e diecine di volumi avevano glorificato le vittoriose Imprese degli U-Boot fra il '14 e il 18, e i nomi degli affondatori come il comandate De Périere, Forstmann, Rose e il notissimo Max Valentiner, erano diventati familiari alla gioventù germanica. Anche sul piano tecnico malgrado le limitazioni imposte dal trattato di Versailles, i tedeschi avevano saputo tenersi al passo con le nazioni più progredite e mentre per la flotta di superfiie venivano creati mezzi bellici come le famose corazzate tascabili erano nati nei cantieri di Brema, di Wilhelmshaven, di Kiel e di Amburgo i prototipi dei nuovi U-Boot che poi si sarebbero disseminati in tutti i mari a caccia di naviglio nemico. Nella foto a sinistra alla scuola dei sommergibilisti a Kiel, una curiosa prospettiva dei tipici berretti dei marinai germanici. A destra un sommergibile germanico sullo scalo, pronto al varo.

    Sommergibili in agguato

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    In navigazione nelle acque nemiche, il successo della missione
    e la sorte stessa del sommergibile sono affidate agli occhi
    delle vedette che puntano continuamente le lenti dei loro binocoli su tutto l'arco dell'orizzonte.

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    Una stretta di mano nell'Oceano. I comandanti di due sommergibili si salutano prima di allontanarsi lungo rotte opposte. Non si tratta però di un incontro fortuito. Il comando tedesco aveva infatti suddiviso le rotte dei convogli inglesi in tante zone di agguato sulle quali le unità si avvicendavano.

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    Funw in vista, a traverso di prora. Il comandante e salito in torretta per controllare. Tra qualche secondo darà l'ordine di immersione rapida e il sommergibile sarà pronto all'attacco.

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    Nella camera dei siluri il capo silurista attende il segnale del « Fuori! » che l'interfonico gli trasmetterà dalla camera di manovra ove il comandante conduce al periscopio l'attacco. Poi il soffio potente dell'espulsione, la breve corsa dell'ordigno e infine l'immane boato dello scoppio contro la fiancata della nave nemica.

    La grande speranza

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    La Germania iniziò la guerra con un numero relativamente limitato di sommergibili. Secondo calcoli attendibili, infatti, la sua flotta sottomarina non
    superava nell'agosto del 1939 le cinquanta unità. Ma un intenso programma di costruzioni segrete permise al comando tedesco di bruciare le tappe, estendendo il raggio degli affondamenti ai mari più lontani. Particolare importanza ebbe, per la lotta nel Mare del Nord, la munitissima base aero-navale di Helgoland che per sette anni fu una spina nel fianco dell'Inghilterra. La piccola isola (come le basi di Kiel, Welhelmshaven, ecc.) fu sottoposta a intensissimi bombardamenti aerei che però non ne intaccarono minimamente l'efficienza. I tedeschi avevano infatti attrezzato la base con numerosi bacini sotterranei nei quali, al sicuro da ogni attacco, gli U-Bootes potevano prepararsi alle loro micidiali missioni di guerra. Nella foto un bacino sotterraneo di carenaggio a Helgoland, la sicura base della flotta subacquea tedesca.

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    La gran parte della flotta sottomarina tedesca all'inizio del conflitto era costituita da unità di piccola e media crociera, particolarmente studiate per l'impiego operativo nel Mare del Nord, nella Manica e nelle acque che circondano la Gran Bretagna. Sucessivamente entrarono in servizio unità più grandi che poterono portare la loro offesa fin sulle coste americane dalle quali partivano i convogli di rifornimenti per la Gran Bretagna. Nella foto una squadriglia di sommergibili tedeschi esce dall'estuario della Schelda per una missione di guerra.

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    Il creatore e l'animatore della flotta sottomarina tedesca fu l'ammiraglio Doenitz, cui la sorte diede poi l'amaro compito di firmare, nel maggio del '45,
    la resa della Germania. L'ammiraglio, seguendo gli insegnamenti dei suoi grandi predecessori von Tirpiz, Scheer e von Schroeder, impose agli alti comandi il proprio concetto della strategia marittima, subordinando la costruzione delle grandi navi di superficie, volute da Hitler, all'ampliamento della flotta sottomarina. Doenitz, come prima di lui von Tirpiz, diede il massimo impulso agli studi sull'impiego del siluro. Questa tipica arma d'offesa aveva grandemente aumentato il proprio raggio di azione, la propria velocità e la propria potenza di scoppio, in modo da neutralizzare praticamente i progressi realizzati nella protezione corazzata delle navi. Nelle foto un sommergibile si prepara a partire per una missione di guerra. I siluri, montati su uno speciale affusto, vengono portati sulla banchina e di qui introdotti con una potente gru nello apposito locale alle due estremità del sommergibile. Terminato l'imbarco delle munizioni del carburante e dei viveri, il sommergibile lascia il porto con l'equipaggio schierato in coperta.

    Convogli

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    I britannici, di fronte alla minaccia sottomarina tedesca reagirono con la tecnica, già collaudata nel precedente conflitto, dei convogli scortati. Le unità
    mercantili venivano cioè raggruppate in alcuni porti, ove le raggiungevano alcune navi da guerra (incrociatori, cacciatorpediniere e cacciasommergibili)
    destinate alla loro protezione. Dal cielo vigilavano, ove possibile, aerei attrezzati con speciali bombe di profondità. Per la difesa dai sommergibili gli
    inglesi avevano anche perfezionato gli idrofoni, speciali apparecchi acustici che segnalavano la presenza dei sommergibili in movimento localizzandoli. L'organizzazione dei convogli e l'affinarsi della tecnica antisommergibile consenti ai britannici di arginare, per un certo periodo, lo stillicidio delle
    perdite. Ma ben presto i tedeschi adottarono una nuova tattica, quella di attaccare i convogli in massa come «branchi di lupi>.

    L'ultimo viaggio

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    Con l'occupazione delle basi norvegesi, fiamminghe e francesi, i tedeschi furono in grado di intensificare, in una misura senza precedenti, la lotta al
    traffico britannico. In poco più di un mese infatti, dalla fine di maggio ai primi di luglio, venivano affondate, secondo i bollettini germanici, ben 600 mila tonnellate di naviglio, il che portava il totale degli affondamenti a oltre 4 milioni di tonnellate. La cifra di fonte germanica fu smentita dall'Ammiragliato, ma i britannici ammisero tuttavia la gravità delle perdite subite. Col siluro e col cannone gli U-Bootes disseminarono l'Atlantico e il Mare del Nord di rotami e di naufraghi. In alto a sinistra una foto britannica mostra una nave da carico silurata che si inabissa, mentre i naufraghi si allontanano a bordo di una scialuppa. Al centro a sinistra la emozionante foto al periscopio di un piroscafo carico di munizioni che salta in aria. Inbasso a sin. i naufraghi vengono raccolti da un cacciatorpediniere della scorta. Nella foto a destra in alto il rientro del smg. del Com. Hartmann che in una sola crociera affondò 45.000 t. di naviglio inglese. Sotto l'attimo drammatico di un siluramento in superficie.

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    Tre drammatiche visioni della battaglia dell'Atlantico. In alto lo scoppio di un siluro su una nave britannica. Al centro un piroscafo affonda colpito da una bomba d'aereo. In basso eccezionale documento di fonte britannica in una foto presa dalla costa. Il cacciatorpediniere di scorta ad un convoglio sfugge di misura al martellamento di una formazione aerea tedesca. All'impiego dei sommergibili i germanici avevano aggiunto quello degli apparecchi da bombardamento che, su segnalazione degli U-Bootes, raggiungevano e colpivano in prossimità della costa i resti dei convogli attaccati sulle rotte lontane.

    Italiani in atlantico

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    Anche l'Italia partecipò con le sue unità oceaniche alla Battaglia dell'Atlantico. 26 sommergibili superarono infatti, malgrado la sorveglianza britannica, lo stretto di Gibilterra raggiungendo poi senza perdite la base navale di Bordeaux, magnificamente attrezzata dai servizi della nostra marina e di quella germanica. Il forzamento di Gibilterra, effettuato in immersione senza che i britannici potessero efficacemente opporvisi, fu da solo un'impresa memorabile che ottenne anche il riconoscimento dell'avversario. Nella foto in alto un sommergibile entra a Bordeaux dopo il forzamento di Gibilterra. Nelle foto in basso due momenti della navigazione in superfice di nostri sommergibili in missione nell'Atlantico.

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    SPOILER (click to view)
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    I sommergibilisti italiani della base di Bordeaux si fecero subito stimare dai marinai tedeschi per il loro coraggio e per la loro perizia tecnica. infatti, dopo un breve periodo di acclimatamento, essi riportarono importanti successi nella lotta contro il traffico avversario. Nella foto in alto a sinistra il suggestivo rito della messa nella camera dei siluri prima della partenza. Al centro la camera di manovra durante la navigazione. In basso a sinistra un rifornimento ai tubi di lancio di prua. A destra sulla banchina di Bordeaux un siluro va a raggiungere il sommergibile pronto per la missione.

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    Malgrado le notevoli differenze fra la guerra nel Mediterraneo e quella nell'Atlantico, i sommergibili italiani conseguirono molte importanti vittorie fin dalle prime missioni. Alla tastiera il silurista è pronto a premere il corrispondente pulsante per il quale riceverà l'ordine fuori!. Nella foto al centro l'attimo eccezionale in cui il siluro esplode contro il fianco della nave nemica sollevando una fontana d'acqua. In basso una grossa petroliera, cannoneggiata da un nostro sommergibile, inizia il suo ultimo viaggio verso gli abissi dell'oceano.

    La base di Betasom

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    Nel porto di Bordeaux rientra un sommergibile italiano vittorioso. Dalle navi alla fonda e dai sommergibili che attendono il loro turno, gli equipaggi schierati in coperta danno il saluto alla voce ai camerati che tornano dopo una missione che talvolta durava anche quattro mesi.

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    Il Comandante Dominici, col suo sommergibile « Finzi » fu il primo a superare lo stretto di Gibilterra, aprendo così la via alle altre unità italiane.
    A comandante Leoni, col Malaspina fu il primo a far udire 1a voce di un cannone italiano nell'oceano Atlantico affondando una petroliera di 17.000 T.

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    3 settembre 1940. Dopo alcuni mesi di intensa guerra sottomarina la Gran Bretagna comprese che con i mezzi a sua disposizione non avrebbe potuto arrestare il ritmo degli affondamenti. Ai convogli mancava infatti un'adeguata protezione da parte del naviglio sottile che era in gran parte severamente impegnato nel Mediterraneo contro la Marina Italiana. L'Inghilterra decise quindi di intavolare trattative con gli Stati Uniti per ottenere la cessione di cinquanta cacciatorpediniere e di altre unità minori, da impiegare nella protezione del traffico marittimo. Il Presidente Roosvelt, praticamente già schierato al fianco dell'Inghilterra, accolse la richiesta disponendo la cessione delle unità ricevendo come contropartita l'affitto per 99 anni di parecchie basi navali ed aeree britanniche nelle Antille e nell'America Centrale. Nella foto le unità schierate nel Philadelphia Navy Yard.

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    Con le unità cedute dagli Stati Uniti e con quelle costruite a ritmo continuo dai cantieri navali metropolitani la Gran Bretagna potè rafforzare sensibilmente, malgrado le perdite, la consistenza della sua flotta spostando ancor più a suo favore la bilancia delle forze. Ma gli affondamenti ad opera dei sommergibili italiani e tedeschi continuarono ugualmente. Anzi, nell'agosto del 1940 l'Ammiragliato doveva ammettere che le perdite si erano triplicate rispetto ai mesi precedenti. Nella foto un caccia britannico individuata la posizione di un sommergibile lancia una bomba di profondità

    L'Inghilterra si difende

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    17 agosto 1940 - Il governo dei Reich proclama il blocco delle isole britanniche e la guerra sottomarina ad oltranza. La greve misura era stata resa
    necessaria dall'avvenuto armamento dei piroscafi britannici e dall'impossibilità dei sommergibili tedeschi di rispettare senza pericolo le norme internazionali di guerra sul mare. Al nuovo colpo i britannici reagirono con l'abituale flemmatica decisione, intensificando le crociere protettive e munendo i convogli di nuove armi anti-sommergibili. Nella foto Re kiorgio VI di Inghilterra reca a bordo di una nave da guerra il suo saluto agli equipaggi duramente impegnati nelle lunghe navigazioni di scorta ai convogli.

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    Anche i britannici impiegarono con successo la loro notevole flotta sottomarina contro il traffico avversario che era ridotto per quanto riguarda i
    tedeschi, ai collegamenti fra la Germania e la Norvegia e al cabotaggio lungo le coste fiamminghe e francesi. Nella foto a sinistra Il Ten. di Vasc.Bickford che al comando del smg. Salmon affondò un incrociatore tedesco presso Helgoland. Nella foto a destra una flottiglia di sommergibili britannici si rifornisce di nafta presso la nave appoggio a Maidstone.

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    Il Mediterraneo fu per tutto il 1940 il principale teatro della guerra aereo-navale, in quanto gli eserciti belligeranti si fronteggiavano soltanto in Libia e nell'Impero. I britannici appoggiandosi alle loro formidabili basi di Gibilterra, Malta, Alessandria e Cipro, compirono notevoli sforzi per troncare il flusso dei rifornimenti italiani alle truppe operanti in Cirenaica, ma senza riuscirvi, grazie alla vigilanza della Marina e dell'Aviazione che inflissero all'avversario gravi perdite. Gli italiani, per parte loro, sottoposero le basi britanniche ad un intenso martellamento aereo, cercando di neutralizzarle. Particolarmente colpite furono Malta e Alessandria. Nella foto in alto una veduta del munitissimo porto di La Valletta a Malta, contro il quale si accanirono per mesi gli aerei italiani danneggiando gravemente le istallazioni portuali. Nella foto in basso una foto della nostra ricognizione aerea sulla rada di Alessandria, gremita delle navi britanniche operanti in Mediterraneo.

    L'arbitrato di Vienna

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    Il 27 giugno 1940 il commissario agli esteri dell'Unione Sovietica, Molotov, presentava alla Romania una nota con la quale rivendicava nell'interesse di ristabilire la verità e di liquidare le questioni ereditate dal passato i diritti dell'URSS su due regioni romene - la Bessarabia e una parte della Bucovina. Mentre il Consiglio della Corona di Bucarest chiedeva al governo sovietico di voler fissare una data per l'inizio di trattative, i sovietici iniziavano senz'altro l'occupazione dei territori contestati. La Romania, isolata diplomaticamente, malgrado la «garanzia» britannica che le era stata concessa nel '39, non poteva fare altro che ritirare le proprie truppe cedendo al fatto compiuto. Ma la sua tragedia non si era ancora compiuta, nel successivo mese di agosto si facevano avanti, rivendicando l'una la Transilvania e l'altra la Dobrugia, Ungheria e Bulgaria. Si veniva così all'Arbitrato di Vienna, col quale le potenze dell'Asse decidevano di risolvere la vertenza riconsegnando all'Ungheria la Transilvania, mentre la Bulgaria non doveva tardare a riottenere la Dobrugia. In compenso l'Asse garantiva a sua volta il rimanente territorio nazionale romeno, che le varie annessioni avevano però ridotto di un terzo con la sottrazione di tutte le regioni acquisite dalla Romania nella prima guerra mondiale. Nella foto in alto Ribentropp e Ciano firmano l'Arbitrato di Vienna. In basso il reggente amm. Horty, alla testa degli « Honved » entra in una città transilvana.
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    La campagna d'Egitto

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    Dal giugno al settembre del 1940 le operazioni in Africa Settentrionale segnarono una stasi quasi completa. Sia gli italiani che i britannici andarono però rinforzando il loro schieramento per trovarsi nelle migliori condizioni possibili al momento dell'attacco avversario. I britannici non ritenevano possibile un'offensiva italiana nel periodo estivo e consideravano i mesi da novembre al marzo come i più propizi per un eventuale attacco. Lo Stato Maggiore di Roma invece, forse nel timore di essere prevenuto dall'avversario, sollecitò parecchie volte il Maresciallo Graziani affinchè iniziasse al più presto l'investimento del fronte britannico. Il comandante delle nostre truppe in Libia, pur essendo contrario all'operazione offensiva, poichè giudicava le forze a sua disposizione insufficenti ad un attacco a fondo, preparò meticolosamente l'azione intensificando anzi la preparazione non appena il servizio di informazioni diede notizia di importanti concentramenti di truppe britanniche nel Delta del Nilo. L'Impero britannico aveva infatti chiamato a raccolta, nella guerra contro l'Italia, tutte le forze del Commonwealth dal Sud Africa alla Nuova Zelanda all'Australia. Particolarmente notevole fu il contributo, in uomini e mezzi, del contigente australiano, che inviò in Africa Settentrionale un corpo di spedizione aggueratissimo, il famoso ANZAC. Nella foto a sinistra Il Generale Australiano Staff, comandante dell'ANZAC, sale a bordo di un trasporto di truppe nel porto di Suez. A destra Antony Eden - Ministro degli Esteri britannico - giunto in volo a Suez dà il benvenuto dell'Inghilterra ai soldati australiani. In basso i neo-zelandesi sbarcano in Egitto.

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    I britannici schierarono fra Sollum e Bardia un'intera divisione corazzata, cioè la prima unità organica di carri armati che operò in Africa Settentrionale. Altre truppe corazzate andavano intanto concentrandosi fra Alessandria e il Cairo, nonchè nella Zona del Canale, che si trasformò in un formidabile arsenale. L'intero peso della potenza mondiale britannica si spostava sul fronte tenuto dagli italiani. Nella foto unità corazzate britanniche al Cairo.

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    Nei primi giorni di settembre l'attività delle pattuglie al confine egiziano si fece più intensa, preludio alla grande battaglia che di lì a poco sarebbe divampata su tutto l'arco del fronte. Nella foto una delle famose camionette con le quali i britannici compivano soprattutto di notte, fastidiose incursioni nelle nostre retrovie. Le camionette, ottimamente equipaggiate per lunghi raids nel deserto, erano spesso armate con mitragliere e cannoncini. Agivano talvolta isolate ma più spesso in gruppi di cinque o sei, piombando improvvisamente sui nostri capisaldi.

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    Gli effetti de intenso tiro di preparazione su Sollum gli
    impianti della teleferica semidistrutti dalla nostra artiglieria.

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    Durante l'avanzata delle truppe l'aviazione italiana martellò pesantemente i presidi inglesi. Nella foto la visione del massiccio bombardamento di Sollum.

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    Il problema delle comunicazioni, in zone ove non esistevano,
    salvo la Balbia, strade degne di questo nome, fu risolto dal comando italiano con l'impiego di battaglioni dl lavoratori che seguirono passo passo l'avanzata delle truppe.

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    Reparti motorizzati di bersaglieri in avanscoperta sul fronte marmarico. Gran parte del merito del fulmineo successo fu dovuto alla mobilità delle nostre truppe che, con mezzi di gran lunga inferiori a quelli del nemico, seppero sfruttare il successo iniziale senza dar tregua agli inglesi che si sottrassero alla distruzione o alla cattura solo con la fuga.

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    Nell'attacco si distinsero per coraggio e abnegazione le colonne libiche operanti nell'impervia pietraia dell'interno. La manovra avvolgente, che mise in crisi lo schieramento britannico, fu infatti realizzata malgrado l'imprevisto attacco dei carri armati britannici e l'intenso spezzonamento dell'aviazione nemica dalle truppe libiche.

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    Una colonna di fanteria in marcia dopo Sollum. Oltre che contro il nemico le nostre truppe dovettero combattere contro un clima micidiale. Nei giorni dell'avanzata le tempelature toccarono punte di 45-50 gradi. Per la difficoltà dei rifornimenti, alcuni reparti dovettero razionare per più di una settimana l'acqua - un litro a testa al giorno.

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    I nostri carri armati avanzarono tra l'imperversare del ghibli che provocò notevoli inconvenienti alle colonne motorizzate. Molti automezzi, procedendo nel deserto, rimasero insabbiati fino al mozzo. Spesso per avanzare per un chilometro furono impiegate ore.

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    n un campo di fortuna in prossimità della prima linea, i nostri piloti tengono rapporto prima di partire per una missione di bombardamento contro le truppe britanniche in ritirata. Durante tutta l'offensiva, 1'attività delle due aviazioni fu molto intensa ed efficace, L'arma aerea inflisse alla truppe di terra, nell'imo e nell'altro campo, sensibili perdite.

    13 settembre 1940 il Maresciallo Graziani, completati i preparativi, da il segnale dell'attacco. Il piano operativo prevedeva lo spostamento della direttrice principale dell'attacco stesso verso l'interno, in modo da creare i presupposti per un'azione avvolgente delle forze avversarie nella seconda fase, con una rapida puntata su Sidi el Barrani. Era stata preferita questa impostazione tattica in quanto il Comando temeva che operando lungo la strada costiera le nostre truppe potessero essere investite anche dal mare, venendosi così a trovare fra due fuochi. Ma le truppe impiegate nell'azione di accerchiamento vennero ben presto impegnate da un'importante formazione corazzata britannica, mentre altri contingenti motorizzati avversari erano segnalati in rapido concentramento. Tale fatto, nonchè le sensibili perdite subite dalle truppe libiche che costituivano il nerbo della colonna, decisero Graziani ad un'immediato cambiamento del disegno tattico. Tutte le forze disponibili furono infatti concentrate verso il mare da dove, seguendo la strada costiera, piombarono di sorpresa su Sollum e sull'Halfaya. Il primo successo era così ottenuto. Si trattava ora di sfruttarlo a fondo, tagliando fuori i britannici dalle loro basi e costringendoli a ritirarsi, per le malegevoli piste dell'interno, verso la lontana Marsa Matruk. Infatti lo sforzo offensivo italiano continuò, così sulla direttrice costiera come su quella interna, puntando decisamente verso Sidi el Barrani. La sera del 13, dopo dodici ore di offensiva, le nostre truppe erano già a 25 chilometri a sud-est di Sollum. I1 giorno successivo raggiungevano Bug Bug, dove un imponente concentramento di artiglieria cercò invano di fermarle. Il 18 nelle prime ore del pomeriggio, gli italiani entravano a Sidi el Barrani, precipitosamente sgomberata dal presidio inglese che trovò scampo solo nella fuga.

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    Così appariva ai nostri aerei da ricognizione la base britannica di Sidi el Barravi, uno dei più muniti capisaldi alle porte dell'Egitto. Ancora poche ore e travolto ogni tentativo di resistenza nemica la sua occupazione sarà un fatto compiuto.

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    Le colonne motorizzate che procedevano rapidamente sulla strada costiera furono impegnate negli ultimi furibondi combattimenti dalle retroguardie nemiche. Nella foto una colonna italiana avanza, protetta dalla instancabile abnegazione dell'aviazione.

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    L'ultimo tentativo di resistenza ad oltranza dei britannici si ebbe ad una ventina di chilometri da Sidi el Barrani ma si risolse in un grave scacco per le truppe inglesi, le quali lasciarono sul terreno numerosi mezzi corazzati e meccanizzati distrutti dall'artiglieria e dall'aviazione.

    Gli inglesi in fuga

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    16 settembre 1940. Sidi el Barrani è raggiunta. L'offensiva italiana si conclude così con un pieno successo, malgrado la limitatezza dei mezzi, l'asperità del terreno e l'imponenza della preparazione nemica. Ma nuovi problemi si affacciano per le nostre truppe, attestate ora in pieno deserto, lontane più di cento chilometri dalle loro più vicine basi cirenaiche. Era stata appunto la ferrea legge delle necessità logistiche a fermare lo slancio dell'offensiva italiana.

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    Un giorno il bollettino di guerra aveva detto: in Africa Settentrionale i carri armati britannici sono stati inchiodati sulla linea di confine. Questa eccezionale fotografia testimonia della verità di quell'affermazione. Quel giorno gli anticarro italiani avevano fatto mirabilia!

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    Nell'agosto del 1940 quando Goering lanciò contro la Gran Bretagna le massicce formazioni della Luftwaffe la situazione a Londra appariva drammatica. Ormai priva di alleati con l'esercito distrutto a Dunkerque e non ancora riorganizzato circondata dalla Norvegia a Bordeaux da basi nemiche, la Gran Bretagna era una fortezza assediata. E intanto sul continente si ammassavano a Calais le truppe germaniche d'invasione. Ma Londra aveva ancora due carte in mano e seppe giocarle con molta decisione - la marina e l'aviazione. Nella cartina le basi di partenza degli attacchi aerei tedeschi alla Gran Bretagna.

    LA BATTAGLIA D'INGHILTERRA

    Dopo la vittoriosa battaglia di Francia, lo Stato Maggiore tedesco, ormai padrone di tutta la costa atlantica dalla Norvegia a Bordeaux, cominciò a pensare all'invasione della Gran Bretagna. Solo col diretto investimento della maggiore avversaria, Hitler avrebbe potuto infatti vincere la gigantesca partita impegnata nel settembre 1939. Le sue reiterate offerte di pace erano state sdegnosamente respinte dal nuovo premier britannico. Churchill, e una soluzione di compromesso del conflitto appariva quindi impossibile. D'altra parte, malgrado la crisi militare della Gran Bretagna, che non era ancora riuscita a riorganizzare l'esercito dopo la rotta di Dunkerque, l'impresa non era delle più facili. L'Inghilterra conservava intatta la sua potenza navale. La Home Fleet faceva buona guardia contro ogni tentativo della modesta flotta tedesca, già sensibilmente falcidiata nell'impresa norvegese. E, in appoggio alla marina, vigilava l'aviazione che gli inglesi non avevano impegnato a fondo sui cieli di Franca, malgrado i drammatici appelli dell'alleato. Perchè le divisioni ammassate intorno a Calais avessero buone probabilità di riuscita nel caso di un attacco alle isole britanniche, occorreva quindi che l'intera organizzazione militare, economica e civile dell'Inghilterra fosse sconvolta dalle fondamenta. Occorreva che le navi della Home Fleet dovessero abbandonare i porti della Manica, restando lontane dal principale teatro delle operazioni. Occorreva che le comunicazioni, nell'interno dell'Isola fossero disorganizzate o almeno rese difficili. Occorreva che le fabbriche non potessero fornire alle truppe le armi, le munizioni, gli equipaggamenti necessari. Occorreva, sopratutto, che l'aviazione britannica fosse annientata, in modo che la supremazia aerea tedesca bilanciasse e annullasse la supremazia navale dell'avversaria. Per ottenere questi molteplici risultati, Hitler non aveva che un'arma: la Luftwaffe. L'aviazione tedesca, così nella caccia come nel bombardamento, aveva clamorosamente dimostrato la sua superiorità durante le campagne di Norvegia e di Francia. Equipaggi perfettamente addestrati e animati da un elevato spirito aggressivo, 170 macchine modernissime e potenti aerodromi dislocati strategicamente su tutta la costa atlantica, dalla Norvegia a Bordeaux, una complessiva prevalenza numerica: questi gli elementi sui quali confidava Goering. Fu dunque con orgogliosa sicurezza nella vittoria finale che l'otto agosto del 1940 dal Quartier Generale del Fuehrer, venne l'ordine di iniziare l'attacco a fondo contro la grande isola assediata. La Luftwaffe, bisogna dirlo, non fu inferiore alla fama conquistata in nove mesi di guerra e in tre vittoriose campagne. Sulla Gran Bretagna, infatti, si scatenò, in perfetta sincronia, un uragano di ferro e di fuoco. Per dieci giorni gli aerodromi costied e i maggiori porti britannici, nonchè la capitale, vennero pressocchè ininterrottamente attaccati da massicce formazioni di bombardieri. I risultati distruttivi dell'operazione furono imponenti. La Luftwaffe attaccava in pieno giorno, quasi a dimostrare la propria incrollabile sicurezza e quindi colpiva con precisione ed efficacia. Ma, contro le speranze di Goering, la RAF britannica rivelò un insospettato mordente. 70 apparecchi tedeschi abbattuti, contro pochi cacciatori avversari, erano il bilancio delle perdite del primo giorno e la cifra si mantenne costante nei giorni successivi. La pericolosa presenza della caccia inglese indusse quindi Goering a modificare i suoi piani. L'obiettivo dei bombardamenti fu infatti, dalla metà di agosto alla prima quindicina di settembre, l'organizzazione degli aerodromi inglesi. Lo scopo era evidente: distruggere al suolo il maggior numero possibile di apparecchi perchè solo paralizzando l'aviazione britannica, l'invasione sarebbe stata possibile. I risultati, però, furono modesti, malgrado la massa di aerei impiegata. La perdite tedesche, anzi, superarono quelle britanniche: circa cinquecento apparecchi in una settimana. Il costo dell'operazione era quindi eccessivamente elevato e l'offensiva aerea minacciava di trasformarsi in un bruciante scacco. Ma Berlino, con teutonica ostinazione, continuò negli attacchi, pur modificando un'altra volta l'impostazione strategica del suo sforzo aereo. E mentre sulla costa francese della Manica alle 35 divisioni di fanteria e di panzer s'andavano affiancando sette divisioni particolarmente addestrate agli sbarchi aerei, cominciarono i raids indiscriminati, di giorno e di notte, sulle maggiori città inglesi. Fu questo, per la Gran Bretagna, il momento peggiore di tutta la guerra. La vita, nelle città, era divenuta un'inferno. Le incursioni si succedevano alle incursioni, gli allarmi agli allarmi e ad ogni bombardamento, crescevano le vittime, aumentavano le distruzioni, s'accumulavano le rovine. Londra, in particolare, subì in questo periodo i danni più gravi in vite umane e in distruzioni materiali. Alla data del 15 settembre intere zone della città erano state rase al suolo e le vittime ammontavano a 14 mila morti e a 20 mila feriti. Il collasso, prima psicologico e poi economico dell'Inghilterra era vicino, secondo il comando germanico. Nessun popolo, si pensava a Berlino, avrebbe potuto resistere ad un simile uragano distruttivo. Ma i calcoli erano sbagliati. E mentre gli inglesi traevano dalla loro flemma tradizionale la forza per resistere, la. RAF impegnava sempre più severamente, sempre più rovinosamente le ondate d'attacco della Luftwaffe. In un solo giorno, il 15 settembre, su 500 apparecchi impegnati, i tedeschi ne persero 185. Alla fine dello stesso mese, cioè ad un mese e mezzo dall'inizio dell'offensiva aerea la Lutwaffe aveva perduto, secondo gli inglesi non meno di duemila apparecchi. Le perdite britanniche, di contro, non superavano i 700 aerei, sopratutto da caccia. Malgrado le enormi distruzioni, particolarmente gravi a Londra, a Portsmouth e a Coventry (da qui il verbo conventrizzare e proposto da Goebbels per indicare la distruzione di una città), la battaglia d'Inghilterra s'avviava ad un'infelice conclusione per i tedeschi. E se nei mesi successivi, da ottobre a dicembre, gli attacchi, sia pure su scala un po' ridotta, continuavano (la City di Londra subì i maggiori danni 1'8 e il 29 dicembre) la stagione ormai inoltrata e la potenza sempre più evidente dell'aviazione inglese avevano reso ormai irrealizzabile il progetto d'invasione. Per Hitler la grande occasione era passata invano e non si sarebbe mai più ripresentata.

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    8 agosto 1940 - Dopo un gran rapporto al quartiere generale di Hitler, lo stato maggiore tedesco decide di iniziare contro l'Inghilterra una grande offensiva aerea. Si trattava di un'operazione gigantesca nella quale la Luftwaffe avrebbe gettato tutto il peso della sua organizzazione per preparare la strada alle armate di invasione ormai pronte sulle coste della. Francia, del Belgio e dell'Olanda. Meta dell'offensiva era il collasso politico, militare e industriale dell'avversaria. Nella foto in alto i bombardieri tedeschi passano la Manica in pieno giorno per attaccare i loro obiettivi sulla costa meridionale dell'Inghilterra. Nella foto in basso Goering, attorniato dagli ufficiali del suo stato maggiore, assiste su un campo d'aviazione francese al ritorno di uno stormo della Luftwaffe da una delle massiccea incursioni sulla Gran Bretagna, che ormai avvenivano quotidianamente.

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    Londra, chiave di volta della potenza bellica britannica, fu presa di mira dall'aviazione tedesca fin dal primo giorno della Battaglia d'Inghilterra. Le istallazioni portuali sul Tamigi, le fabbriche della periferia e lo stesso centro commerciale della City furono duramente bombardati e subirono ingentissimi danni. Lo sbarramento protettivo di palloni frenati e d'artiglieria contraerea si dimostrarono inadeguati a proteggere la Capitale, mentre i cacciatori della RAF, pur infliggendo forti perdite agli attaccanti, non riuscirono ad impedirne il martellamento implacabile, In alto a sinistra Una drammatica fotografia, presa a bassa quota da un bombardiere tedesco su Londra. Mentre da terra si leva il fumo degli incendi, in cielo brucia un pallone di sbarramento, colpito dalle mitragliere di bordo. In alto a destra schieramento di palloni frenati a Londra. In basso a sinistra l'apocalittica scena dell'incendio dei docks di Londra dopo un bombardamento tedesco. In basso a destra una foto dell'osservazione aerea tedesca il centro industriale di Tilbury sul Tamigi sotto il tiro degli Ju 88.

    Londra sotto le bombe

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    L'offensiva aerea su Londra continuò a ondate successive, di giorno e di notte, per tutto il mese di agosto e per tutto il mese di settembre, vanamente contrastata dagli Hurricane e dagli Spitfaire britannici. I risultati distruttivi dei bombardamenti sono documentati dalle foto. In alto i grandi silos del Tamigi bruciano dopo un'incursione. In basso a sinistra i grandi serbatoi di benzina di Purfleet incendiati dalle bombe tedesche. In basso a destra vigili del fuoco in azione in una strada della City per domare il fuoco scatenato dalle bombe incendiarie tedesche.

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    Ancora una foto dell'osservazione aerea tedesca Portsmouth sotto le bombe. La base navale britannica dovette subire, durante l'offensiva della Lutwaffe, ben 56 bombardamenti che distrussero oltre il 70% della città arrecando gravi dati alle installazioni portuali.

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    Anche il porto commerciale di Southampton, sulla costa meridionale inglese, subì notevoli danni ad opera dell'aviazione tedesca. Nella foto una veduta delle istallazioni portuali duramente colpite durante un'incursione.

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    A sollevare il morale delle popolazioni colpite, Re Giorgio VI effettuò frequenti visite ed ispezioni alle città bombardate. Eccolo a Southampton, accompagnato dal sindaco della città, mentre i soldati rimuovono le macerie in una delle vie più centrali.

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    Una foto curiosa fra tante visioni tragiche - la spada di
    Riccardo Cuor di Leone a Londra piegata da una scheggia.
    L'eroe medioevale non s'immaginava certamente di dover
    subire questo postumo affronto alla sua famosa lama.

    Pioggia di fuoco

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    I porti della Manica e del Mare del Nord furono gli obiettivi preferiti dell'aviazione tedesca, soprattutto nella prima fase della battaglia d'Inghilterra. L'insistenza con la quale le incursioni colpirono Plymouth, Portlamd, Brighton e Dover tradiva il piano germanico, disorganizzare la difesa britannica sulla costa meridionale per rendere possibile l'invasione. Nella foto in alto a sinistra uno Stukas in picchiata su alcuni complessi industriali presso Londra. Nella foto in alto a destra Plymouth nuovamente colpita dalla Luftwaffe. In basso a sinistra bombe tedesche su Portland. In basso a destra le istallazioni portuali e industriali di Hull, sulla costa orientale dell'Inghilterra, bruciano dopo una massiccia incursione diurna.

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    Durante il solo mese di agosto le innumerevoli incursioni tedesche su Londra provocano mille morti e non meno di duemila feriti. La cifra è modesta, se rapportata a quelle delle perdite umane degli anni successivi, in Germania e in Italia. Va però ricordato che Londra disponeva, grazie alle gallerie della ferrovia metropolitana, di un ottimo sistema di rifugi e che in un primo tempo gli obiettivi preferiti dagli aviatori germanici furono le istallazioni portuali del Tamigi. In alto i docks di Londra sconvolti dalle esplosioni, in una drammatica fotografia di fonte britannica. Sotto a sinistra Re Giorgio e la Regina visitano i quartieri bombardati alla periferia della capitale. In basso a destra: la cattedrale di San Paolo in un'apocalittica inquadratura.

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    La battaglia D'Inghilterra è cominciata, diceva un appello del governo britannico agli aviatori inglesi, soldati della Raf, ricordate che nelle vostre mani è riposto il destino delle generazioni future. Effettivamente si trattava, per il Regno Unito, di una partita per la vita o per la morte e la RAF lo comprese, gettandosi nella lotta con spirito elevatissimo, incurante della superiorità avversaria. Nella foto in alto a sin. una seduta al ministero dell'aria britannico. Da sinistra il Maresciallo dell'Aria Sir Courtney, il Maresciallo dell'Aria Gossage, il Sottosegretario di Stato Balsour. il Segretario di Stato Sir Sinclair, il Maresciallo in Capo dell'Aria Sir Newall, il Sottosegretario di Stato Sir Street, il Maresciallo in Capo dell'Aria Sir Freeman. Sono all'ordine del giorno le cantromisure da prendere per contenere l'offensiva aerea tedesca scatenate in vista dell'invasione dell'Isola.

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    Apparecchi Blackburn Rocs britannici in volo sulla costa della Manica. Gli inglesi cercarono di intercettare i bombardieri tedeschi prima che raggiungessero i loro obiettivi. Ma il compito non era facile, perchè, le formazioni germaniche che erano scortate dalla caccia. Grandi battaglie aeree si accesero così, fra le opposte schiere di cacciatori.

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    Armieri britannici riforniscono di munizioni un apparecchio da caccia. Gli aviatori della RAF, durante la battaglia d'Inghilterra, furono impegnati al limite massimo di resistenza degli uomini e delle macchine. Sovente gli apparecchi si levarono in volo fino a cinque o sei volte consecutivamente nella stessa giornata per contenere i decisi attacchi germanici.

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    Una formazione di Hurricane britannici si è levata in volo su allarme da una base dell'Inghilterra meridionale. Le perdite tedesche ad opera, della caccia furono elevatissime. Fonti inglesi le fecero ascendere nel periodo dall'8 agosto alla fine di settembre, a 2225 apparecchi.

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    Anche le unità inglesi che pattugliavano la Manica inflissero qualche perdita alla Luftwaffe, i cui velivoli attaccavano il traffico di cabotaggio inglese. Nella foto una mitragliera antiaerea a quattro canne di una unità inglese.

    La reazione inglese

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    Queste tre fotografie ebbero ampia diffusione sulla stampa britannica dell'epoca. La propaganda inglese, allo scopo di rianimare le popolazioni civili duramente colpite dai bombardementi tedeschi, dava abbondanti particolari sulle perdite avversarie. Nella foto in alto la carcassa di un Messerschmitt abbattuto viene fatta passare per il centro di Londra davanti a Wenstminster. Al centro i piloti di un aereo tedesco catturati da una pattuglia britannica. Sullo sfondo l'apparecchio in fiamme. Sotto Cimitero di Messerschmitt alla periferia di Londra.

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    Oltre che a Londra, anche a Dover e su tutti i porti della
    Manica gli Inglesi avevano organizzato schieramenti protettivi di palloni frenati. I palloni dovevano costringere le formazioni avversarie a scompaginarsi, in modo da facilitare il compito alla caccia, nonché ad elevare la quota, in modo da rendere impreciso il tiro. I tedeschi si dedicarono però, come ad uno sport facile e divertente, ad abbattere gli illusori sbarramenti. Nella foto due palloni precipitano in fiamme sulla costa inglese.

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    Churchill, da pochi mesi capo del governo britannico, fu
    l'animatore della resistenza agli attacchi della Luftwaffe non disdegnando di assistere di persona dagli osservatori della contraerea alle battaglie nel cielo di Londra.

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    I tedeschi, con unità sottili e siluranti, esplicarono nella
    estate del 1940, anche una sporadica attività navale nella
    Manica. Si trattava forse di cauti sondaggi del dispositivo
    britannico di difesa, in vista dell'Invasione. Contro i tedeschi si scatenò prontamente la reazione aero-navale inglese. Nella foto un aereo della RAF incendia un battello germanico al largo della costa francese.

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    I cacciatori della RAF divennero ben presto i beniamini del popolo britannico, che sapeva di avere in loro i suoi estremi difensori dal pericolo nazista sempre più minaccioso. Le perdite della caccia Inglese furono tuttavia modeste, soprattutto in uomini, poiché molti piloti abbattuti poterono salvarsi col paracadute e tornare a combattere. Nella foto il Re e la Regina visitano un pilota della RAF ferito in uno scontro aereo.

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    Anche alcune squadriglie di aviatori polacchi parteciparono coraggiosamente alla Battaglia d'Inghilterra. Si trattava di un piccolo nucleo di uomini sfuggito a due successivi disastri - quello della loro patria e quello della Francia.

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    Avieri della RAF recuperano un caccia tedesco costretto ad un atterraggio di fortuna nei pressi di Cardiff.

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    Lo spirito sportivo col quale la RAF affrontò la lotta mortale è documentato in questa foto. Hitler, sembra dire il simbolo disegnato sulla carlinga, io me lo fumo nella pipa.
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    L'Inghilterra sotto il cannone

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    Nell'estate del 1940 agli attacchi aerei si aggiunse, contro le coste britanniche, anche la voce del cannone. Come già nel 1917 (con il Gross Bertha che bombardò Parigi) i tedeschi schierarono la loro artiglieria di lunga gettata, uscita dalle officine Krupp. Montati su affusti ferroviari e sistemati in modo da poter facilmente sfuggire alla reazione aerea nemica, i grossi calibri germanici martellarono continuamente, da Calais, l'opposta sponda. La navigazione nella Manica fu così resa impossibile. Nella foto in alto Dover fotografata col teleobiettivo. In basso un grosso calibro tedesco bombarda le installazioni sulla costa inglese.

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    Due eccezionali fotografie delle « Bianche scogliere di Dover » sotto il tiro micidiale dell'artiglieria tedesca. In alto è visibile l'incendio delle istallazioni militari nei pressi della città. Da notare i pallori di sbarramento scaglionati in profondità. In basso scoppi ed incendi sulla costa inglese.

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    Malgrado gli incessanti attacchi dell'aviazione tedesca, il morale della popolazione britannica non subì quel collasso in cui aveva sperato il comando di Hitler. La vita, nel limite del possibile, mantenne il suo ritmo normale, mentre i bambini delle città più colpite e in genere tutte le persone non indispensabili all'industria e alla difesa, venivano sfollate nelle località di campagna. Per la protezione antiaerea e per le opere di assistenza vennero mobilitate tutte le categorie del paese. Nella foto in alto una suora cattolica offre una tazza di thè ad un ausiliario della difesa civile. In basso una scena del teatro londinese « Wenevgr closed » (letteralmente «Noi non chiudiamo mai) che non interruppe le rappresentazioni nemmeno sotto i più duri bombardamenti.

    Psicosi dell'invasione

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    1° luglio 1940. I tedeschi, con un'audace azione dei mezzi da sbarco, avevano occupato, quasi senza trovare resistenza, le isole Normanne, di fronte alla costa francese. Le isolette, appartenenti alla Gran Bretagna, erano il primo lembo di terra inglese conquistato dai nazisti. L'impresa e l'ammassarsi di numerose truppe tedesche al Passo di Calais, fecero temere ai britannici un'imminente invasione. Il governo di Londra corse immediatamente al ripari, cercando di riorganizzare i reparti salvati dalla rotta di Dunkerque e mobilitando nuove classi. Nella foto in alto una vedetta tedesca sull'Isola di Guernesey, di fronte al castello di Saint Peters. Nella foto in basso carri armati sfilano per le vie di Londra per raggiungere la costa meridionale minacciata dai tedeschi.

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    14 maggio 1940. Eden annuncia all'Inghilterra che per fronteggiare la pericolosa situazione determinata dall'invasione della Francia, sarebbe stata organizzata una milizia di difesa territoriale, denominata « Home Guard », incaricata di sostenere, in caso di attacco nemico, lo sforzo dell'esercito regolare. La misura di emergenza era determinata soprattutto dal timore, diffusissimo in Inghilterra, per la cosi detta « quinta colonna » germanica, che aveva efficacemente operato in Olanda e nel Belgio. La Home Guard doveva anche intervenire contro eventuali sbarchi di Paracadutisti. Il comando britannico sapeva infatti che alcune divisioni di paracadutisti erano pronte, in Olanda e nel Belgio, ad un'operazione in grande stile contro l'Isola. Nella Home Guard militarono un milione e 300 mila uomini. In alto a sinistra la cartina di fonte britannica indica le zone apprestate a difesa dal comando inglese. Sono visibili anche i limiti dei campi minati predisposti a protezione del traffico navale. In alto a destra il gen. Brooke, comandante di tutte le truppe in Inghilterra. In basso a sinistra un'esercitazione degli uomini della Home Guard. A destra il generale Pownall, cui era stato affidato il comando della Home Guard.

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    La consorte del ministro Eden (si tratta della prima moglie, dalla quale l'attuale premier britannico ha divorziato per sposare una nipote di Churchill) ad una manifestazione di solidarietà per i militari inglesi.

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    3 agosto 1940. Il governo polacco in esilio firma il patto anglo-polacco per il proseguimento comune della guerra. Sono visibili nella foto Lord Halifax, Raczynsky, Sikorski, Churchill, Zaleski. Attlee e Grenwood durante una seduta.

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    Un altro governante in esilio, Benes, passa in rassegna un reparto di avieri cecoslovacchi in Inghilterra. Anche i cechi diedero infatti un contributo, sia pure modesto, allo sforzo bellico britannico, combattendo nei cieli inglesi.

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    La singolare protesta dei socialisti inglesi contro l'imboscamento dei ricchi «Prima i banchieri alle armi» dice il cartello portato in giro per Londra.

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    Sul suolo inglese s'andava organizzando il nucleo di un nuovo esercito francese. Dopo un esordio faticoso e contrastato, reso particolarmente difficile dal proditorio attacco britannico alla flotta francese di Orano, De Gaulle aveva guadagnato alla sua causa molte simpatie. Nella foto il capo della « France Libre » ispeziona un reparto di stanza a Londra.

    Rappresaglie sulla Germania

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    Con le incursioni della RAF cominciò la polemica (che si
    sarebbe conclusa nell'aula di Norimberga) sulle responsabilità degli attacchi alla popolazione civile. Radio Londra dichiarava trattarsi di rappresaglie, peraltro limitate agli obiettivi militari. Goebbels invece tuonava contro il «terrorismo notturno » degli inglesi. Ecco il ministro della propaganda tedesco Goebbels in visita ad un palazzo bombardato a Monaco, colpito dall'incursione del 1" settembre 1940.

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    Gli attacchi della RAF sulla Germania vennero effettuati quasi esclusivamente di notte. La RAF, infatti, in considerazione del lungo percorso da compiere su territorio nemico, nonchè delle esperienze fatte sui cieli inglesi, voleva contenere le perdite. Consigliavano questa tattica la forza pressochè intatta della caccia tedesca e la potente organizzazione della contraerea tedesca, la famosa « Flak » che spesso aveva dato man forte, durante la battaglia di Francia, ai combattenti di terra. Nella foto una fantasmagorica visione del tiro contraereo nel cielo di Berlino durante un'incursione inglese.

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    Questi abitati alla periferia di Berlino non erano un obiettivo militare, come non erano obiettivi militari i palazzi storici della City di Londra. La guerra comincia ad apparire in tutto il suo tragico orrore.

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    La rappresaglia britannica fu particolarmente dura su Berlino, che venne colpita da reiterati bombardamenti. All'alba del 26 e del 30 agosto nella capitale tedesca furono scattate queste fotografie che testimoniano della vastità dell'operazione. In alto a sinistra le barelle dei feriti civili si allineano nei posti di prknto soccorso. In alto a destra militari tedeschi sgomberano le macerie nel cortile di un palazzo della capitale. In basso a sinistra dinnanzi alla Porta del Brandemburgo, che nel '45 sarà teatro degli ultimi furibondi combattimenti fra sovietici e tedeschi, il cratere di una bomba inglese. In basso a destra un apparecchio britannico abbattuto nel cielo di Berlino dalla caccia notturna tedesca di intercettazione.

    La vittoria inglese sull'invasione

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    Fra l'ottobre e il novembre del 1940 la grande battaglia aerea d'Inghilterra poteva considerarsi conclusa. I bombardamenti tedeschi continuavano, riempiendo di macerie e di morti le città dell'Isola, ma senza poter raggiungere gli ambiziosi obiettivi di Goering la distruzione della potenza britannica e il collasso della grande avversaria. Di contro, in quattromesi di offensiva, l'aviazione da bombardamento germanica aveva subito tali perdite che lo stato maggiore di Hitler dovette accantonare il piano d'invasione: non s'era cioè raggiunta, malgrado il prolungato sforzo, quella supremazia aerea che doveva essere il presupposto indispensabile all'investimento delle coste britanniche. La RAF, quindi, aveva dato una precisa risposta all'interrogativo avanzato fin dal 1908 da un opuscolo di «fantascienza» ante litteram. «Può una flotta aerea - si chiedeva l'anonimo precursore dell'inizio del secolo - distruggere la potenza britannica? » La risposta era stata negativa, grazie all'eroismo della RAF. Non fu quindi esagerata la gratitudine del popolo inglese per i suoi aviatori, così espressa da Churchil ai Comuni: «Mai nella storia dell'umanità e delle guerre, tutto un popolo ha contratto un così grande debito verso un così piccolo numero di uomini». Storicamente quindi l'unica invasione subita dai Britannici rimane quella delle Legioni Romane al comando di Cesare nel 54 av. Cristo.

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    L'Inghilterra in angustie

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    Mentre in occidente si svolgeva la grande battaglia aerea d'Inghilterra, nel medio ed estremo oriente l'Impero doveva far fronte a pericolose agitazioni delle popolazioni di colore, sempre più insofferenti del giogo coloniale. Manifestazioni di protesta, ribellioni e torbidi si registrarono un po' dappertutto, ma soprattto in Palestina, in India e a Hong Kong. In alto manifestazìoni Palestinesi per l'indipendenza. In basso nazionalismo cinese a Hong Kong.

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    3 settembre 1940. L'occupazione sovietica della Bessarabia e della Bucovina, in Romania, nonchè dell'arbitrato di Vienaia che diede all'Ungheria la Transilvania. Questi avvenimenti, nonché la situazione interna romena, sempre più confusa e torbida, portarono anche ad una crisi dinastica e di governo. Il Re Carol, sentendosi minacciato per l'atteggiamento filo-britannico che da tempo aveva assunto, abdicava per la seconda volta in favore del figlio Michele (la prima volta aveva abdicato in conseguenza di un intrigo amoroso nel 1925). Il governo veniva affidato al Generale Antonescu, noto per le sue simpatie per il Fascismo, il quale avrebbe ben presto assunto il titolo di Conducator. Nella foto il generale Antonescu e Horia Sima, capo delle « Guardie di Ferro » (organizzazione fascista fondata da Codreanu) salutano romanamente durante una sfilata a Bucarest.

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    Approfittando dell'isolamento militare della Gran. Bretagna, la diplomazia italo-tedesca, nell'estate-autunno del 1940, intraprese varie iniziative tendenti a consolidare la preminenza dell'Asse nella vita europea. Nei colloqui Ribbentrop-Mussolini-Ciano a Roma fu imposta la politica balcanica dei due alleati, mentre il viaggio di Serrano Suner in Italia sembrò precedere un intervento spagnolo. Ma il siluramento del ministro degli esteri iberico da parte di Franco doveva togliere all'Asse ogni illusione in proposito. Il dittatore spagnolo rimaneva fuori del conflitto, pur continuando a rivendicare Gibilterra. Questo fu, indirettamente, un successo diplomatico britannico, le conseguenze dell'intervento spagnolo sarebbero state infatti assai gravi, poichè avrebbero messo in crisi l'intero schieramento inglese nel Mediterraneo, segnando la sorte di Gibilterra.

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    27 settembre 1940. A Berlino, Italia, Germania e Giappone, firmavano il Patto Tripartito, cioè il cosi detto Patto d'acciaio. Si trattava di un'importante documento politico, con il quale i tre contraenti circoscrivevano le rispettive zone d'interesse e si dichiaravano già da tempo associati in un programma di tutela dell'ordine e dell'autorità statali contro ogni potere dissolvitore. Il trattato, per una clausola che dichiarava non modificato lo status politico esistente fra la Unione sovietica e ciascuna delle tre parti contraenti, aveva soprattutto un carattere anti-americano, poichè impegnava gli alleati all'intervento contro una potenza che non fosse attualmente impegnata nella guerra europea e che attaccasse uno degli alleati. Nella foto la firma del patto a Berlino. Da destra a sinistra Kurusu, ambasciatore nipponico in Germania, il Conte Ciano, Hitler. Nella foto in basso incontro al Brennero fra Mussolini, Hitler e Ciano.

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    15 ottobre 1940 - L'offensiva contro la Grecia, che era rimasta neutrale ma che dava con le sue basi mediterranee e con l'apporto della sua marina mercantile, un notevole aiuto politico, militare ed economico alla Gran Bretagna, venne deciso nel corso di una riunione a Palazzo Venezia. Erano presenti Ciano, Ministro degli Esteri, Jacomoni, Luogotenente per l'Albania, il maresciallo Badoglio, Capo di Stato Maggior Generale, il gen. Soddu, Sottocapo di S.M. e sottosegretario alla guerra, il gen. Roatta f.f. di Capo di Stato Maggiore dell'esercito e il gen. Visconti Prasca, comandante delle truppe in Albania. Nessuno nel corso della discussione si oppose all'iniziativa, che del resto era maturata da parecchi mesi. Nessuno obiettò che la preparazione era stata troppo scarsa ed affrettata. Anzi Visconti Prasca dichiarò che vi era, a nostro favore, una prevalenza numerica di due a uno.

    L'ATTACCO ALLA GRECIA

    E' ancora vivissima, fra i protagonisti politici e militari della guerra e fra gli storici stessi, la polemica sull'attacco alla Grecia, deciso da Mussolini nell'ottobre del 1940. Si tratta quindi di un argomento assai difficile da affrontare: materia da « memoriali » più che di storia. Il primo elemento controverso è quello che riguarda la necessità e l'opportunità dell'impresa. E' vero, cioè, come dichiarava la propaganda fascista, che il governo greco s'era da tempo schierato a favore dei britannici e che dalle isole egee e dalla sponda fonica veniva una grave minaccia per le forze italiane presidianti l'Albania ed operanti in Africa settentrionale? O è vero, di contro, quel che affermano gli antifascisti, che cioè Mussolini, contro il parere dell'alleato tedesco e contro il consiglio dello stesso stato maggiore italiano, volle l'attacco alla Grecia solo in funzione del suo smisurato orgoglio? La verità è difficile da rilevare, nella ridda di memoriali e contromemoriali che esistono. Indubbiamente, però, la Grecia aveva assunto, fin dall'aprile del 1939 (data dell'occupazione italiana dell'Albania) un atteggiamento esplicitamente anti-asse. Vari documenti, poi, testimoniano della parte che il governo ellenico aveva avuto in Albania nella sobillazione anti-italiana fra le popolazioni dell'Epiro settentrionale, oggetto delle mire espansionistiche di Atene fin dall'altra guerra. In quanto all'appoggio greco alle navi britanniche operanti contro la flotta italiana, basta rifarsi alle esplicite ammissioni dell'Amm. Cunningham, Comandante inglese del Mediterraneo, nel suo libro « L'ossidea di un marinaio » (pagina 113). Appare comunque eccessivo il moralismo di certi censori italiani i quali condannarono severamente l'attacco alla Grecia sul piano etico mentre non risulta che abbiano usato altrettanto rigore per l'invasione anglo-sovietica dell'Iran e per altre analoghe operazioni degli alleati. La verità è che un paese in guerra non può indulgere, senza proprio gravissimo danno, a considerazioni di carattere morale e che nei fatti d'arme lo storico deve frenare in considerazione solamente un dato: quello dell'utilità. Fra tanti giudizi contrastanti, però, tutti i critici dell'attacco alla Grecia concordano su una cosa: su una valutazione totalmente negativa del modo in cui fu concepita, preparata e condotta la campagna. Le responsabilità, è vero, rimbalzano (a seconda dei casi) dal capo di Mussolini a quello di Ciano, dal capo di Badoglio a quello di Visconti Prasca, (per non parlare di Soddu, di Roatta e di Iacomoni), ma il fatto è che diplomatici e militari, politici e tecnici, sbagliarono tutti. I politici sottovalutarono le capacità di resistenza morale del popolo greco, giudicandolo in base alla scarsa levatura dei suoi esponenti governativi e parlamentari. I diplomatici dichiararono con sicumera che la Grecia sarebbe crollata perché... era stata comprata dall'oro italiano. Ben si capisce, dunque, che Mussolini abbia potuto credere effettivamente ad una passeggiata militare che avrebbe gareggiato, in rapidità, con la campagna polacca e con quella norvegese. C'erano i militari a confermarlo in questo calcolo errato. I militari che giudicavano l'Epiro liquidabile in una ventina di giorni grazie ad una presunta superiorità numerica di due a uno nei confronti dell'avversario e quindi sognavano una marcia trionfale su Atene a non più due mesi dall'inizio dell'offensiva. E qui, nel settore militare, vanno ricercate le responsabilità più pesanti. Infatti la superiorità militare (numerica e tecnica) fu sempre, nei primi mesi della campagna, dei greci, i quali, tempestivamente resi edotti delle nostre intenzioni offensive, avevano avuto agio di richiamare alcune classi., mentre la difficoltà dei trasporti, lamancanza di strade, la carenza di mezzi motorizzati, l'inclemenza della stagione, nonché l'assenza di un chiaro piano strategico, riducevano la già scarsa efficienza delle otto divisioni che avevamo in Albania. A queste divisioni (di cui due erano schierate a copertura della frontiera jugoslava) si opponevano non meno di quattordici divisioni greche, tutte ottimamente armate, che tra l'altro contavano effettivi di gran lunga superiorità a quelli nostri: in totale circa 350 mila uomini contro non più di 105 mila uomini da parte italiana. Le premesse in base alle quali si iniziava, il 29 ottobre 1940, la campagna di Grecia, non potevano quindi essere più infelici. Nè si può capire, come lo stato maggiore dell'esercito e i comandi in Albania non abbiano nemmeno tentato di impedire l'inizio di un'impresa che non poteva avere successo e che anzi avrebbe esposto il nostro corpo di spedizione a gravissimi rischi. Si aggiunga che, inoltre, la scarsa efficienza dei porti albanesi e la difficoltà dei trasporti marittimi, nonché lo stato delle strade rendevano aleatorie le possibilità di far affluire, in caso di necessità, adeguati rinforzi di truppe e di materiali. Fu quindi gran fortuna, dovuta pricipalmente all'eroismo disperato delle truppe, se una guerra che avrebbe potuto vederci buttati a mare dall'esercito greco, si risolse (dopo l'effimero successo iniziale) in una tenace resistenza che bloccò il passo al nemico sulla linea Tepeleni-Pogradec e che poi, logorato l'avversario, si trasformò, nella primavera del' 41 in una vittoriosa e conclusiva avanzata nel cuore della Grecia. E se anche, nella prova, lo stato maggiore italiano (impersonato da Badoglio) rivelò i gravi difetti che tante tragiche esperienze avrebbero causato al Paese, va detto che la campagna greco-albanese non è una pagina di cui il soldato nostro debba arrossire. Un nome solo, infatti, basta a riscattare errori e colpe: il nome della Julia simbolo di eroismo e di sovrumana tenacia. E si sa che quello della « Julia » non fu esempio isolato, che il soldato italiano, male armato, male nutrito e peggio vestito e calzato, nel fango e nel gelo, sotto la tormenta e sotto le bombe seppe vincere la dura partita. Tanto che quando i tedeschi irruppero in Grecia dalla Bulgaria (aprile 1941) l'esercito ellenico aveva praticamente esaurito ogni capacità di resistenza. La campagna di Grecia non fu, fra l'ottobre '40 e l'aprile '41, il solo fatto bellico importante. Ma, fedeli al principio di dare una trattazione organica agli avvenimenti sui valli scacchieri della guerra. L'offensiva britannica in Marmarica, l'attacco alla Jugoslavia, la controffensiva italo-tedesca e molti importanti episodi della guerra aeronavale nel Mediterraneo, nonché le vicende che portarono alla caduta dell'Impero. Avvenimenti che, tutti, si svolsero nei mesi in cui in Grecia divampava la lotta.

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    28 ottobre 194. Nelle primissime ore del giorno il governo italiano inviava alla Grecia una nota ultimativa che chiedeva, come «garanzia dalla neutralità
    greca», e come garanzia della sicurezza italiana, la facoltà di occupare alcuni punti strategici in territorio ellenico. Tre ore dopo, essendo scaduto l'ultimatum senza una risposta greca, le truppe in Albania iniziavano l'attacco. Nella foto in alto convogli di piroscafi trasportano in Albania i rinforzi al corpo di spedizione. L'afflusso delle truppe fu però inferiore alle richieste del gen. Visconti Prasca una divisione invece delle tre richieste. Nelle due foto in basso a sinistra truppe di fanteria in navigazione nello Jonio a destra: sbarco di materiali nel porto di Valona.

    L'afflusso delle truppe

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    Il problema dei rifornimenti alle truppe operanti sul fronte era particolarmente arduo, in Albania, a causa della scarsezza di porti e dell'assoluta mancanza di ferrovie. Anche le poche strade dell'Albania erano impraticabili. Le truppe e i materiali concentrati in Puglia non impiegavano infatti meno di un mese per essere pronti all'impiego bellico. Questi gravi inconvenienti, sottovalutati dal comando italiano, furono all'origine del disastro dell'offensiva di ottobre. In alto a sin. nel porto di Valona sbarcano gli alpini. Valona e Durazzo erano i soli porti d'una certa importanza di cui disponevamo sulla sponda albanese. In basso a sin. truppe autocarrate attraversano Tirana per raggiungere il fronte. In Albania, nel 1940, vi erano appena 500 autocarri, i quali si dimostrarono insufficenti alle necessità logistiche. Un autocarro, a causa delle distanze dei porti di rifornimento dal fronte poteva fare il tragitto (circa trecento chilometri) solo una volta ogni sei o sette giorni. In alto a destra lenta marcia delle divisioni italiane nel tormentato paesaggio albanese. Le truppe destinate ad attaccare la Grecia dovettero quasi sempre effettuare a piedi i loro trasferimenti per lo stato e l'impraticabilità delle strade e per la carenza di mezzi di trasporto. Al centro a destra un reparto in pieno assetto di guerra sbarca a Durazzo. La Marina da guerra impiegò nelle crociere protettive dei convogli per l'Albania numeroso naviglio sottile. In basso un reparto di cavalleria in una ricognizione offensiva oltre il confine greco-albanese.

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    Aspetti della preparazione offensiva italiana sul fronte greco. Nella foto in alto a sinistra reparti del genio riparano le interruzioni stradali operate dai
    greci sul litorale fonico. Il problema logistico, già difficile per lo stato delle strade, fu reso arduo dall'imperversare del maltempo che ingrossò i fiumi e
    rallentò gravemente la penetrazione delle nostre truppe. Al centro a sin. salmerie italiane in marcia dietro le truppe avanzanti. Quasi tutti i trasporti
    furono effettuati, nella prima parte della campagna, a dorso di mulo. Il comando supremo aveva negato al generale Visconti Prasca i richiesti rifornimenti di autocarri. In basso a sin. carri armati della divisione «Centauro» schierati in prima linea sul fronte greco. La mimetizzazione sta ad indicare la gravità dell'offesa aerea nemica. I greci possedevano soltanto 144 apparecchi efficenti ma in loro aiuto erano giunti notevoli aliquote della RAF. In alto a destra il Maresciallo Badoglio al quale vanno fatte risalire le responsabilità sul modo criminale con cui egli e i suoi colleghi di S.M. avevano organizzato e condotto la guerra contro la Grecia. Badoglio venne rilevato il 16 dicembre 1940 e sostituito con il Generale Ugo Cavallero. Nella foto in basso a destra un irregolare delle bande albanesi che si affiancarono alle truppe italiane. Gli albanesi, che vantavano antiche rivendicazioni sull'Epiro, diedero un discreto apporto nella prima fase delle operazioni con alcune bande e con una legione della Milizia.

    Oltre in confine

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    Il piano predisposto dal generale Visconti Prasca e approvato dallo Stato Maggiore, prevedeva lo sviluppo di operazioni offensive soltanto nell'Epiro, mentre le nostre truppe sul fronte korciano si sarebbero dovute tenere sulla difensiva. Il comando anzi prevedeva che in quel settore vi sarebbero stati seri attacchi greci. Vi furono quindi assegnate due divisioni, mentre tre divisioni dovevano superare il fiume Kalamas e tendere alla conquista del porto di Prevesa e del golfo d'Arte, il cui possesso, facilitando notevolmente l'afflusso di rifornimenti dall'Italia, avrebbe dovuto costituire la premessa per ulteriori operazioni nel cuore della Grecia, verso Atene. Al centro del fronte epirota, era anche previsto l'investimento del campo trincerato di Han Kalibaki e la conquista della conca di Janina. Più a nord, quasi a cavaliere dei due scacchieri principali di guerra, la divisione alpina u Julia avrebbe dovuto operare su Metzovo, per scindere in due il fronte avversarso e per impedire le comunicazioni greche con la conquista di quell'importante nodo stradale. Nei primi giorni di guerra le truppe operanti sulla costa fonica. (Divisione Siena e Raggruppamento Litorale) avanzarono rapidamente in territorio greco, superando con mezzi di fortuna il fiume Kalamas, ingrassato dalle piogge e puntando su Prevesa. Particolarmente brillanti furono i successi della cavalleria (Reggimenti Aosta e Milano) che si spinse profondamente nel dispositivo avversario. In alto un reggimento di cavalleria passa il confine greco-albanese. L'aviazione italiana, a causa dell'imperversare del maltempo, non potè intervenire con la dovuta efficacia fino a sostegno delle operazioni di terra. Molte azioni di bombardamento furono tuttavia effettuate in profondità per impedire o rallentare i movimenti delle truppe elleniche mobilitate. In basso bombardieri italiani in volo sulla Grecia. Sono visibili i colpi dell'artiglieria contraerea anglo-ellenica.

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    La divisione alpina « Julia », malgrado i suoi ridotti effettivi (circa 10.000 uomini) doveva compiere un'importante operazione puntando sul passo di Metzovo. La divisione raggiunse l'obiettivo a circa settanta chilometri nell'interno del territorio nemico, vincendo forti resistenze avversarie. Si trovò tuttavia in gravi difficoltà quando il generale Papagos sviluppò la sua azione controffensiva sulla sinistra del nostre schieramento. La « Julia » malgrado la gravissima inferiorità numerica, resse con estremo valore al duro attacco nemico e riuscì, a prezzo di enormi perdite, a mantenere il fronte nel settore ad essa affidato. Solo per ordini superiori, dovuti alla necessità di evitare l'aggiramento delle unità impegnate nel settore di Corcia e di Erseke, ripiego successivamente verso l'Albania. In alto a sinistra un cannone da montagna in postazione a Metzovo. L'artiglieria alpina era particolarmente adatta al terreno nella zona centrale del fronte, ove era impossibile trasferire con rapidità cannoni di maggiore calibro. In alto a destra un Alpino della Julia legge sul bollettino della divisione la notizia della concessione della Medaglia d'Oro ai V.M. ai tre reggimenti della divisione. In basso aspetti della mobilitazione greca. Un reparto dei caratteristici Euzoni.
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    Tuonano i cannoni

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    1 novembre 1940, nel settore centrale del fronte, davanti a Gianina, continuano gli attacchi italiani contro le forze greche che vanno rapidamente organizzandosi e si irrigidiscono nella difesa. In alto una batteria italiana di medio calibro martella le posizioni nemiche. In basso carri armati della divisione «Centauro» proteggono l'avanzata delle fanterie. Sulle impervie strade di tutto lo schieramento i carristi italiani hanno scritto pagine sublimi di eroismo e di sacrificio.

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    In alto prigionieri greci avviati al campo di concentramento, dopo i primi giorni di offensiva. Anche le truppe di copertura elleniche si batterono valorosamente per rallentare l'avanzata italiana, in attesa dei rinforzi. La popolazione dell'Epiro settentrionale, in maggioranza albanese, accolse con simpatia le truppe italiane e le formazioni volontarie skipetare che le appoggiavano. Al centro gli abitanti di un paese occupato salutano gli italiani col braccio levato. In basso il «pope» ortodosso e i notabili di un villaggio occupato si presentano alle autorità italiane in seno di sottomissione. In alto a destra un bombardiere si rifornisce dei lunghi nastri di pallottole per le mitragliatrici di bordo. Sotto il pilota di un nostro apparecchio da bombardamento, reduce da una missione sulla Grecia, mostra i segni del tiro contraereo sulla carlinga.

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    SPOILER (click to view)
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    L'attività dell'aviazione, assai scarsa nei primi giorni, s'andò intensificando nelle settimane successive, quando già la situazione delle nostre truppe era gravemente compromessa. Per di più l'aviazione, non avendo mezzi adatti all'appoggio delle formazioni terrestri, si limitò a bombardare località, porti e nodi ferroviari lontani dal fronte, senza intervenire nei valloni albanesi, stretti e profondi, che le erano preclusi. Contro i nostri aerei intervenne, a sostegno delle scarse forze greche di aviazione, la RAF inglese. Mancò dunque, anche in Grecia, l'assoluto dominio dell'aria che era uno dei presupposti indispensabili per la riuscita delle operazioni. In conseguenza di ciò (e a causa de rovesci subiti nell'Epiro) l'operazione per la conquista di Corfù, alla quale doveva partecipare la Marina, venne sospesa e non fu più effettuata fino all'aprile del '41. Nella foto in alto bombardieri in volo su Gianina, contrastati dall'artiglieria antiaerea. Al centro cataste di bombe su un campo di aviazione in Albania. Poichè i campi albanesi non erano sufficienti (disponevamo soltanto di una mezza dozzina di aeroporti, di cui due di prima linea) la base principale delle operazioni fu in Puglia, particolarmente a Grottaglie. In basso la foto dell'osservazione aerea sugli effetti del bombardamento di un nodo ferroviario a Larissa. A destra bombe italiane sul canale di Corinto.

    Fanterie all'attacco

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    Già nei primi giorni di novembre i greci si erano riavuti dal colpo iniziale ed avevano sensibilmente rallentato la nostra offensiva. Successivamente si
    sviluppò la loro controffensiva e mentre le truppe italiane dovevano fermarsi sul Kalamas e davanti a Kalibaki, sulla destra sette divisioni greche attaccavano in forze. La «Parma», che fronteggiava da sola più di centomila uomini dell'esercito nemico, non resse allo sforzo e in suo aiuto furono fatte affluire altre tre divisioni (le due che presidiavano il confine jugoslavo e la «Piemonte»). Ma ogni sforzo fu vano e dopo vari giorni di furibondi combattimenti i greci riuscirono ad infiltrarsi nelle nostre linee, tagliando la strada Corcia-Perati. La minaccia era grave per tutto lo schieramento italiano. Nella foto in alto truppe italiane al contrattacco davanti a Coccia. Nella foto in basso un carro leggero catturato dalle nostre truppe. Sopra la mitragliera si legge «Vendicate '1'HeIli ». Si trattava di un incrociatore greco affondato presubilmente da un sommergibile italiano.

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    La Gran Brétagna fece affluire in Grecia, a sostegno delle truppe alleate, scarse forze militari che per lo più si attestarono sulle posizioni di maggiore valore strategico per l'Impero: Creta, Salonicco, Atene, le Termopili e la Tessaglia. Notevolissimo fu invece l'apporto britannico in artiglierie, munizioni, viveri e rifornimenti d'ogni genere. Nella foto in alto i capi della Grecia in guerra il gen. Papagos, comandante delle truppe greche, il gen. Metaxas, Primo Ministro ellenico, il gen. Gambier Parry, comandante delle truppe inglesi. In alto a destra il gen. Wavel ispeziona le truppe britanniche in territorio ellenico mentre stanno attrezzando un campo di aviazione. Al centro a sinistra mezzi cingolati britannici a Salonicco. Al centro a destra consiglio di guerra alla reggia di Atene. Sono presenti (da sin. a destra) il generale Parry, il gen. Metaxas, Re Giorgio, il Maresc. D'Albiac, comandante della aviazione inglese in Grecia e il generale Papagos. In basso a sin. L'arcivescovo ortodosso Chrysanthos, fotografato fra gli alti ufficiali inglesi al termine di una funzione religiosa. La popolazione greca si mantenne calma e disciplinata fino all'ultimo. In basso a destra istruttori britannici spiegano al coscritti ellenici il funzionamento di un 'pezzo antiaereo.

    La resistenza greca

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    La controffensiva greca aveva messo in grave pericolo l'intero schieramento italiano. L'unica soluzione possibile per evitare la rottura del fronte e l'aggiramento dell'ala sinistra, era un tempestivo ripiegamento. Questa dolorosa decisione venne presa senza indugio nella zona di Corcia, che venne abbandonata al nemico e poi al centro e nell'Epiro. La lotta, baldanzosamente iniziata con l'invasione del territorio nemico, si spostava così, a causa della imprevidenza dei comandi, entro i confini stessi dell'Albania. Ma, considerazione più importante, non si trattava soltanto di un insuccesso facilmente rimediabile con il rapido afflusso di rifornimenti e di truppe fresche, bensì di una crisi drammatica che metteva in forse la nostra stessa permanenza in Albania. Difatti in territorio nazionale, proprio nei giorni precedenti all'attacco contro la Grecia, si era iniziata, per decisione dello Stato Maggiore, una parziale smobilitazione dell'esercito, il che rendeva particolarmente arduo se non impossibile il tempestivo spostamento sullo scacchiere albanese delle divisioni necessarie. E fu solo grazie al sacrificio eroico dei nostri soldati, in un durissimo inverno di guerra se l'avanzata greca, alimentata sempre da nuove forze, fu stroncata in prossimità della frontiera Nella foto in alto a sin bombardieri britannici « Beaufort » in volo sul porto di Durazzo. A sin. in basso sulle banchine del Pireo è sbarcato un carico di bombe per gli aerei della RAF. Un marinaio greco monta la guardia. In alto a destra i greci entrano ad Argirocastro, evacuata dagli italiani. Le rovine testimoniano dell'asprezza della lotta e della tenacia della nostra resistenza. In basso a destra il martellamento britannico sul porto di Valona. Le due basi principali dell'Albania, Valona e Durazzo, furono duramente colpite dall'aviazione inglese.

    SPOILER (click to view)
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    Il nuovo schieramento italiano dopo l'insuccesso dell'offensiva di Visconti Prasca può essere indicato da una linea che da Himara, passando a sud di Tepelenie di Klisura, giungeva fino alla sponda del lago di Ocrida. Questo fronte, salvo pochi arretramenti tattici, fu mantenuto pei tutto l'inverno, in condizioni di perdurante inferiorità numerica, senza adeguati rifornimenti e sotto incessanti attacchi nemici. Intanto erano maturate, a Roma, importanti novità. Il gen. Soddu, sottosegretario alla Guerra che aveva assunto fin dai primi giorni di novembre il comando del gruppo di armate in Albania, sostituendo Visconti Prasca, veniva a sua volta esonerato dal comando e sostituito dal generale Ugo Cavallero, uno dei più brillanti ufficiali dell'Esercito. Nella foto in alto a sinistra una pattuglia greca in avanscoperta a pochi chilometri da Tepeleni, saldamente tenuta dalle nostre truppe. Al centro a destra un piccolo eroe greco, il tredicenne Anastasio Caralambopoulos, che avendo catturato a Coritza degli informatori albanesi filo-italiani venne nominato caporale sul campo. In basso a sin. prigionieri italiani in un campo di concentramento greco. In alto a destra cristiana sepoltura per un avversario sconosciuto. Al centro a destra soldati greci marciano verso la prima linea. In basso a destra una fotografia della propaganda britannica l'euzone greco sorveglia i prigionieri italiani.

    Il tricolore sull'Inghilterra

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    19 ottobre 1940, arriva nel Belgio un Corpo Aereo Italiano col compito più che altro simbolico e politico di cooperare con i tedeschi nella battaglia d'Inghilterra allora in corso. Si trattava di qualche diecina di apparecchi da bombardamento e da caccia che svolsero una attività limitata anche a causa delle particolari condizioni del clima. Tuttavia, nelle loro azioni di bombardamento, gli aviatori del CAI si dimostrarono all'altezza della fama dei piloti italiani e negli scontri nel cielo dell'Inghilterra abbatterono, con lievi perdite da parte loro, una quindicina di apparecchi britannici. E' falso che gli aerei italiani abbiano bombardato Londra. Il loro impiego, in prevalenza notturno, ebbe per obiettivo le basi costiere della Manica e dell'estuario del Tamigi. Nella foto in alto bombardieri italiani in volo notturno sull'Inghilterra. In basso a sin. pilota italiano prigioniero per le vie di Londra. A destra:un CR 42 abbattuto dalla. caccia britannica durante uno scontro con gli Spitfire. Nel corso del combattimento, svoltosi nel cielo di Oxford, i britannici persero tre apparecchi e la nostra formazione due. Il CAI fu ritirato dal Belgio nell'inverno del '41 per l'aggravarsi della situazione nel Mediterraneo. 94 piloti furono decorati della Croce di Ferro tedesca.

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    Sotto la guida del generale Cavallero la resistenza italiana agli attacchi greci assunse un tono di maggiore decisione e soprattutto di maggiore organicità. Il nuovo capo di stato maggiore si era reso conto di persona della grave situazione delle truppe ed aveva dato ordini severissimi affinché affluissero in Albania nuovi mezzi, nuove unità e soprattutto migliori equipaggiamenti. Al difettoso equipaggiamento, vanno infatti attribuiti i numerosissimi casi di assideramento e di congelamento che furono registrati in Albania. Nelle due foto truppe alpine e di fanteria si imbarcano sugli aerei da trasporto per essere condotte in Albania. I trasporti aerei furono largamente impiegati per ovviare alla lentezza dei trasporti marittimi spesso insidiati dalla reazione inglese.

    Il generale inverno

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    Siamo ormai a febbraio, il fronte italiano si va rafforzando con l'afflusso di quelle divisioni che, tempestivamente impiegate, avrebbero dato alla campagna albanese una ben diversa piega. Nelle tre foto sul fiabesco paesaggio invernale si snodano lunghe colonne di alpini e artiglieri che si avviano a prendere posizione, sostituendo le truppe esaurite dalla lunga resistenza e dal clima micidiale.

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    I mesi più duri, dal punto di vista militare, furono quelli di novembre e dicembre, quando i greci, sulla spinta del successo iniziale della controffensiva,
    tentarono di sboccare su Elbassan e poi su Valona. Altrettanto seria fu la minaccia su Berat, che però s'infranse contro la tenace resistenza degli alpini.
    Poi la situazione andò gradatamente se pur lentamente migliorando. In alto a sin. un nido di mitragliatrici italiano di fronte a Clisura, che fu l'antemurale contro il quale si infransero gli attacchi dei greci. Le truppe elleniche erano abbondantemente fornite di mortai « Brand », uguali ai nostri «81», che usavano con eccezionale abilità. Quest'arma inflisse alle nostre truppe gravissime perdite. Al centro a sin. Natale in Albania. Anche le bombe sono buone per gli auguri... In basso a sin. Messa di Natale in Trincea. Per un giorno il cannone tace da ambo le parti. In alto a destra 6 gennaio 1941 giungono al fronte i pacchi della Befana. La mancanza dì generi di conforto e spesso anche dei viveri base era stata duramente sentita dalle nostre truppe. In basso il generale Medaglia d'Oro Giovanni Esposito comandante della divisione alpina « Pusteria » ispeziona una ridotta avanzata del suo schieramento.

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    Altri aspetti invernali della guerra in Albania. In alto apparecchi da bombardamento immobilizzati sul campo di Tirana dalla neve. Il terribile inverno
    greco ostacolò sempre le operazioni militari ma ogni difficoltà fu superata dall'indomito coraggio delle nostre truppe. In basso a sin. un traino di artiglieria avanza faticosamente fra la neve e il fango. A destra fucile mitragliatore in postazione sul fronte. L'ultimo attacco greco è vicino.
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