Gli eroi Italiani

Omaggio a tutti coloro che hanno reso servizio alla nazione

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    Questa discussione non vuole essaltare nessuna parte politica, non appartiene alla destra così come non appartiene alla sinistra, ma vuole solo rendere doveroso omaggio a tutti coloro che, con le azioni o con l'ingegno hanno amato e reso servizio, fino al sacrificio delle proprie vite all'ITALIA. In molti, forse in troppi li hanno dimenticati, noi, nel nostro piccolo racconteremo brevemente le loro storie.

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    Enrico Toti Roma 1882 - Monfalcone 1916


    Nel 1897, all'età di quindici anni, Enrico Toti, nato da genitori di origine di Cassino (Frosinone), si imbarcò come mozzo sulla nave scuola Ettore Fieramosca, passando poi sulla nave corazzata Emanuele Filiberto e infine sull'incrociatore Coatit. Nel 1904 fu coinvolto in scontri sul Mar Rosso contro i pirati che infestavano il mare antistante la colonia italiana dell'Eritrea. Congedatosi, nel 1905 Toti fu assunto nelle Ferrovie dello Stato come fuochista. Il 27 marzo 1908, mentre lavorava alla lubrificazione di una locomotiva, che si era fermata nella stazione di Colleferro per effettuare l'aggancio a una doppia locomotiva e per fare rifornimento d'acqua, a causa dello spostamento delle locomotive, Toti scivolò rimanendo con la gamba sinistra incastrata e stritolata dagli ingranaggi. Subito portato in ospedale, l'arto gli fu amputato al livello del bacino.[1] Perso il lavoro, si dedicò a innumerevoli attività tra cui la realizzazione di alcune piccole invenzioni custodite a Roma, nel Museo storico dei bersaglieri. Nel 1911, pedalando in bicicletta con una gamba sola, raggiunse dapprima Parigi, quindi attraversò il Belgio, l'Olanda e la Danimarca, fino a raggiungere la Finlandia e la Lapponia. Da lì attraversò la Russia e la Polonia, rientrando in Italia nel giugno 1912. Nel gennaio 1913 partì nuovamente in bicicletta, stavolta diretto verso il sud: da Alessandria d'Egitto raggiunse il confine con il Sudan dove i le autorità inglesi, giudicando troppo pericoloso il percorso, gli imposero di concludere il viaggio e lo rimandarono al Cairo da dove fece ritorno in Italia.
    Allo scoppio della prima guerra mondiale Enrico Toti presentò tre domande di arruolamento che furono respinte. Toti decise nonostante tutto di inforcare la bicicletta e di raggiungere il fronte presso Cervignano del Friuli. Qui fu accolto come civile volontario e adibito ai "servizi non attivi". Quindi fu privo delle stellette militari. Accadde però che una sera, fermato da una pattuglia di carabinieri a Monfalcone, fu fatto ritornare alla vita civile. Nel gennaio 1916, anche grazie all'interessamento del Duca d'Aosta riuscì ad essere destinato al Comando Tappa di Cervignano del Friuli sempre come volontario civile. Inizialmente destinato alla brigata "Acqui" riuscì a farsi trasferire presso i bersaglieri ciclisti del terzo battaglione. In aprile gli stessi bersaglieri, presso cui si era trovato a combattere, lo proclamarono uno di loro e lo stesso comandante, maggiore Rizzini gli consegnò l'elmetto da bersagliere e le stellette.
    Nell'agosto 1916 incominciò la Sesta battaglia dell'Isonzo che portò alla presa di Gorizia. Il 6 agosto 1916, Enrico Toti, lanciatosi con il suo reparto all'attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico esclamando: "Nun moro io!" (io non muoio!)[senza fonte], poco prima di essere colpito a morte e di baciare il piumetto dell'elmetto. Decorato con la Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria "motu proprio" dal Re in persona, dato che non era immatricolato come militare a causa della sua inabilità, "perché ne sia tramandato il ricordo glorioso ed eroico alle generazioni future."

    La salma fu trasportata inizialmente a Monfalcone ma il 24 maggio 1922 venne trasportata a Roma dove ricevette solenni funerali. In sua memoria fu eretto un monumento in bronzo nei giardini del Pincio a Roma e un altro a Gorizia. Un altro monumento in bronzo gli è stato dedicato a Cassino in Piazza Marconi. A lui furono intitolati il sommergibile italiano Enrico Toti, varato nel 1928, ed il successivo sottomarino Enrico Toti, varato nel 1968. Molte vie sono state intitolate alla sua memoria. Inoltre, nel giugno 1923, gli fu intitolata la XI - Legione Ferroviaria Enrico Toti di Bari della Milizia ferroviaria.




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    Salvo D'Acquisto (Napoli, 15 ottobre 1920 – Torre di Palidoro (Roma), 23 settembre 1943)


    Salvo D'Acquisto nacque a Napoli, a Villa Alba, un edificio di 4 piani in via San Gennaro nel rione Antignano, e frequentò la scuola d'infanzia presso le salesiane Figlie di Maria Ausiliatrice di via Alvino nel quartiere Vomero e successivamente il Liceo Vico.

    Arruolatosi giovanissimo nei Carabinieri come volontario nel 1939, partì nuovamente volontario l'anno successivo per la Libia, a pochi mesi dall'inizio della seconda guerra mondiale; dopo essere rimasto ferito ad una gamba, restò con il suo reparto in zona d'operazioni sinché non contrasse una febbre malarica e rientrò poi in Italia nel 1942 per frequentare la Scuola Allievi Sottufficiali Carabinieri e diventare sottufficiale. Uscitone col grado di vice brigadiere, fu destinato alla stazione dei Carabinieri di Torrimpietra, all'epoca una zona rurale extraurbana a qualche decina di chilometri da Roma, lungo la via Aurelia, oggi frazione del comune di Fiumicino.

    Dopo l'8 settembre 1943, un reparto di truppe tedesche delle SS si era accasermato presso alcune vecchie postazioni precedentemente in uso alla Guardia di Finanza, nelle vicinanze della località Torre di Palidoro, che rientrava nella giurisdizione territoriale della stazione Carabinieri di Torrimpietra. Qui il 22 settembre alcuni soldati tedeschi che ispezionavano casse di munizioni abbandonate, furono investiti dall'esplosione di una bomba a mano, probabilmente per imperizia nel maneggio degli ordigni. Due dei soldati morirono ed altri rimasero feriti.

    Il comandante del reparto tedesco attribuì la responsabilità dell'accaduto ad anonimi attentatori locali e richiese la collaborazione dei Carabinieri locale stazione,[1] temporaneamente comandata da Salvo D'Acquisto per l'assenza del maresciallo comandante. La mattina seguente, D'Acquisto, assunte alcune informazioni, provò a ribattere che l'accaduto era da considerarsi un caso fortuito, un incidente privo di autori, ma le SS insistettero sulla loro versione e richiesero la rappresaglia , ai sensi di un'ordinanza emanata dal feldmaresciallo Kesselring pochi giorni prima.
    l 23 settembre furono dunque eseguiti dei rastrellamenti e catturate 21 persone scelte a caso fra gli abitanti della zona. Lo stesso D'Acquisto fu forzatamente prelevato dalla caserma, da parte di una squadra armata di SS, e fu condotto nella piazza principale di Palidoro, dove erano stati radunati gli ostaggi. Fu tenuto un sommario "interrogatorio", nel corso del quale tutti gli ostaggi si dichiararono ovviamente innocenti. Nella piazza venne anche condotto un altro abitante ritenuto un carabiniere, Angelo Amadio.

    Nuovamente richiesto di indicare i nomi dei responsabili, D'Acquisto ribadì che non ve ne potevano essere, perché l'esplosione era stata accidentale, gli ostaggi e gli altri abitanti della zona erano dunque tutti quanti innocenti. Durante l'interrogatorio dei rastrellati, il sottufficiale fu tenuto separato nella piazza, sotto stretta sorveglianza da parte dai soldati tedeschi e, "quantunque malmenato e a volta anche bastonato dai suoi guardiani, il D'Acquisto serbò un contegno calmo e dignitoso", come ebbe a riferire in seguito Wanda Baglioni, una testimone oculare.

    Gli ostaggi e D'Acquisto vennero quindi trasferiti fuori dal paese. Agli ostaggi furono fornite delle vanghe e furono costretti a scavare una grande fossa comune nelle vicinanze della Torre di Palidoro, per la ormai prossima loro fucilazione. Le operazioni di scavo si protrassero per alcune ore; quando furono concluse fu chiaro che le SS avrebbero davvero messo in atto la loro terribile minaccia.

    A quel punto, secondo la testimonianza di Angelo Amadio:
    « all'ultimo momento, però, contro ogni nostra aspettativa, fummo tutti rilasciati eccetto il vicebrigadiere D'Acquisto. ... Ci eravamo già rassegnati al nostro destino, quando il sottufficiale parlamentò con un ufficiale tedesco a mezzo dell'interprete. Cosa disse il D'Acquisto all'ufficiale in parola non c'è dato di conoscere. Sta di fatto che dopo poco fummo tutti rilasciati: io fui l'ultimo ad allontanarmi da detta località. »


    Amadio infatti era creduto dai tedeschi un carabiniere e pertanto inizialmente ritennero di trattenerlo per farlo assistere alla esecuzione. Evidentemente, Salvo D'Acquisto si era autoaccusato del presunto attentato, addossandosi la sola responsabilità dell'accaduto e chiese l'immediata liberazione dei rastrellati.

    I 21 prigionieri furono lasciati liberi e immediatamente si diedero alla fuga, lasciando il sottufficiale italiano già dentro alla fossa, dinanzi al plotone d'esecuzione. Alla fuga si unì immediatamente dopo Amadio, quando riuscì a dimostrare, presentando i suoi documenti, che in realtà era un operaio delle ferrovie e non un carabiniere. Come raccontò nella sua testimonianza resa nel 1957, fece in tempo però mentre correva, a sentire il grido "Viva l'Italia" lanciato dal carabiniere, seguito subito dopo dalla scarica di un'arma automatica che portava a termine l'esecuzione. Si girò e vide un ulteriore colpo sparato da un graduato tedesco al corpo già riverso per terra. Vide i soldati ricoprire il corpo con il terriccio, spostandolo con i piedi. Il comportamento del militare aveva infatti colpito le stesse SS, che il giorno dopo, secondo quanto riferito nella testimonianza della Baglioni, le riferirono: "Il vostro Brigadiere è morto da eroe. Impassibile anche di fronte alla morte."

    Salvo D'Acquisto fu fucilato all'età di 23 anni. Le sue spoglie sono conservate nella prima cappella sulla sinistra, adiacente all'ingresso, della chiesa di Santa Chiara di Napoli.

    Nel 1983 fu aperta presso l'Ordinariato militare una causa di canonizzazione del sottufficiale.





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    Libero Grassi (Catania, 19 luglio 1924 – Palermo, 29 agosto 1991)


    Nato a Catania, ma trasferitosi a 8 anni a Palermo, i genitori gli diedero il nome di Libero in ricordo del sacrificio di Giacomo Matteotti. La famiglia è antifascista e il ragazzo matura anch'egli una posizione avversa al regime di Benito Mussolini. Nel 1942 si trasferisce a Roma, dove studia in Scienze Politiche durante la seconda guerra mondiale. Per non andare in guerra, entra in seminario, da cui però esce dopo la liberazione, tornando a studiare. Passa però a Giurisprudenza, all'Università di Palermo.

    Malgrado voglia fare il diplomatico, prosegue l'attività del padre come commerciante. Negli anni cinquanta si trasferisce a Gallarate, dove entra nel meccanismo dell'imprenditoria. Torna a Palermo per aprire uno stabilimento tessile. Nel 1961 inizia a scrivere articoli politici per vari giornali e successivamente si dà anche alla politica attiva con il Partito Repubblicano Italiano, che lo mette a capo dell'azienda municipale del gas.
    Dopo aver avuto alcuni problemi con la fabbrica di famiglia, viene anche preso di mira da Cosa nostra, che pretende il pagamento del pizzo. Libero Grassi ebbe il coraggio di opporsi alle richieste di racket della mafia, e di uscire allo scoperto denunciando gli estorsori. I suoi dipendenti lo aiutano facendo scoprire degli emissari, ma la situazione peggiora.

    La condanna a morte di Grassi arriva con la pubblicazione sul Giornale di Sicilia di una lettera sul suo rifiuto a cedere ai ricatti della mafia. La sua lotta prosegue in televisione, intervistato da Michele Santoro a Samarcanda su Rai 3, e anche su una rivista tedesca colpita dal suo comportamento positivo volto a denunciare i mafiosi. Libero Grassi fu lasciato solo nella sua lotta contro la mafia, senza alcun appoggio da parte dei suoi colleghi imprenditori. Per questo fu assassinato il 29 agosto 1991. Il 26 settembre 1991, Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano una serata televisiva a reti unificate (Rai 3 e Canale 5) alla figura di Libero Grassi.

    Per il suo omicidio sono stati condannati nel 2004 vari boss, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pietro Aglieri.




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    Cesare Battisti (Trento, 4 febbraio 1875 – Trento, 12 luglio 1916)


    Nacque a Trento quando questa era ancora parte dell'Impero austro-ungarico, da Cesare, commerciante, e dalla nobildonna Maria Teresa Fogolari.
    Dopo aver frequentato il ginnasio a Trento, si sposta a Graz, dove incontra e si lega al gruppo dei marxisti tedeschi, e con loro fonda un giornale che verrà subito censurato; dopo la parentesi di studi a Graz, approda a Firenze per frequentare l'università. Si laurea nel 1898 in lettere e successivamente consegue una seconda laurea in geografia. Seguendo le orme dello zio materno, don Luigi Fogolari (condannato a morte dall'Austria per cospirazione e poi graziato), abbraccia presto gli ideali patriottici dell'irredentismo. Successivamente agli studi universitari, si occupa di studi geografici e naturalistici e pubblica alcune apprezzate "Guide" di Trento e di altri centri della regione e l'importante volume "Il Trentino". Contemporaneamente si occupa di problemi sociali e politici e, alla testa del movimento socialista trentino, si batte per migliorare le condizioni di vita degli operai, per l'Università italiana di Trieste e per l'autonomia del Trentino. Nel 1900 fonda il giornale socialista Il Popolo e quindi il settimanale illustrato "Vita Trentina", che dirige per molti anni.

    Desiderando combattere per la causa trentina con la politica e farla valere dall'interno, nel 1911 si fa eleggere deputato al Reichsrat, il Parlamento di Vienna. Nel 1914 entra anche nella Dieta di Innsbruck.

    Si sposò con Ernesta Bittanti (Cremona, 1871 - 1957) ed ebbe tre figli: Luigi (1901 - 1946), Livia (1907 - 1978) e Camillo (1910- )
    Il 17 agosto 1914, appena due settimane dopo lo scoppio della guerra austro-serba, abbandona il territorio austriaco e ripara in Italia. Diventa subito un propagandista attivo per l'intervento italiano contro l'Impero austro-ungarico, tenendo comizi nelle maggiori città italiane e pubblicando articoli interventisti su giornali e riviste.
    Il 24 maggio 1915, l'Italia entra in guerra. Battisti si arruola volontario e viene inquadrato nel Battaglione Alpini Edolo, 50ª Compagnia. Combatte al Montozzo sotto la guida di ufficiali come Gennaro Sora e di Attilio Calvi. Per il suo sprezzo del pericolo in azioni arrischiate riceve, nell'agosto del 1915, un encomio solenne. Viene trasferito ad un reparto sciatori al Passo del Tonale e successivamente, promosso ufficiale, al Battaglione Vicenza del 6º Reggimento Alpini, operante sul Monte Baldo nel 1915 e sul Pasubio nel 1916.

    Nel maggio 1916 si trova a Malga Campobrun, in attesa dell'inizio della famosa Strafexpedition (15 maggio - 15 giugno 1916), preparando la controffensiva italiana. Il 10 luglio il Battaglione Vicenza, formato dalle Compagnie 59ª, 60ª, 61ª e da una Compagnia di marcia comandata dal tenente Cesare Battisti, di cui è subalterno anche il sottotenente Fabio Filzi, riceve l'ordine di occupare il Monte Corno (1765 m) sulla destra del Leno in Vallarsa, occupato dalle forze austro-ungariche.
    Nelle operazioni, molti Alpini caddero sotto i colpi austriaci, mentre molti altri furono fatti prigionieri. Tra questi ultimi si trovavano anche il sottotenente Fabio Filzi e il tenente Cesare Battisti stesso che, dopo essere stati riconosciuti, furono tradotti e incarcerati a Trento. A riconoscere l'irredentista trentino fu l'alfiere austriaco Bruno Franceschini, originario della Val di Non.

    La mattina dell'11 luglio, Battisti venne trasportato attraverso la città a bordo di un carretto, in catene e circondato da soldati. Durante il percorso numerosi gruppi di cittadini e milizie, aizzati anche dai poliziotti austriaci, lo fecero bersaglio di insulti, sputi e frasi infamanti.
    La mattina seguente, il 12 luglio 1916, fu condotto al Castello del Buon Consiglio insieme a Fabio Filzi. Durante il processo non si abbassò mai alle scuse, né rinnegò il suo operato e ribadì invece la sua piena fede all'Italia. Respinse l'accusa di tradimento a lui rivolta e si considerò a tutti gli effetti un soldato catturato in azione di guerra.
    Alla pronuncia della sentenza di morte mediante capestro per tradimento, Battisti prese la parola e chiese, invano, di essere fucilato invece che impiccato, per rispetto alla divisa militare che indossava. Il giudice gli negò questa richiesta e procedette invece ad acquistare alcuni miseri indumenti da fargli indossare, dando seguito alla sentenza.

    L'esecuzione avvenne nel cortile interno del Castello del Buonconsiglio (La fossa dei Martiri). Le cronache riportano che il cappio si spezzò, ma invece che concedergli la grazia com'era usanza, il carnefice ripeté la sentenza con una nuova corda. Da una testimonianza diretta, redatta sul libro Martiri ed eroi Trentini nella 1ª Guerra Mondiale edizione Legione Trentina, assieme a tutti i verbali del processo a Cesare Battisti, il testimone racconta che, vedendo una cordicella appesa a lato della forca, chiese al boia (Lang, venuto da Vienna e chiamato ancora prima che il processo iniziasse) se tale corda era adatta per l'esecuzione; il boia rispose che la corda buona era nella valigia. Cesare Battisti affrontò il processo, la condanna e l'esecuzione con animo sereno e con grande fierezza, nonostante la misera esposizione durante il tragitto in città, al fatto che fosse stato condotto alla forca vestito quasi di stracci e che non gli si permise di scrivere alla famiglia. Morì gridando in faccia ai carnefici: Viva Trento italiana! Viva l'Italia!

    Alla vedova Ernesta Bittanti fu liquidato l'importo di 10.000 lire dalla RAS, compagnia di assicurazione di Trieste, all'epoca austroungarica.




     
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    Luigi Durand de la Penne (Genova, 11 febbraio 1914 – Genova, 17 gennaio 1992)


    Conseguì il diploma di capitano marittimo presso l'Istituto nautico San Giorgio di Genova. Nell'ottobre 1934 frequentò il corso ufficiali di complemento dell'Accademia Navale di Livorno, al termine del quale, col grado di guardiamarina, si imbarcò sul Fulmine, un cacciatorpediniere della Classe Folgore.
    I componenti della X Flottiglia MAS nel 1939: il primo a sinistra è il sottotenente di vascello Durand de la Penne.

    Nel 1935 entrò a far parte della 10ª Flottiglia MAS della Spezia e venne trattenuto in servizio a causa della guerra d'Etiopia. Nel 1938 venne promosso sottotenente di vascello.

    Durante la seconda guerra mondiale partecipò a numerose missioni con i MAS nel Mar Mediterraneo. Passato ad operare con il Gruppo mezzi d'assalto, venne imbarcato sul sommergibile Iride nell'Agosto 1940 e prese parte attivamente alla prima spedizione dei Mezzi d’Assalto contro la base inglese di Alessandria. La data dell'attacco era stata fissata per il 26 agosto, ma il sommergibile, salpato dalla base della Spezia il 22 agosto, venne localizzato alla fonda nel Golfo di Bomba da un ricognitore inglese, ed alcune ore più tardi venne attaccato e colpito da tre aerosiluranti inglesi.[1] Nell’occasione Durand de la Penne riuscì a portare in salvo un marinaio dell'equipaggio del sommergibile, intrappolato nel battello. Per il suo comportamento Durand de la Penne venne passato al ruolo SPE (Servizio Permanente Effettivo). Nell'ottobre 1940 venne promosso tenente di Vascello. Partecipò alla missione di Gibilterra (30 ottobre 1940) e all'impresa di forzamento della base inglese di Alessandria d'Egitto.

    Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat, realizzò, all'alba del 19 dicembre 1941, l'affondamento della navi da battaglia inglese Valiant. Il sommergibile Scirè, dopo una navigazione in zona presunta minata, si portò davanti al porto di Alessandria d'Egitto «a 1,3 miglia nautiche, per 356° dal Fanale del molo di ponente del porto commerciale di Alessandria, in fondale di m.15»[2] e da lì lasciò partire la flottiglia di maiali che attaccarono le navi inglesi ancorate nel porto. Antonio Marceglia e Spartaco Schergat affondarono la corazzata Queen Elizabeth, Vincenzo Martellotta e Mario Marino la petroliera Sagona e il danneggiamento del cacciatorpediniere Jervis. La Valiant e la Queen Elizabeth, grazie alle acque basse del porto non affondarono completamente e dopo lunghi lavori di riparazione furono recuperate e rimesse in servizio.
    La HMS Valiant
    Luigi Durand de la Penne

    Durand de la Penne, dopo aver superato con notevoli difficoltà le ostruzioni del porto, collocò da solo la carica esplosiva sotto le torri di prora della Valiant, ma una volta risalito in superficie, venne scoperto e catturato. Portato a bordo insieme al 2° capo Emilio Bianchi, secondo operatore del suo mezzo, fu rinchiuso in un locale adiacente al deposito munizioni. Lì venne lasciato anche dopo che ebbe informato, al fine di far porre in salvo l'equipaggio, il comandante dell'unità inglese, capitano di vascello Charles Morgan, dell'imminenza dello scoppio della carica.

    Salvatosi dall'esplosione che affondò la nave, venne tradotto prigioniero in Gran Bretagna. Successivamente all'armistizio dell'8 settembre 1943 rimpatriò e partecipò alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto del Mariassalto. Tutti gli operatori vennero poi decorati di medaglia d'oro al valor militare e promossi per merito di guerra. La consegna della decorazione a Luigi Durand De la Penne avvenne a Taranto nel marzo 1945 e fu l'occasione di uno storico episodio: su invito del luogotenente del Regno Umberto di Savoia che presiedette la cerimonia, venne decorato dallo stesso sir Charles Morgan che nel 1941 comandava la Valiant e che era diventato ammiraglio.

    Nel 1950 fu promosso capitano di fregata, nel 1954 capitano di vascello, nell'ottobre 1956 fu addetto navale in Brasile. Nel giugno 1956 venne eletto alla Camera dei deputati nel collegio di Genova, nella lista della DC. Nello scorcio finale della II legislatura, venne collocato in aspettativa ed iscritto nel Ruolo d'onore, dove raggiunse il grado di ammiraglio di squadra. Rieletto con il PLI nella III, IV, V e VI legislatura.





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    Italo Balbo (Quartesana, 6 giugno 1896 – Tobruk, 28 giugno 1940)


    Italo Balbo nacque a Quartesana, frazione del comune di Ferrara, il 6 giugno 1896. Figlio di Camillo Balbo e Malvina Zuffi, entrambi maestri elementari: il padre era di origini piemontesi, mentre la madre era romagnola. In famiglia vigeva il rispetto assoluto per la monarchia ed il servizio militare.
    In famiglia i contrasti si accentuavano, poiché Italo, di idee repubblicane ma conservatrici, si scontrava con lo spirito monarchico del padre. Nel 1911, appreso al Caffè Milano circa l'iniziativa organizzata da Ricciotti Garibaldi per liberare l'Albania dal controllo turco, fuggì da casa e si aggregò alla spedizione militare. Non riuscì a partecipare alla spedizione, bloccato dalla polizia, avvisata dal padre.

    Nel 1914 Italo Balbo si schierò decisamente con il movimento interventista e, durante la partecipazione ad una manifestazione interventista a Milano, conobbe Benito Mussolini. Balbo divenne poi guardia del corpo di Cesare Battisti durante i comizi da lui tenuti a favore dell'intervento in guerra.
    Durante la prima guerra mondiale prestò servizio nel 7º Reggimento Alpini "Feltre". Promosso sottotenente, il 16 ottobre 1917 lascia il battaglione perché destinato, su sua domanda, al Deposito Aeronautico di Torino per un corso di pilotaggio, la sua vera grande passione. Pochi giorni dopo, a causa dell'offensiva austro-tedesca, fu costretto a ritornare al fronte. Nel 1918, al comando del reparto d'assalto del Battaglione Pieve di Cadore, partecipa all'offensiva sul Monte Grappa, liberando la città di Feltre.

    Per alti meriti militari si guadagnò una medaglia di bronzo e due d'argento, raggiungendo il grado di capitano. Congedato nel 1920, incontra, nello stesso anno, la contessina Emanuela Florio (1901 - 1980) e se ne innamora, subito ricambiato. Lei è timida, gentile, riservata; sono due caratteri opposti (il diavolo e l'acqua santa, dicono gli amici di suo padre), ma si vogliono bene e nel 1924 si sposano. Per amore di Emanuela, si rimette a studiare ed a Firenze si laurea in scienze sociali, dopo essersi accapigliato con un professore universitario che aveva offeso i reduci della grande guerra. Dopo la laurea tornò alla sua città natale dove fu assunto come impiegato da una banca.
    Dopo essere stato in gioventù di idee repubblicano-mazziniane nonché frequentatore della loggia massonica Gerolamo Savonarola di Ferrara, Balbo, dopo la guerra, aderì al fascismo e presto divenne segretario del Fascio di Ferrara. In questa veste organizzò una squadra d'azione denominata «Celibano», nome derivante dalla storpiatura dialettale del suo drink preferito, il cherry-brandy conosciuto anche come Sangue Morlacco.
    .Il 6 novembre 1926 venne nominato segretario di Stato all'aviazione e si apprestò ad organizzare la neocostituita Regia Aeronautica. Il 19 agosto 1928 divenne maresciallo delle Forze Aeree ed il 12 settembre 1929, a soli trentatré anni, ministro dell'Aviazione (diventando il più giovane ministro europeo dell'epoca).
    Balbo guidò due voli transatlantici. Il primo, nel 1930, con 12 idrovolanti Savoia-Marchetti S.55A partiti da Orbetello alla volta di Rio de Janeiro (Brasile), si svolse dal 17 dicembre 1930 al 15 gennaio 1931.

    La seconda crociera atlantica, crociera aerea del Decennale, venne organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica[8] in occasione della Century of Progress, esposizione universale che si tenne a Chicago tra il 1933 ed il 1934.
    Italo Balbo in divisa da aviatore.
    Monumento a Balbo a Chicago.

    Dal 1º luglio al 12 agosto del 1933 guidò la trasvolata di 25[9] idrovolanti S.55X[10] partiti da Orbetello verso il Canada e con destinazione finale gli Stati Uniti.

    La traversata di andata approdò in Islanda, proseguendo poi verso le coste del Labrador. Il governatore dell'Illinois, il sindaco e la città di Chicago riservarono ai trasvolatori un'accoglienza trionfale ed a Balbo venne intitolata una strada, tutt'oggi esistente, in prossimità del lago Michigan, la Balbo Avenue (ex-7th Avenue). I Sioux presenti all'Esposizione di Chicago lo nominarono capo indiano con il nome di Capo Aquila Volante. In quell'epoca infatti i rapporti fra Italia e USA erano ottimi e quest'impresa fu molto seguita e considerata straordinaria.

    Il volo di ritorno proseguì per New York, dove venne organizzata in suo onore e degli altri equipaggi una grande ticker-tape parade, secondo italiano dopo Diaz ad essere acclamato per le strade di New York, ed intitolato a Balbo uno dei suoi viali. Il presidente Roosevelt lo ebbe ospite.

    Di ritorno in Italia, venne nominato Maresciallo dell'Aria. Dopo questo episodio il termine Balbo divenne di uso comune per descrivere una qualsiasi formazione numerosa di aeroplani. Meno noto è che negli Stati Uniti il termine "balbo" sia utilizzato anche per indicare il pizzo lungo con baffi[11].

    Al di là di queste imprese, Balbo dispiegò grande energia nell'imporre disciplina e rigore alla neonata Regia Aeronautica, accantonando gli aspetti romantici ed individualistici dell'aviazione pionieristica ed indirizzandola piuttosto a formare una Forza Armata coesa e disciplinata. I voli transoceanici in formazione furono un esempio di tale indirizzo: non più imprese individuali, ma di gruppo e minuziosamente programmate e studiate. È da rilevare che se Balbo avallò le idee di Giulio Douhet sull'aviazione strategica, nel contempo sostenne fattivamente la costituzione dello Stormo d'assalto sotto il comando di Amedeo Mecozzi, incoraggiando lo sviluppo dell'aviazione tattica.

    Si oppose invece alla realizzazione di navi portaerei, che riteneva avrebbero sottratto fondi e materiale alla Regia Aeronautica riducendo anche l'indipendenza della neonata Arma Aerea. La mancata realizzazione di portaerei influì negativamente sulle operazioni della Regia Marina nel secondo conflitto mondiale (vedasi battaglia di Capo Matapan), ma sarebbe un errore attribuirne la responsabilità alla sola opposizione di Balbo, vista la posizione conservatrice dei vertici della Regia Marina.
    Raggiunta un'enorme popolarità, Balbo sembrò attrarre a se inimicizie all'interno del partito, dovute principalmente ai rapporti su di lui, che evidenziavano il suo carattere individualista e le sue critiche alla conduzione politica del regime.[senza fonte] Per queste motivazioni pare che Balbo sia stato promosso governatore[14] della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan che, sotto il suo patronato, si fondono nel 1934 in un'unica colonia: la Libia, con gli stessi confini di quella attuale e riprendente il modello di quella dell'imperatore romano Settimio Severo, procedendo poi ad una nuova organizzazione territoriale su province.

    Il 16 gennaio 1934 sbarca a Tripoli e lancia un proclama: «Assumo da oggi, in nome di Sua Maestà, il governo. I miei tre predecessori, Volpi, De Bono, Badoglio, hanno compiuto grandi opere. Mi propongo di seguire le loro orme».

    Balbo dette un fortissimo impulso alla colonizzazione italiana della Libia, organizzando l'afflusso di decine di migliaia di pionieri dall'Italia e seguendo una politica di integrazione e pacificazione con le popolazioni musulmane. Vennero avviati progetti di opere pubbliche e sviluppo della rete stradale e ferroviaria rispettivamente con 4.000 e 400km di nuove strade e ferrovie, in particolare la litoranea che segue il Mediterraneo per centinaia di chilometri e che in suo onore si chiamò Via Balbia.

    Dopo l'invasione tedesca della Polonia nel settembre del 1939, Balbo, in visita a Roma, espresse ripetutamente malcontento e preoccupazione per l'alleanza militare con la Germania (opinione condivisa peraltro nelle fasi iniziali anche da Galeazzo Ciano, Emilio De Bono e Dino Grandi) e per la politica seguita da Mussolini sia sul piano interno che sul piano internazionale[15]. Del resto il suo dissenso nei confronti del Duce si era sempre più acuito a partire dal 1938, quando, in più occasioni, manifestò a Mussolini la sua contrarietà alla promulgazione delle leggi razziali. L'ideologia di Balbo infatti si può considerare antirazzista ed addirittura antinazista
    Il 28 giugno 1940, mentre era di ritorno da una ricognizione di guerra in territorio egiziano, il suo Savoia-Marchetti S.M.79 venne abbattuto dal fuoco amico uccidendolo. Il giorno dopo il bollettino delle Forze Armate diramò il seguente bollettino:
    « Il giorno 28, volando sul cielo di Tobruk, durante un'azione di bombardamento nemica, l'apparecchio pilotato da Italo Balbo è precipitato in fiamme. Italo Balbo e i componenti dell'equipaggio sono periti. Le bandiere delle Forze Armate d'Italia s'inchinano in segno di omaggio e di alto onore alla memoria di Italo Balbo, volontario alpino della guerra mondiale, Quadrumviro della Rivoluzione, trasvolatore dell'Oceano, Maresciallo dell'Aria, caduto al posto di combattimento. »


    L'equipaggio era composto da Ottavio Frailich, Enrico Caretti, Lino Balbo, Claudio Brunelli, Nello Quilici, Gino Cappannini, Cino Florio e il tenente Giuseppe Berti. Il giorno successivo un aereo britannico paracadutò sul campo italiano un biglietto di cordoglio a nome dell'esercito di Sua Maestà:
    « Le forze britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo dell'Aria Italo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che conoscevo personalmente e che il fato pose in campo avversario… Air Officer-Commander-in-Chief British Royal Air Force… Sir Arthur Laymore. »


    Ufficialmente l'incidente venne considerato uno sfortunato caso di fuoco amico, ma la vedova di Balbo, Emanuela Florio, riteneva che si fosse trattato di un assassinio ordinato da Mussolini. Questa ipotesi è liquidata come "stupidaggine" dal capopezzo che abbatté l'aereo di Balbo, Claudio Marzola, imbarcato sull'incrociatore della Regia Marina San Giorgio[17].

    Successivamente è stato definitivamente appurato che Balbo fu abbattuto dalla contraerea italiana di Tobruk per un fatale errore di valutazione, mentre sono totalmente prive di fondamento tutte le altre ipotesi.[18][19]

    Più recentemente una versione sostiene che l'aereo sarebbe stato abbattuto da una raffica sparata dalla torretta del sommergibile posamine italiano Bragadin (proveniente da Napoli) che, nella confusione che seguì l'abbattimento, ripartì dal porto libico la sera stessa, sebbene nessun rapporto ufficiale facesse riferimento alla sua presenza in Libia.





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    Goffredo Mameli (Genova, 5 settembre 1827 – Roma, 6 luglio 1849)


    I genitori erano Giorgio Giovanni, della famiglia aristocratica sarda dei "Mameli" o "Mameli dei Mannelli", sembra originaria di Lanusei nonché Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, aveva percorso tutta la carriera nella marina iniziando da ufficiale, spostandosi per ricoprire la carica a Genova e parlamentare a Torino; la madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini. Giorgio Mameli, il padre, aveva comandato a Genova una squadra della flotta del Regno di Sardegna le cui capitali erano Cagliari e Torino.
    Goffredo Mameli, istruito nelle Scuole Pie di Genova, docente nel collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di 20 anni, delle parole del Canto degl'Italiani (1847), più noto come Inno di Mameli, adottato poi come inno nazionale della Repubblica Italiana, musicato da Michele Novaro. Ma già ai tempi della scuola dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica, intitolati Il giovane crociato, L'ultimo canto, Le vergine e l'amante.
    La lapide dedicata a Mameli alla Trinità dei Pellegrini

    Mameli venne presto conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata degli Austriaci nel 1846.

    Nel marzo 1848 organizzò una spedizione per andare in aiuto a Nino Bixio durante l'insurrezione di Milano e, in virtù di questa impresa coronata da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi con il grado di capitano. In questo periodo compose un secondo canto patriottico, intitolato l'Inno militare musicato da Giuseppe Verdi.[1]

    Tornato a Genova riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando contemporaneamente direttore del giornale Diario del Popolo e senza dimenticare di pubblicizzare le sue idee irredentiste nei confronti dell'Austria.

    La sua opera di patriota venne anche svolta: a Roma, nell'aiuto a Pellegrino Rossi e per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica romana di Mazzini, Armellini e Saffi; e in una campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e Toscana. Nel suo continuo vagabondaggio si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto La Marmora, quindi nuovamente a Roma nella lotta contro le truppe francesi venute in soccorso di Papa Pio IX (che nel frattempo aveva lasciato la città).

    La sua morte avvenne in seguito a delle circostanze accidentali: nella difesa della Villa del Vascello durante la breve Repubblica romana del 1849 fu ferito in maniera non particolarmente grave da un commilitone, con la baionetta, ad una gamba. Morì per la sopravvenuta infezione il 6 luglio 1849 a soli 21 anni, all'ospizio della Trinità dei Pellegrini.






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    Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Isola di Caprera, 2 giugno 1882)



    Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza, città che all'epoca era capoluogo una Contea parte dei domini dei Savoia per sette secoli.
    Nizza fece parte del Primo Impero e tornò al Regno di Sardegna dopo che la ricostituitasi Repubblica di Genova venne annessa al Regno di Sardegna senza il suo volere (Congresso di Vienna 18 luglio 1815) e restò sotto il governo dei Savoia fino al 1860.
    Giuseppe Garibaldi era il secondogenito di Domenico, capitano di cabotaggio immigrato da Chiavari, e Rosa Raimondi, originaria di Loano. Angelo era il nome di suo fratello maggiore, mentre dopo Giuseppe nacquero altri due maschi, Michele e Felice, e due bambine morte in tenera età.

    I genitori avrebbero voluto avviare Giuseppe alla carriera o di avvocato, o di medico o di prete. Ma il figlio amava poco gli studi e prediligeva gli esercizi fisici e la vita di mare, essendo, come lui stesso ebbe a dire, «più amico del divertimento che dello studio». Vedendosi ostacolato dal padre nella sua vocazione marinara, tentò di fuggire per mare verso Genova con alcuni compagni, ma fu fermato e ricondotto a casa. Tuttavia si appassionò all'insegnamento dei suoi primi precettori, soprattutto del signor Arena, reduce delle campagne napoleoniche, che gli impartì lezioni d'italiano e di storia antica. Rimarrà soprattutto affascinato dall'antica Roma.

    Convinto il padre a lasciargli seguire la carriera marittima a Genova, fu iscritto nel registro dei mozzi nel 1821. A sedici anni, nel 1824, si imbarcò sulla Costanza, comandata da Angelo Pesante di Sanremo, che Garibaldi avrebbe in seguito descritto come «il migliore capitano di mare». Nel suo primo viaggio si spinse fino a Odessa nel mar Nero e a Taganrog nel mar d'Azov (entrambe ex colonie genovesi), dove si recherà di nuovo nel 1833 ed incontrerà un patriota mazziniano che lo sensibilizzerà alla causa dell'unità d'Italia. Con il padre, l'anno successivo (1825) si diresse a Roma con un carico di vino, per l'approvvigionamento dei pellegrini venuti per il Giubileo indetto da papa Leone XII.
    Nel 1827 salpò da Nizza con la Cortese per il mar Nero, ma il bastimento fu assalito dai corsari turchi che depredarono la nave, rubando persino i vestiti dei marinai. Il viaggio comunque continuò, e nell'agosto del 1828 Garibaldi sbarcò dalla Cortese a Costantinopoli, dove sarebbe rimasto fino al 1832 a causa della guerra turco-russa, e dove si integrò nella comunità italiana. Secondo le ricerche compiute dalla sua bisnipote diretta Annita Garibaldi,[1] probabilmente frequentò la casa di Calosso - comandante della cavalleria del Sultano col nome di Rustem Bey - e l'ambiente dei genovesi che storicamente erano insediati nel quartiere di Galata e Pera, e si guadagnò da vivere insegnando italiano, francese e matematica.

    Nel febbraio del 1832 gli fu rilasciata la patente di capitano di seconda classe. Subito dopo si reimbarcò con la Clorinda per il mar Nero. Ancora una volta la nave fu presa di mira dai corsari, ma questa volta l'equipaggio accolse gli aggressori a fucilate. Garibaldi fu ferito ad una mano: avrebbe poi ricordato questa scaramuccia come il suo primo combattimento[senza fonte].

    Dopo 13 mesi di navigazione ritornò a Nizza, ma già nel marzo 1833 ripartì per Costantinopoli. All'equipaggio si aggiunsero tredici passeggeri francesi seguaci di Henri de Saint-Simon che andavano in esilio nella capitale Ottomana. Il loro capo era Emile Barrault, professore di retorica che espose le idee sansimoniane all'equipaggio.

    Garibaldi, allora ventiseienne, fu molto influenzato dalle sue parole, ma Anita Garibaldi ipotizza che appare probabile che quelle idee non gli giungessero del tutto nuove, fin da quando aveva soggiornato nell'Impero ottomano, luogo prescelto da tanti profughi politici dell'Europa e percorso esso stesso da fremiti di autonomia e di libertà.
    l bastimento sbarcò i francesi a Costantinopoli e procedette per Taganrog, importante porto russo sul Mar d'Azov. Qui in una locanda, mentre si discuteva, un uomo detto il Credente[3], che era con ogni probabilità il giornalista e scrittore Giovanni Battista Cuneo, espose a Garibaldi le idee mazziniane.

    Le tesi di Giuseppe Mazzini sembrarono a Garibaldi la diretta conseguenza delle idee di Barrault ed egli vide nella lotta per l'Unità d'Italia il momento iniziale della redenzione di tutti i popoli oppressi. Quel viaggio cambiò la vita di Garibaldi; nelle sue Memorie scrisse: «Certo non provò Colombo tanta soddisfazione nella scoperta dell'America, come ne provai io al ritrovare chi s'occupasse della redenzione patria».
    La vita da ricercato [modifica]

    La storia vuole che Giuseppe Garibaldi abbia incontrato Giuseppe Mazzini nel 1833 a Londra, dove quest'ultimo era in esilio protetto dalla massoneria inglese[senza fonte], e che si sia iscritto subito alla Giovine Italia, un'associazione politica segreta il cui scopo era di trasformare l'Italia in una repubblica democratica unitaria.
    Sospinto dall'impegno politico, entrò nella Marina Sabauda per fare propaganda rivoluzionaria. Come marinaio piemontese Garibaldi assunse il nome di battaglia Cleombroto, un eroe tebano, fratello gemello di Pelopida che combatté con Epaminonda contro Sparta. Insieme agli amici Edoardo Mutru e Marco Pe cercò a bordo e a terra di fare proseliti alla causa, esponendosi con leggerezza. I due furono segnalati alla polizia e sorvegliati, e per questo vennero trasferiti sulla fregata Conte de Geneys in partenza per il Brasile.

    Nel frattempo si era stabilito che l'11 febbraio 1834 ci sarebbe stata un'insurrezione popolare in Piemonte. Garibaldi scese a terra per mettersi in contatto con i mazziniani; ma il fallimento della rivolta in Savoia e l'allerta di esercito e polizia fecero fallire tutto. Il nizzardo non ritornò a bordo della Conte de Geneys, divenendo in pratica un disertore, e questa latitanza venne considerata come un'ammissione di colpa. Indicato come uno dei capi della cospirazione, fu condannato alla pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della Patria e dello Stato.

    Garibaldi divenne così un ricercato: si rifugiò prima a Nizza e poi varcò il confine giungendo a Marsiglia, ospite dell'amico Giuseppe Pares. Per non destare sospetti assunse il nome fittizio di Joseph Pane e a luglio si imbarcò alla volta del mar Nero, mentre nel marzo del 1835 fu in Tunisia. Il nizzardo rimase in contatto con l'associazione mazziniana tramite Luigi Cannessa e nel giugno 1835 venne iniziato alla Giovine Europa, prendendo come nome di battaglia Borrel in ricordo di Joseph Borrel, uno dei patrioti fucilati dall'esercito piemontese dopo la fallita invasione della Savoia del 3 febbraio 1834.

    Garibaldi decise quindi di partire alla volta del Sud America con l'intenzione di propagandare gli ideali mazziniani. L'8 settembre 1835 partì da Marsiglia sul brigantino Nautonnier.
    L'esilio in Sud America [modifica]

    Tra il dicembre 1835 ed il 1848 Garibaldi trascorse un lungo esilio in Sud America. Prima a Rio de Janeiro, accolto dalla piccola comunità di italiani aderenti alla Giovine Italia.
    Poi, il 4 maggio 1837, ottenne una 'patente di corsa' dal governo della Repubblica Riograndense (Rio Grande do Sul), ribelle all'autorità dell'Impero del Brasile, e prese a sfidare un impero con il suo peschereccio, battezzato Mazzini.

    Dopo molti episodi, inclusa una fuga in Uruguay, e poi a Gualeguay, in Argentina, prese parte alle sue prime battaglie sulla terraferma. L'11 aprile 1838 respinse un intero battaglione dell'esercito imperiale brasiliano ("Battaglia del Galpon de Xarqueada"). Partecipò, quindi, alla campagna che portò alla presa di Laguna, capitale dell'attigua provincia di Santa Caterina, il 25 luglio 1839.
    Il 15 novembre l'esercito imperiale riconquistò la città e i repubblicani ripararono sugli altipiani, ove si svolsero battaglie che ebbero esiti alterni. In particolare, Garibaldi fu impegnato per la prima volta in un combattimento esclusivamente terrestre, nei pressi di Forquillas: attaccò con i suoi marinai il nemico e lo costrinse alla ritirata.
    « Garibaldi è un uomo capace di trionfare in qualsiasi impresa. »

    (Alessandro Walewski da J. Duprey, Un fils de Napoleón dans les pays de la Plata au temps de Rosas, Parigi-Montevideo 1937, p. 164.)

    Sconfitta la ribellione separatista, nel 1842 Garibaldi riparò in Uruguay, dove comandò la flotta uruguaiana in una battaglia navale contro gli argentini e partecipò quindi alla difesa di Montevideo con i suoi volontari, tutti vestiti con camicie rosse.[4] Qui sposò nel 1842 Ana Maria de Jesus Ribeiro, passata alla storia - e quasi alla leggenda - del Risorgimento italiano con il vezzeggiativo di "Anita".

    Giuseppe ed Anita si erano conosciuti a Laguna nel 1839, quando la giovane donna aveva diciotto anni ed era sposata (o fidanzata: la cosa non è storicamente chiarita) a un calzolaio. In circostanze che lo stesso Garibaldi nelle sue Memorie tenne volutamente ambigue, Anita abbandonò il marito (o fidanzato che fosse) probabilmente il giorno stesso in cui incontrò il capitano corsaro. È spesso raccontato il fatto che Anita, abile cavallerizza, insegnò a cavalcare al marinaio italiano, fino ad allora del tutto inesperto di equitazione. Giuseppe a sua volta la istruì, per volontà o per necessità, ai rudimenti della vita militare.

    Garibaldi e Anita ebbero quattro figli, tra i quali una femmina che morì durante un'epidemia di vaiolo. Garibaldi rientrò in Italia nel 1848, poco dopo lo scoppio della prima guerra di indipendenza. Qualche mese prima della sua partenza aveva fatto imbarcare Anita e i tre figli su una nave diretta a Nizza, dove furono affidati per qualche tempo alle cure della famiglia di lui.
    Tornato dunque in Europa per partecipare alla prima guerra di indipendenza contro gli austriaci, Garibaldi si recò il 5 luglio a Roverbella, nei pressi di Mantova, per offrirsi volontario al re Carlo Alberto che, avvertito dai consiglieri della sua partecipazione all'insurrezione di Genova, lo respinse.[senza fonte]

    Partecipò comunque alla guerra come volontario al servizio del governo provvisorio di Milano. Con la Legione che aveva organizzato ottenne due piccoli successi tattici, sugli Austriaci del d'Aspre, a Luino e Morazzone.
    Dopo la sconfitta piemontese di Novara (22-23 marzo 1849), Garibaldi partecipò ai combattimenti in difesa della Repubblica Romana, minacciata dalle truppe francesi e napoletane che difendevano gli interessi del papa Pio IX.
    Nonostante i numerosi atti d'eroismo dei patrioti e la strenua opera di difesa organizzata da Garibaldi, l'enorme superiorità numerica dell'esercito francese e di quello napoletano ebbe alla fine la meglio. Roma cadde e Garibaldi, con i suoi, fu costretto alla fuga, che è passata alla storia come "la trafila", una disperata corsa per mezza Italia nel tentativo di raggiungere Venezia, ultimo baluardo liberale delle insurrezioni del '48, dove la Repubblica di San Marco di Daniele Manin avrebbe tenacemente resistito fino all'agosto del '49 alla riconquista austriaca.

    La "trafila" rappresentò una delle pagine più drammatiche e dolorose di tutta l'avventura terrena di Garibaldi. Rimasto solo con Anita incinta e con il fedelissimo "Leggero", braccati com'erano dalla polizia papalina e, ancora una volta, dalle truppe del tenente-feldmaresciallo d'Aspre, che comandava il corpo di occupazione austriaco in Toscana, Garibaldi perse la moglie, che morì nelle paludi delle Valli di Comacchio, spossata dalla fuga e dalla gravidanza.

    Al pianto disperato di Garibaldi, che non voleva abbandonare il cadavere della donna, "Leggero" lo avrebbe sollecitato a proseguire la fuga e a mettersi in salvo dicendogli: «Generale, per i vostri figli, per l'Italia...»

    Alla fine, Garibaldi riuscì a fuggire entrando nel Granducato di Toscana, il cui confine correva tra Forlì e Castrocaro, giungendo infine in Liguria, nel Regno di Sardegna. Qui venne invitato a non fermarsi ed imbarcato per la Tunisia, dove gli fu impedito di sbarcare e, quindi, momentaneamente alloggiato nell'isola della Maddalena, ospite del sindaco per una ventina di giorni. Il governo piemontese, tuttavia, non vedeva l'ora di sbarazzarsi dell'ingombrante figura di Garibaldi e, sul brigantino da guerra Colombo, lo trasferì a Gibilterra, dove il governatore inglese gli concesse di sbarcare, però intimandogli di ripartire entro 10 giorni.

    L'Eroe dei due mondi decise di stabilirsi a Tangeri, accompagnato dagli ufficiali "Leggero" e Luigi Cocelli, accettando l'ospitalità dell'ambasciatore piemontese in Marocco Giovan Battista Carpenetti. Passati lì sei mesi, s'imbarcò per New York (agosto 1850) dove lavorò nella fabbrica di candele di Antonio Meucci. Dopodiché si trasferì in Perù dove cercò un ingaggio come capitano di mare.
    Garibaldi tornò in Italia nel 1854. Comprò metà dell'isola di Caprera (isola dell'arcipelago sardo di La Maddalena) con un'eredità di 35 mila lire. Partendo dalla casa di un pastore costruì, insieme a 30 amici, una fattoria.

    Si mise a fare il contadino, il fabbro e l'allevatore: possedeva un uliveto con circa 100 alberi d'ulivo, si occupava di un vigneto con cui produceva vino e allevava 150 bovini, 400 polli, 200 capre, 50 maiali e più di 60 asini[5].

    Cinque anni dopo partecipò alla seconda guerra d'indipendenza (maggio-giugno 1859) guidando in una brillante campagna nella Lombardia settentrionale, i Cacciatori delle Alpi. Dopo aver sconfitto gli austriaci nella battaglia di San Fermo occupò la città di Como.
    In seguito alla vittoria dei franco-piemontesi sull'esercito austriaco, i piemontesi occuparono militarmente la Legazione delle Romagne [6]. Vittorio Emanuele incaricò Garibaldi di controllare il confine tra il Riminese ed il Pesarese, dove cominciava lo Stato della Chiesa. Garibaldi andò oltre i propri compiti, profondendosi nell'attacco di Marche e Umbria. L'iniziativa era prematura ed improvvida (assente il consenso di Napoleone III) e venne bloccata dal generale Manfredo Fanti. Per evitare di creare imbarazzi al governo torinese, Garibaldi fu convinto a dimettersi dal comando in seconda della Lega dell'Italia Centrale.
    Nel 1860 Garibaldi organizzò una spedizione per conquistare il Regno delle Due Sicilie.
    La stele commemorativa dell'impresa dei Mille sullo scoglio da cui partì la spedizione, a Genova-Quarto

    Raccolto un corpo di spedizione composto da circa mille uomini (le Camicie rosse), Garibaldi raggiunse via mare la Sicilia partendo da Quarto, presso Genova con due piroscafi: il Piemonte e il Lombardo. Approdò a Talamone per rifornirsi di armi. Successivamente sbarcò nel porto di Marsala proclamandosi dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, da lui appellato re d'Italia[7].

    Dopo lo sbarco sull'isola, il 14 maggio si diresse verso Salemi dove venne accolto con grande entusiasmo dalla popolazione. Grazie all'aiuto del barone di Alcamo che si era unito con una banda di picciotti assunse il dominio in nome di Vittorio Emanuele II Re d'Italia. In quell'occasione l'Eroe dei Due Mondi issò personalmente sulla cima di una delle tre torri del castello Arabo-Normanno la bandiera tricolore proclamando Salemi la prima capitale d'Italia, titolo che mantenne per un giorno.
    La casa della famiglia Fasanelli, che ospitò Garibaldi a Rotonda

    In seguito, rinforzato da alcune centinaia di volontari vinse contro le truppe borboniche a Calatafimi, dopo il loro abbandono del campo di battaglia per ragioni poco chiare.

    Dopo una avventurosa marcia tutto attorno Palermo, il 27 maggio diede l'assalto alla città, da Porta Termini: assalì le carceri lasciate indifese e liberò i detenuti, dei quali molti si unirono a lui e con le famiglie delle borgate povere della città dettero vita ad una insurrezione popolare, tanto che i borbonici reagirono bombardando i quartieri ribelli. La guarnigione del Regno delle Due Sicilie accettò un armistizio che consentì loro di imbarcarsi e fare ritorno sul continente.

    Vinta la resistenza della piazzaforte di Milazzo, il suo luogotenente Nino Bixio, giustiziò per brigantaggio 5 persone sommariamente processate a Bronte [8]. Il 20 luglio, venne pattuita una lunga tregua con la guarnigione di Messina, che accettava di non infastidire i volontari, a condizione di mantenere il controllo della cittadella.
    Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860 (Napoli, Museo civico di Castel Nuovo)

    Il 19 agosto i garibaldini sbarcarono in Calabria a Melito, quindi aggirarono e sconfissero i borbonici a Reggio Calabria il 21 agosto. Il 2 settembre i Mille arrivarono in Basilicata (la prima provincia continentale del regno ad insorgere contro i Borboni),[9] passando per Rotonda (dove Garibaldi sostò per una notte), Tortora (in territorio calabrese) per poi ritornare nei confini lucani a Maratea e Lagonegro. Grazie al sostegno dei filomazziniani Giacinto Albini e Pietro Lacava, Garibaldi non incontrò grossi problemi in terra lucana.

    Lasciata la Basilicata, approdò in Campania attraverso Vibonati , Sala Consilina, entrò ad Eboli il 6 settembre e cominciò una rapida marcia verso nord, che si concluse, il 7 settembre, con l'ingresso in Napoli. La capitale era stata abbandonata dal re Francesco II, che aveva spostato l'esercito a nord del fiume Volturno. La battaglia del Volturno fu la più brillante tra quelle combattute da Garibaldi in questa campagna: il 1-2 ottobre le forze garibaldine respinsero brillantemente l'attacco dell'esercito borbonico, riorganizzato a nord di Napoli da Francesco II, dopo gli sbandamenti successivi a Milazzo.

    Anche se Francesco II aveva perso le speranze di recuperare Napoli, Garibaldi non disponeva delle forze necessarie a condurre l'assedio delle fortezze in cui l'esercito sconfitto si era ritirato (Capua e, soprattutto, Gaeta). Fu quindi risolutivo l'arrivo dell'esercito del Regno di Sardegna, guidato da Manfredo Fanti e da Enrico Cialdini.

    Garibaldi incontrò Vittorio Emanuele II il 26 ottobre 1860, A Teano Ponte S. Nicola e gli consegnò la sovranità sul Regno delle Due Sicilie. Garibaldi accompagnò poi il re a Napoli il 7 novembre e, il giorno seguente, si ritirò nell'isola di Caprera, rifiutando di accettare qualsiasi ricompensa per i suoi servigi.
    Per l'intera esistenza Garibaldi colse ogni occasione per liberare Roma dal potere temporale, cacciandone, se possibile, il papa. Egli era infatti un convinto anticlericale:
    « Se sorgesse una società del demonio, che combattesse despoti e preti, mi arruolerei nelle sue file »

    (Giuseppe Garibaldi, Memorie, BUR)

    L'odio verso il papato e il clero e, in particolare, verso Pio IX è testimoniato dal nome che Garibaldi diede al proprio asino, "Pionono" e dal fatto che egli si riferisse al pontefice usando la locuzione «un metro cubo di letame», oppure con la frase
    « la più nociva fra le creature, perché egli, più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza fra gli uomini e popoli »

    (Giuseppe Garibaldi, Memorie, BUR)

    Al primo tentativo della Repubblica Romana del 1849 era legata la morte della moglie Anita. La spedizione dei Mille avrebbe avuto come obiettivo, nelle sue intenzioni, non Napoli ma Roma, ma vi fu impedito dalla resistenza dell'esercito borbonico durante l'assedio di Gaeta e dalle considerazioni politiche del governo sardo.

    Garibaldi aveva in ogni caso ottenuto un incredibile successo e su quell'onda, nel 1862, organizzò una nuova spedizione: imbarcatosi a Caprera, raggiunse Palermo, ove venne accolto dal tripudio popolare. Attraversò indisturbato la Sicilia raccogliendo volontari e passò lo Stretto da Giardini Naxos dove aveva trascorso la notte presso la famiglia Carrozza.

    Napoleone III, l'unico alleato del neonato Regno d'Italia, aveva posto Roma sotto la propria protezione ed il tentativo era, quindi, destinato a fallire. Esso mise, comunque, in grave imbarazzo il governo italiano, che stabilì di fermare Garibaldi in Calabria, schierando contro di lui l'esercito regolare.

    Garibaldi, probabilmente, contava sul proprio prestigio per avanzare indisturbato, certamente cercò di evitare lo scontro, passando per una via discosta nel cuore della montagna dell'Aspromonte [senza fonte]. Venne comunque intercettato, i bersaglieri aprirono il fuoco e parimenti risposero alcune camicie rosse.

    Garibaldi si interpose, gridando ai suoi di non sparare, venne ferito all'anca e al piede sinistro. Cadde e lo scontro a fuoco cessò. L'episodio della sua ferita sarà ricordato in una celebre ballata popolare su un ritmo di una marcia dei bersaglieri.[10]

    La cosiddetta giornata dell'Aspromonte fruttò al generale l'arresto. Il 2 settembre Garibaldi venne trasportato alla Spezia e rinchiuso nel carcere del Varignano. Il 20 novembre Garibaldi venne trasportato a Pisa dove fu visitato dal professor Paolo Tassinari e il 23 il professor Ferdinando Zannetti lo operò per estrarre la palla di fucile.

    Che il tentativo del 1862 fosse velleitario, lo provarono i successivi eventi del 1867. Garibaldi organizzò una terza spedizione su Roma, partita questa volta da Terni, ai confini con lo Stato Pontificio riconosciuta come "Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma" con circa 10.000 volontari al suo inizio al comando del figlio primogenito Menotti: prese il 26 ottobre 1867 la piazzaforte pontificia di Monterotondo, ma non riuscì a suscitare la rivoluzione in Roma malgrado il sacrificio dei fratelli Cairoli (Villa Glori) e il sacrificio a Roma della Tavani Arquati e di Monti e Tognetti decapitati nel 1868. Garibaldi venne sconfitto dalle truppe del papa e dai rinforzi francesi dotati del fucile Chassepot a retrocarica inviati da Napoleone III alla battaglia di Mentana. I Francesi erano sul punto di catturare Garibaldi, ma l'Eroe dei Due Mondi venne salvato da Francesco Crispi, che raggiunse la stazione di Monterotondo in territorio italiano e riuscì a scortarlo in treno fino a Figline dove fu nuovamente arrestato.
    La guerra di secessione americana [modifica]

    Nella primavera del 1861 il colonnello Candido Augusto Vecchi, del seguito di Garibaldi, scrisse al giornalista americano Theodore Tuckermann esponendo la simpatia di Garibaldi per l'Unione. L'ambasciatore U.S.A. a Torino, G.P.Marsh, tastò il terreno per una partecipazione dell'eroe alla guerra di secessione americana in qualità di comandante di divisione. Lo stesso Garibaldi rivelò nel 1868 che Lincoln gli avrebbe offerto 40mila dollari per convincerlo a prendere il comando delle forze unioniste.[senza fonte]

    Garibaldi non volle impegnarsi, ufficialmente poiché voleva un impegno deciso per l'emancipazione degli schiavi, o addirittura perché disponibile solo per il comando supremo. Ma, in effetti, perché assai speranzoso di una imminente iniziativa di Vittorio Emanuele su Roma o il Veneto. Con queste premesse, la trattativa si arenò. Nell'autunno del 1862 Canisius, console U.S.A. a Vienna, riprese i contatti; tuttavia Garibaldi, ferito e reduce dall'Aspromonte, si trovava detenuto a Varignano: in caso di accettazione si sarebbe prospettato un delicato caso diplomatico.

    Seguirono passi da parte di Seward, segretario di stato di Abraham Lincoln, per far decadere senza esito la proposta
    All'inizio della Terza guerra di indipendenza italiana venne riorganizzato il corpo volontario denominato Corpo Volontari Italiani, ancora una volta al comando del Garibaldi. Anche la missione era simile a quella condotta fra i laghi lombardi nel 1848 e nel 1859: agire in una zona di operazioni secondaria, le prealpi tra Brescia ed il Trentino, ad ovest del Lago di Garda, con l'importante obiettivo strategico di tagliare la via fra il Tirolo e la fortezza austriaca di Verona. Ciò avrebbe lasciato agli Austriaci la sola via di Tarvisio per approvvigionare le proprie forze e fortezze fra Mantova ed Udine. L'azione strategica principale era, invece, affidata ai due grandi eserciti di pianura, affidati a La Marmora ed a Cialdini.

    Garibaldi operò inizialmente a copertura di Brescia, per poi passare decisamente all'offensiva a Ponte Caffaro il 25 giugno 1866. Il 3 luglio a Monte Suello costrinse al ripiegamento gli austriaci, ma riportò una ferita alla coscia per un maldestro colpo partito ad un suo volontario. Si aprì, con la vittoria nella battaglia di Bezzecca e Cimego del 21 luglio, la strada verso Riva del Garda e quindi l'imminente occupazione della città di Trento. Salvo essere fermato dalla firma dell'armistizio di Cormons. In quest'occasione, ricevuta la notizia dell'armistizio e l'ordine di abbandonare il territorio occupato, rispose telegraficamente "Obbedisco", parola che successivamente divenne motto del Risorgimento italiano e simbolo della disciplina e dedizione di Garibaldi.

    Il telegramma fu inviato dal garibaldino marignanese Respicio Olmeda in Bilancioni il 9 agosto 1866 da Bezzecca, evento ricordato su una lapide collocata sulla facciata della sua casa natale a San Giovanni in Marignano (RN).
    Durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871, Garibaldi guidò un esercito di volontari a sostegno dell'esercito della nuova Francia repubblicana (battaglia di Digione). Dopo la resa francese, nel 1871 Garibaldi prese posizione in favore della Comune di Parigi e dell'Internazionale Socialista e fu eletto deputato alla nuova Assemblea Nazionale francese nelle liste dei repubblicani radicali come deputato della Côte-d'Or, Paris, Algeri e, naturalmente, Nizza: questa quadruplice elezione fu, tuttavia, invalidata dall'Assemblea, col pretesto della contrarietà di Garibaldi all’annessione della Contea di Nizza alla Francia.

    Peraltro questa fu la motivazione ufficiale; più realisticamente l'annullamento dell'elezione di Garibaldi fu motivato dalla paura della sua popolarità come eroe "socialista": la stessa assemblea, d'altra parte, si sarebbe presto occupata della repressione della Comune di Parigi. L'atteggiamento dell'Assemblea verso Garibaldi spinse alle dimissioni un deputato del calibro di Victor Hugo.
    Nel 1871 viene promossa da Garibaldi la prima società in Italia per la protezione degli animali: la Regia società torinese protettrice degli animali[12] (oggi ENPA), contro i maltrattamenti che gli animali subivano sia in campagna sia in città, specie da parte dei guardiani e dei conducenti.[13]

    Affermava Garibaldi: «Proteggere gli animali contro la crudeltà degli uomini, dar loro da mangiare se hanno fame, da bere se hanno sete, correre in loro aiuto se estenuati da fatica o malattia, questa è la più bella virtù del forte verso il debole»
    Nel 1880 ufficializza la sua unione con la piemontese Francesca Armosino, sua compagna da 14 anni e dalla quale ebbe tre figli; di cui la prima Clelia Garibaldi, dedicherà alla sua memoria l'intera sua vita e racconterà in un libro Mio padre gli ultimi anni della sua vita in cui l'eroe dei due mondi si trasforma da condottiero a padre amorevole e marito affettuoso. Fu affetto negli ultimi anni di vita da una grave forma di artrite che lo costringeva su una poltrona a rotelle.
    La famiglia Garibaldi nel 1878.

    La sua ultima campagna politica riguardò l'allargamento del diritto di voto, nella quale impegnò l'immenso prestigio e la fama mondiale conquistate con le sue incredibili vittorie. Accentuò inoltre la polemica anticristiana intervenendo, come ospite d'onore, a varie riunioni della Società Nazionale Anticlericale.

    Si era auto-esiliato nell'Italia che egli aveva costruito perché il Regno d'Italia, vista la sua esuberanza e il suo carattere fieramente indipendente, lo aveva preferito in disparte. Morì a Caprera il 2 giugno 1882 alle ore 18:20 per una paralisi della faringe che gli impedì di respirare, con lo sguardo rivolto intenzionalmente verso la Corsica. Nel testamento, una copia del quale è esposta nella casa-museo sull'isola di Caprera, Garibaldi chiedeva espressamente la cremazione delle proprie spoglie. Desiderio disatteso dalla famiglia, pare pressata da Francesco Crispi, che preferì, addirittura, farlo imbalsamare. Attualmente la salma giace a Caprera in un sepolcro chiuso da una massiccia pietra grezza di granito. Sembra che negli anni trenta sia stata effettuata una ricognizione della salma, che sarebbe stata trovata in perfetto stato di conservazione








     
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    I Caduti di Cefalonia


    L'eccidio di Cefalonia fu compiuto da reparti dell'esercito tedesco in danno dei soldati italiani presenti su quelle isole alla data dell'8 settembre 1943, giorno in cui fu reso pubblico l'armistizio di Cassibile che sanciva la cessazione delle ostilità tra l'Italia e gli anglo-americani. In massima parte i soldati presenti facevano parte della divisione Acqui, oltre a finanzieri, carabinieri ed elementi della Regia Marina. Analoghi avvenimenti si verificarono a Corfù che ospitava un presidio della stessa divisione Acqui.

    La guarnigione italiana di stanza nell'isola greca si oppose al tentativo di disarmo tedesco, combattendo sul campo per vari giorni con pesanti perdite, fino alla resa, alla quale fecero seguito massacri e rappresaglie nonostante la resa incondizionata avesse fatto cessare ogni resistenza. I superstiti furono quasi tutti deportati verso il continente su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate, con gravissime perdite umane.
    Dopo l'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 a fianco della Germania, Mussolini decise di condurre una "guerra parallela" per non restare indietro di fronte alle vittorie conseguite dalla Wehrmacht. In particolare decise di invadere la Grecia, per cercare di affermare i Balcani come sfera di influenza italiana. La spedizione in Grecia tuttavia non ebbe l'esito previsto, e le operazioni presto si arenarono. L'esercito greco, più determinato e avvantaggiato dal terreno e dalla conoscenza dei luoghi, riuscì anche a respingere profondamente le truppe italiane in territorio albanese. Nella primavera del 1941, comunque, la superiorità in armi e mezzi del Regio Esercito, unita all'attacco tedesco in Tracia, fece collassare le difese elleniche, costringendo così alla resa gli uomini del generale Papagos. La Grecia fu così sottoposta a occupazione, spartizione e controllo bipartito italotedesco. Agli italiani, in particolare, venne assegnato il controllo delle Isole Ionie ma guarnigioni tedesche erano dislocate in punti strategici a rinforzo dello schieramento italiano.
    Strategicamente molto importanti, le isole di Corfù, Zante e Cefalonia presidiavano l'accesso a Patrasso e al Golfo di Corinto[1]. La 33ª Divisione fanteria "Acqui" del generale Antonio Gandin fu stanziata nelle isole, col grosso, composto dal 17º e 317º reggimento fanteria (giunto a Cefalonia nel maggio 1942), dal 33º reggimento artiglieria, dal comando e dai servizi divisionali a Cefalonia e il 18º reggimento fanteria a presidio di Corfù[1].

    A Cefalonia oltre alla Acqui era presente la 2ª Compagnia del VII Battaglione Carabinieri Mobilitato più la 27ª Sezione Mista Carabinieri, da reparti del I° Battaglione finanzieri mobilitato, dai marinai che presidiavano le batterie costiere (una da 152 mm ed una da 120 mm) ed il locale Comando Marina, dal 110º Battaglione mitraglieri di corpo d'armata, tre ospedali da campo ed altre unità tra le quali il 188º Gruppo artiglieria di corpo d'armata (con tre batterie da 155/14) ed il 3º Gruppo contraereo da 75/27, per un totale di circa 12.000 uomini. Fino a fine agosto, organica alla divisione era anche la 27ª Legione CC.NN. d'Assalto, che aveva sostituito la 18ª Legione già con la Acqui durante la campagna di Grecia[2], ma la caduta del fascismo ne comportò il richiamo in patria.
    Le batterie di artiglieria in funzione antinave, armate con pezzi di preda bellica tedesca di provenienza francese e belga, ma affidate a personale italiano della Regia Marina, furono dislocate sulle coste dell'isola ed in particolare nella penisola di Paliki e nei pressi di Argostoli[3]. I reparti presenti a Cefalonia dipendevano dall'VIII corpo d'armata, a difesa dell'Etolia-Acarnaia, mentre il 18º reggimento dipendeva dal XXVI corpo d'armata dispiegato in Epiro ed Albania[4]. Questi due corpi d'armata comprendevano forze italotedesche in Grecia ed erano inquadrati sotto la 11ª armata con comando ad Atene, dipendente a sua volta dallo Heeresgruppe E tedesco; l'armata in quel momento era comandata dal generale Carlo Vecchiarelli[5]. In questa stessa armata erano inquadrate la 104. Jäger-Division (VII corpo d'armata) e 1. Gebirgs-Division (XXVI corpo d'armata) che prenderanno parte ai successivi avvenimenti.

    Progressivamente i tedeschi dispiegarono un loro presidio composto dal 966º Reggimento Granatieri da fortezza su due battaglioni (909º e 910º), al comando dell'oberstleutnant (tenente colonnello) Hans Barge, e dalla 2ª batteria del 201º Battaglione Semoventi d'assalto[5], composta da otto StuG III con cannone da 75 mm, più uno StuH42 da 105 mm. Questi ultimi si posizionarono insieme ad una compagnia del 909º nel pieno centro di Argostoli, il capoluogo dell'isola[6]. L'operazione tedesca faceva parte di una progressiva manovra di "incapsulamento" dei reparti dell'11ª Armata di stanza in Grecia, per prevenire eventuali defezioni o cedimenti in caso di sbarco angloamericano.

    La Acqui era composta da personale inesperto, come il 317º Reggimento neocostituito e composto da personale richiamato o che non combatteva da due anni come il 17º fanteria e il 33º artiglieria che avevano preso parte alla campagna di Grecia, mentre il 966º Reggimento tedesco era forte di circa 1.800 uomini[7]. Lo svantaggio italiano si faceva anche sentire a livello di artiglieria, dove i pezzi, tranne quelli di preda bellica e i 75/27 contraerei, erano quasi tutti obsoleti. Praticamente assente era la Regia Aeronautica, mentre la Regia Marina - oltre a reparti di terra - aveva solo unità di naviglio sottile, tra cui alcuni MAS e dragamine.
    Nei primi mesi del 1943 la convivenza tra italiani e tedeschi nell'isola fu buona e vennero anche svolte esercitazioni comuni di difesa; le cose cambiarono l'8 settembre di quello stesso anno quando venne reso noto che il governo Badoglio aveva firmato un armistizio con i britannici e gli statunitensi.
    Le prime reazioni da parte della Divisione Acqui furono di grande stupore ma anche di gioia, nell'illusione che la guerra stesse per finire. Dopo i festeggiamenti, comunque, alle 20:15 vengono mandate fuori le pattuglie di vigilanza[8]. Un atto ostile viene compiuto dai tedeschi quando uno dei semoventi ad Argostoli punta il suo cannone contro il dragamine Patrizia, all'ancora, che per risposta punta a sua volta le mitragliere di bordo[9].

    Alle 21:30 dell'8 settembre il generale Vecchiarelli (come comandante dell'11ª armata) inviò un messaggio a Gandin che testualmente riportava[10]:
    « Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11ª armata seguiranno seguente linea condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Firmato generale Vecchiarelli »


    I tedeschi avevano comunque iniziato l'attuazione dell'Operazione Achse, consistente nel disarmo forzoso ed internamento delle truppe italiane. Poco dopo le 22:30, viene ricevuto l'ordine per le navi presenti ed in grado di muoversi di raggiungere immediatamente Brindisi, ancora in mano agli italiani
    Secondo gli ordini di Gandin della sera prima, il II battaglione del 17º reggimento, in riserva a Mazarakata, insieme a tre batterie del 33º reggimento, venne spostato ad Argostoli a protezione del quartier generale; le tre batterie sono la 1ª da 100/17 comandata dal capitano Amos Pampaloni, la 3ª da 100/17 del capitano Renzo Apollonio e la 5ª da 75/13 del capitano Abele Ambrosini[12]. Gandin inviò anche una compagnia di fanteria, l'11ª del 17º comandata dal capitano Pantano, a presidiare il bivio di Kardakata, posizione strategicamente importante in quanto situata su delle alture che dominano le coste ad est dell'isola[13]. Alle 5 del mattino, una autocolonna tedesca con vari plotoni di rinforzo proveniente da Lixuri, la parte nord dell'isola dove era acquartierato il grosso del 966º, tentò di passare; gli italiani puntarono le armi costringendo i tedeschi a tornare indietro. Alle 7 una colonna di rifornimenti scortata da cannoni anticarro venne bloccata alla periferia di Argostoli dai cannoni della 3ª batteria, ma il comando di divisione ordina poi di lasciarli passare[13]. Alle 9 Gandin ricevette il tenente colonnello Barge per discutere della situazione. Il tedesco chiese di ottemperare alle disposizioni di Vecchiarelli, che sono arrivate anche ai reparti tedeschi della 11ª armata, relative alla non belligeranza contro i tedeschi. Alle 09:50 venne ricevuto un ulteriore dispaccio, sempre da parte del comando di Atene, in cui si ordinava di cedere tutte le armi collettive a disposizione[14]:
    « Seguito mio ordine dell'8 corrente. . Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino a cambio con reparti tedeschi non oltre però ore 10 giorno 10 ... Siano lasciate ai reparti tedeschi subentranti armi collettive e tutte artiglierie con relativo munizionamento ... Consegna armi collettive per tutte Forze Armate Italiane in Grecia avrà inizio a richiesta Comandi tedeschi a partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli »


    Sulla base di questo messaggio iniziarono a manifestarsi tra gli ufficiali diverse correnti di pensiero sulla linea di condotta da tenere, con alcuni decisamente antitedeschi ed altri (i tenenti colonnelli Uggè e Sebastiani) che invece ritennero di dover continuare a combattere insieme ai tedeschi. In mezzo, molti altri vorrebbero la cessione delle armi ai tedeschi e ritengono impraticabile una seria resistenza
    La discussione tra i soldati italiani sul da farsi ferve, anche a causa di volantini diffusi dalla resistenza greca che riportano: "Soldati italiani! È giunta l'ora di combattere contro i tedeschi! I patrioti ellenici sono al vostro fianco Viva l'Italia libera! Viva la Grecia libera!"[16]. In realtà i patrioti ellenici, pur facendosi consegnare armi a questo scopo, non daranno nessun appoggio alla lotta, come gli italiani scopriranno a loro spese. Nel frattempo il comando e la truppa della Acqui vengono informati dal sergente Baldessari, proveniente dal presidio di Santa Maura che il presidio è stato catturato dai tedeschi, ed il suo comandante colonnello Ottalevi e due ufficiali sono stati uccisi. Secondo alcuni i tedeschi richiesero la consegna delle armi individuali dopo aver ottenuto la consegna delle armi pesanti[17] mentre secondo altre i tedeschi furono "provocati"[18]

    Durante l'incontro tra Gandin e Barge entrambe le parti prendono tempo; da parte italiana si aspetta un chiarificarsi della situazione ed istruzioni dettagliate dal Comando Supremo con possibili rinforzi ignorando che lo stesso Comando non è in grado di operare per la fuga a Brindisi del re Vittorio Emanuele III e dello stato maggiore, mentre i tedeschi cercano ancora di ottenere il disarmo in modo incruento. I tedeschi però programmano comunque la fucilazione degli eventuali resistenti: un telegramma dello Heeresgruppe E ai comandanti delle grandi unità dipendenti dice testualmente[19]
    « Dove vi sono reparti italiani o nuclei armati che oppongono resistenza bisogna dare un ultimatum a breve scadenza. Nell'occasione occorrerà dire con veemenza che gli ufficiali responsabili di questo tipo di resistenza verranno fucilati quali franchi tiratori se, alla scadenza dell'ultimatum, non avranno dato alle loro truppe l'ordine di consegnare le armi. »


    Ma tra le truppe italiane molti soldati e anche vari ufficiali inferiori sono per la resistenza ai tedeschi, principalmente Apollonio, Pampaloni ed Ambrosini tra gli ufficiali del 33º reggimento artiglieria, manifestando dubbi su Gandin, insignito di croce di ferro dai tedeschi per le sue azioni sul fronte russo e con relazioni personali nell'OKW; anche la quasi totalità dei marinai a cominciare dal loro comandante capitano di fregata Mastrangelo ed i suoi ufficiali[20]. Gandin invece ha valutato che la superiorità numerica locale non compensa la presenza di oltre 300.000 tedeschi tra Epiro e Jugoslavia e la numerosa aviazione germanica e cerca ancora di trattare una resa onorevole, non avendo alcuna evidenza di un possibile aiuto alleato al combattimento o all'evacuazione. Per questo consulta i suoi ufficiali dello stato maggiore e i comandanti di reggimento in merito, alla ricerca di un parere sulla eventuale cessione delle armi; il colonnello Romagnoli, comandante del 33º reggimento artiglieria, e Mastrangelo sono per la resistenza mentre il generale Gherzi, vicecomandante della divisione e comandante della fanteria, il tenente colonnello Fioretti, capo di stato maggiore della divisione, il tenente colonnello Cessari, comandante del 17º reggimento fanteria, e il maggiore Filippini, comandante del genio divisionale, sono per la cessione delle armi pesanti secondo le richieste tedesche
    I tedeschi presentarono un ultimatum in nove punti a firma di Barge, imponendo il disarmo totale della divisione con la consegna delle armi nella piazza centrale di Argostoli entro il 12 settembre alle ore 18 davanti all'intera popolazione (punti 1 e 3), proibendo altresì (punto 5) la consegna di materiale alla "popolazione" greca; il punto 6 minacciava un intervento "senza riguardo" in caso di sabotaggi o violenze contro i tedeschi mentre il punto 7 prometteva genericamente "agli ufficiali e soldati disarmati un trattamento cavalleresco"[21]. Gandin rispose con una lettera con oggetto "Richiesta di chiarimenti" dove tra l'altro sottolineava l'impossibilità di adempiere nei tempi richiesti alla consegna dei materiali. A quel punto la quasi totalità dell'artiglieria della Divisione Acqui (non solo il 33º ma anche l'artiglieria divisionale) e i reparti della Regia Marina, venuta a conoscenza delle condizioni di resa, si rifiutò categoricamente di accettare l'ultimatum, preparando un piano di azione contro i tedeschi, designando gli obiettivi e cercando accordi coi partigiani greci dell'ELAS[22]. La nuova richiesta di Barge, che come unica concessione prevedeva la consegna delle armi in luogo "nelle vicinanze di Argostoli" per evitare il disonore di una resa pubblica, pervenne al quartier generale ma non fa alcun cenno al trasferimento in Italia della divisione[23]. Nella giornata, anche se vi sono dubbi sull'ora dell'esatta ricezione e per alcuni sopravvissuti anche del giorno (il 13 invece dell'11), arriva un radiomessaggio del generale Rossi, vice del capo di stato maggiore generale Ambrosio: "Considerare le truppe tedesche nemiche"[24]. Gandin alle 17 incontrò i sette cappellani della divisione, ai quali illustrò la situazione e chiese anche a loro un parere; tranne uno, tutti invitarono Gandin a cedere le armi. Alle 17:30 Gandin incontrò poi Barge chiedendogli una dilazione fino all'alba; per tranquillizzare i tedeschi che già stavano sbarcando rinforzi nella parte dell'isola vicina alla costa e sotto il loro parziale controllo, propone il ritiro dei reparti che presidiano le alture di Kardakata, dalla quale si dominano le spiagge dove questi reparti sbarcavano e le due strade che lì si incrociavano facendone uno snodo strategico per spostarsi sull'isola[25]. Questo ritiro però non si estende all'artiglieria dislocata sulla penisola di Paliki e presso Fiskardo, le cui batterie saranno quindi sotto la minaccia tedesca senza la protezione della fanteria.

    Nel frattempo i quattro dragamine ancorati a Fiskardo salpano verso l'Italia dopo aver legato il loro comandante; Fioretti e Barge iniziano un lungo colloquio per specificare i dettagli del disarmo.
    In seguito all'ordine di arretramento su Razata inviato al II battaglione del 317º, molti soldati contestano e si rifiutarono di caricare le munizioni sui mezzi e due mitragliatrici vennero puntate sugli autocarri; dopo l'intervento di alcuni ufficiali inferiori, arrivò il maggiore Fanucchi, comandante del battaglione e fu ferito di striscio da un colpo di fucile. Il fatto ebbe l'effetto di placare gli animi e la protesta rientrò. Nel frattempo il piano di sbarazzarsi con la forza dei tedeschi veniva dettagliato e le batterie del 33º entrano in stato di allarme, senza l'avallo del comando di divisione[26]. La stazione radio della Marina si mise in contatto con le forze navali alleate a Malta con un radiogramma in chiaro, che viene intercettato dai tedeschi come tutto il traffico in entrata ed uscita dall'isola. Nella risposta, il comando alleato ricordò (ma il fatto non era a conoscenza dei militari sull'isola) che la corazzata Roma era stata affondata e che i tedeschi dovevano essere considerati come nemici[27]. Esiste un'altra versione, raccontata nel documentario RAI Tragico e glorioso 1943 del 1973, secondo la quale questa informazione sarebbe stata trasmessa dalla sala radio della corazzata Vittorio Veneto sempre a Malta. Le parole usate nel video furono "La Roma è stata affondata; non cedete le armi". I tedeschi nel frattempo annullarono il previsto bombardamento su Argostoli, ma mentre Barge era ancora convinto di poter effettuare il disarmo, le spinte insurrezionali aumentarono di ora in ora; un ufficiale, il capitano Gazzetti, venne ucciso per aver rifiutato di consegnare immediatamente il camion col quale stava trasferendo delle suore ad alcuni marinai che volevano trasportare armi[28].

    Mentre Barge alle 16 riprendeva i colloqui con il comando della Acqui, i tedeschi disarmarono e presero prigioniero il personale delle batterie costiere che da San Giorgio (2ª batteria da 105/28 dell'artiglieria divisionale) e da Chavriata (2ª batteria da 100/27 del 33º reggimento), nella penisola di Paliki, controllavano dal nord la baia di Argostoli e lo stesso comando tedesco a Lixuri[29]. Un semovente tedesco della 201ª batteria punta il suo cannone contro la 3ª batteria, ma immediatamente viene puntato da un pezzo della stessa e dai pezzi della 5ª batteria di Ambrosini e deve andarsene. Inoltre vi furono richieste molto pressanti da parte di alcuni ufficiali del 33º Reggimento artiglieria, tra i quali Amos Pampaloni e Renzo Apollonio, che arrivarono addirittura, secondo i resoconti del tenente colonnello Fioretti, appartenuto allo stato maggiore della divisione, al limite dell'ammutinamento tanto che lo stesso li apostrofò "Siete venuti qui in veste di comandanti di reparto o come capibanda?", al fine di iniziare le ostilità contro i tedeschi[30].

    Ci furono anche gesti di intolleranza nei confronti di Gandin, ed in un episodio un carabiniere lanciò addirittura una bomba a mano verso la vettura nella quale stava transitando il generale, ma l'ordigno non esplose
    Alle 2 del mattino il tenente colonnello Siervo, comandante del II/317º, informò di persona Pampaloni che dietro ordine di Gandin il suo battaglione doveva essere spostato presso il cimitero di Argostoli; questo implicava che le tre batterie (1ª, 3ª e 5ª) che presidiavano il porto non avrebbero avuto alcuna copertura di fanteria per difendersi da eventuali attacchi[32]. Immediatamente Pampaloni si consultò con Siervo il colonnello Romagnoli, comandante del 33º, chiedendo di far revocare l'ordine ma Romagnoli, sentito Siervo sull'affidabilità sotto il fuoco del suo battaglione, non ritenne di poter acconsentire; il II/317º si spostò presso la nuova posizione[33].

    Alle 6 del mattino, il colonnello Ricci assistette al bombardamento da parte di velivoli tedeschi di piroscafi italiani partiti da Patrasso[33]. Ad Argostoli, Pampaloni svegliò Apollonio comunicandogli che due motozattere tedesche, secondo una sua valutazione "zeppe di uomini e mezzi", stavano per attraccare alla banchina, a pochissima distanza dal comando di divisione e dalla guarnigione tedesca in città comandata da Fault[34][35]. Apollonio osservò ed allertò anche la 5ª batteria di Ambrosini, peraltro già con i serventi ai pezzi di loro propria iniziativa. Come più anziano in grado, Apollonio diede l'ordine di aprire il fuoco, ma le due mitragliere Breda da 20mm rimosse dal dragamine Patrizia ed aggregate alla 3ª batteria iniziarono autonomamente a sparare sui due pontoni[34]. Le due motozattere, la F494 e la F495, vennero quindi colpite dal fuoco ravvicinato di mitragliere, cannoni da 100/27 e 75/13 dell'esercito e ben presto dai pezzi da 120mm e 152mm della Marina posti a Lardigò (attualmente Ammes) e Minies (ora Avithos). Un mezzo affondò, l'altro attraccò protetto da una cortina fumogena stesa dai cannoni tedeschi che sparano dalla penisola di Paliki e dai semoventi della 2ª batteria del 201º battaglione di Argostoli[34]. I tedeschi dopo aver fatto approdare la motozattera, ricevettero ordine da Barge di cessare il fuoco mentre questi contattò il quartier generale della Acqui per chiedere altrettanto, ma quando il capitano Postal, aiutante maggiore di Romagnoli, notificò l'ordine di Gandin a Pampaloni, ma "la linea cade in continuazione"[36][37]; la 5ª batteria rifiutò di eseguire un ordine che venga da "traditori" e non da Apollonio. Presentatosi direttamente alla 3ª batteria, intimò di cessare il fuoco, ma Apollonio rispose che i tedeschi stanno ancora sparando. Dopo assicurazione di Postal che anche i tedeschi hanno ricevuto analogo ordine, non ordinò il cessate il fuoco se non dopo una minaccia di Postal con le testuali parole "Guarda che qui va a finir male"[36][37][38]. Durante lo scontro, la 411ª batteria del 94º gruppo di artiglieria abbandonò la posizione per sbarrare l'accesso al comando di divisione[39]. Alla fine i tedeschi conteranno 5 morti e 8 feriti, mentre gli italiani un ferito grave, ma i fanti del 17º e del 317º non erano in alcun modo intervenuti nel combattimento anche quando i tedeschi avevano assaltato le batterie al porto[40].

    Dopo l'episodio i tedeschi, che ancora non avevano disponibile un numero sufficiente di truppe sull'isola, tentarono un ulteriore negoziato, promettendo un imbarco per l'Italia controllata dai tedeschi a condizione che le truppe avessero ceduto le armi e si fossero concentrate nei porti di Sami e Poros, già sapendo che questo non sarebbe mai avvenuto, in ottemperanza alle disposizioni di Hitler contenute nel piano Achse; il negoziatore nella circostanza, tenente colonnello della Luftwaffe Hermann Busch, chiese anche di conoscere i nomi degli ufficiali che avevano aperto il fuoco con le motozattere[41]. Nel frattempo il numero degli ufficiali fautori della ressitenza ai tedeschi aumentava, comprendendo anche il tenente colonnello Deodato ed il capitano dei carabinieri Gasco, da cui dipendava il militare che avava lanciato la bomba a mano verso la macchina di Gandin. Mentre Gandin diffonde un messaggio alle truppe che recita[42].:
    « A tutti i Corpi e Reparti dipendenti. Comunico che sono in corso trattative con rappresentanti il Comando Supremo Tedesco allo scopo di ottenere che alla Divisione vengano lasciate le armi e le relative munizioni. Il generale di Divisione Comandante Gandin »


    Contemporaneamente il generale Lanz decollò da Giannina per Cefalonia con un idrovolante, ma mentre tentava di ammarare ad Argostoli venne preso di mira dalla contraerea italiana e scese a Lixuri, da dove telefonò a Gandin; non vi sono tracce scritte della conversazione, ma mentre Lanz testimonierà al processo di Norimberga che il generale italiano era stato informato di quell'ordine senza scampo (la fucilazione in caso di resistenza), così come Barge, nessun sopravvissuto tra gli italiani accennò ad un simile fatto, tanto meno si evince dall'ultimatum inviato da Lanz a Gandin in quell'occasione, che ammonisce solo che (punto 2) se non verranno cedute le armi, le forze armate tedesche costringeranno alla cessione. e dichiara che (punto 4) la divisione che ha fatto fuoco su truppe e navi tedesche ... ha compiuto un aperto ed evidente atto di ostilità[43]. Nel contempo, una ulteriore provocazione veniva fatta dai tedeschi che nella piazza principale di Argostoli, piazza Valianos, ammainavano la bandiera italiana, ma venivano prontamente disarmati dai soldati della Acqui che issavano nuovamente la bandiera sul pennone[44]. Nel frattempo a Corfù un battaglione della divisione Edelweiss che tentava di sbarcare veniva respinto con poche perdite ma gravi danni ai mezzi da sbarco, il che poneva i tedeschi in difficoltà nel tentativo di sopraffare la Acqui, mentre il negoziatore sul posto, maggiore Harald von Hirschfeld, relazionava sulle possibili ulteriori modalità di attacco all'isola[45]. Il maggiore sarà in seguito pesantemente coinvolto nel massacro[46]

    Mentre durante la giornata Apollonio, Pampaloni ed Ambrosini erano stati convocati al comando di divisione, ed il vice di Gandin, Gherzi, era arrivato ad apostrofare Pampaloni dicendo tu sei una testa calda, e questi rispondeva che tra le truppe si parla di tradimento da parte del comando di divisione[35], la possibile resa si trasforma in decisione di resistenza; ulteriori fatti, come il pesante bombardamento di Corfù ed in particolare il capoluogo Kerkira da parte della Luftwaffe, la ricezione di un messaggio da Zacinto che annunciava la resa del generale Paderni e quattrocento militari italiani, prontamente spediti in Germania, e la certa (a questo punto) ricezione del radiomessaggio a firma Ambrosio che invita a considerare truppe tedesche come nemiche e regolarvi di conseguenza fanno si che Gandin riposizioni i due reggimenti di fanteria in funzione del combattimento, con uno schieramento orientato verso la costa greca e il presidio tedesco di Argostoli[47]. Infine secondo alcune fonti Gandin avrebbe promosso un referendum tra le truppe per saggiare la loro volontà di combattere i tedeschi[48], mentre altre fonti mettono pesantemente in discussione questa ipotesi
    Il 14 settembre alle ore 12 Gandin informò i tedeschi del risultato del "referendum" effettuato tra i soldati della Divisione, rimarcando sulla scarsa fiducia che i soldati avevano nelle promesse dell'ex alleato di rimpatriarli accontentandosi delle armi pesanti e collettive; nella versione tedesca della lettera Gandin disse tra l'altro "La divisione si rifiuta di eseguire l'ordine di radunarsi nella zona di Sami perché teme di essere disarmata, contro tutte le promesse tedesche ... la divisione preferirà combattere piuttosto che subire l'onta di una cessione delle armi ..."[51]. Di questa lettera esistono diverse versioni, riportate da padre Romualdo Formato e dal capitano Bronzini, con toni più ultimativi ma di analogo contenuto[51].

    Nel frattempo i tedeschi (il tenente colonnello Barge) avevano già spostato il 910º battaglione granatieri da fortezza sulle alture di Kardakata che Gandin aveva abbandonato come segno di buona volontà e dato disposizione alle truppe presenti ad Argostoli (parte del 909º battaglione e i semoventi d'assalto) di tenersi pronti ad attaccare il comando della Acqui e le batterie di artiglieria italiane[52].

    Mentre i tedeschi continuano a fare affluire truppe sull'isola, gli italiani compiono operazioni di tipo difensivo come il brillamento di cariche esplosive su crocevia e strade per renderle impraticabili, ma impedendo anche il passaggio dei propri rifornimenti e rinforzi[53]. Non è ancora noto alla divisione che per scelta politica gli Alleati hanno deciso di non inviare alcun aiuto a Cefalonia per ragioni politiche, cioè non danneggiare i rapporti con l'Unione Sovietica che ritiene di fatto i Balcani una sua esclusiva zona di influenza
    Il 15 settembre i tedeschi, in quel momento inferiori di numero, fecero pervenire sull'isola nuove forze: il 3º battaglione del 98º Reggimento da montagna e il 54º Battaglione da montagna, appartenenti alla 1. Gebirgs-Division (1ª Divisione da montagna) Edelweiss, il 3º battaglione del 79º Reggimento artiglieria da montagna, e il 1º battaglione del 724º Reggimento cacciatori, quest'ultimo inquadrato nella 104. Jäger-Division (104ª Divisione cacciatori)[5], coadiuvati dalla presenza dell'aviazione tedesca con i suoi Stuka alla quale gli italiani potevano opporre solo il fuoco di alcune mitragliere contraeree da 20 mm e il tiro contraereo dell'unico gruppo da 75/27 e di pezzi di artiglieria da campagna.
    La precedente decisione di abbandonare le alture al centro dell'isola assunta da Gandin come segno pacificatore verso i tedeschi si trasformò in un cruciale svantaggio tattico, in quanto da quelle alture si sarebbero potuti battere i punti di sbarco ostacolando notevolmente i rinforzi tedeschi. Ciononostante, le truppe italiane si batterono tenacemente, contendendo per una settimana il terreno ai tedeschi.

    Dal 16 al 21 settembre la resistenza fu accanita, soprattutto da parte del 33º Reggimento di artiglieria e delle batterie costiere della Regia Marina, fino a quando non vennero a mancare le munizioni e la glicerina per lubrificare i pezzi. Alcune batterie da campagna dovettero essere abbandonate dopo essere state rese inutilizzabili perché esposte all'avanzata delle truppe tedesche, sempre protette da un efficace mantello aereo.

    Il 22 settembre il generale Gandin decise di convocare un nuovo Consiglio di Guerra nel quale si decise di arrendersi ai tedeschi. La tovaglia bianca sulla quale i comandanti mangiavano tutte le sere venne issata sul balcone della casa che era sede del comando tattico in segno di resa.
    A questo punto, Hitler in persona ordinò che i soldati italiani fossero considerati come traditori e fucilati. I soldati che erano stati in precedenza catturati e fatti prigionieri furono immediatamente e sommariamente giustiziati; i tedeschi che cercarono di opporsi furono dissuasi con la minaccia di essere a loro volta fucilati. I rastrellamenti e le fucilazioni andarono avanti per tutto il giorno seguente, e si fermarono solo il 28 settembre non risparmiando neanche Gandin, morto la mattina del 24. In particolare, 129 ufficiali furono assassinati presso una villa chiamata Casa Rossa e 7 subirono la stessa sorte il 25 settembre perché, nell'ospedale dove erano ricoverati, il giorno prima si era verificata la fuga di due ufficiali.
    Compiuto l'eccidio, i tedeschi cercarono di farne scomparire le tracce: ad eccezione di alcune lasciate insepolte o gettate in cisterne, la maggior parte delle salme furono bruciate e i resti gettati in mare. I superstiti furono caricati su navi destinate in Germania, Unione Sovietica e Polonia (Auschwitz e Treblinka), ma due di esse incapparono in campi minati e affondarono, e la Mario Roselli fu colata a picco da aerei alleati, che non conoscevano il suo carico umano.

    Tra i pochissimi scampati all'eccidio e alla successiva prigionia ci fu il cappellano militare Romualdo Formato, autore negli anni cinquanta di un libro intitolato appunto "L'eccidio di Cefalonia", e lo scrittore e conduttore televisivo Luigi Silori.
    Anche le guarnigioni di Corfù, Zante (Zacinto) e Santa Maura (Leucade) furono sopraffatte dai tedeschi, quest'ultima quasi subito data l'esiguità del presidio, mentre a Corfù i fanti del 33º reggimento ed un gruppo di artiglieria, circa 4.500 uomini comandati dal colonnello Lusignani[54], il 13 settembre, catturarono il relativamente debole presidio tedesco[54]. Il colonnello Lusignani il 12 e 13 settembre aveva già richiesto al Comando Supremo il reimbarco degli uomini con vari fonogrammi ed inviando a Brindisi il maggiore Capra[55].

    In ogni caso Lusignani aveva considerato l'ordine di resa del generale Vecchiarelli come apocrifo[54]. A coadiuvare i fanti del 33º si erano affiancati il giorno 13 i fanti del I battaglione del 49º Reggimento fanteria "Parma" comandati dal colonnello Bettini, ed altri reparti per un totale di 3.500 uomini[54]. Il 21 settembre gli inglesi aviolanciarono su Corfù la missione militare Acheron[54]. Successivamente i rinforzi tedeschi sbarcati il 24 e 25 settembre[54] e dotati di un consistente supporto aereo sopraffecero gli italiani che si arresero il 26 settembre dopo furiosi combattimenti e l'esaurimento delle munizioni. Lusignani venne fucilato il giorno dopo insieme a Bettini e 27 ufficiali, mentre varie centinaia di soldati avevano perso la vita durante i combattimenti[54].

    A Lusignani e Bettini verrà concessa la medaglia d'oro al valor militare
    Quando si parla di perdite della Divisione Acqui a Cefalonia è necessario distinguere tra:

    * perdite avvenute durante i combattimenti dal 15 al 22 settembre 1943 (data della resa italiana);
    * perdite avvenute dal 24 al 28 settembre a titolo di "rappresaglia" sui militari prigionieri;
    * perdite avvenute in mare - nei mesi successivi - a causa dell'affondamento di alcune navi che trasportavano i prigionieri in Grecia, tra cui la motonave Ardena[54] di 1098 t e stracarica di 840 prigionieri saltata su una mina il 23 settembre[56], la motonave Rosselli e il piroscafo Marguerita, provenienti da Argostoli, e Corfù[2];
    * perdite avvenute in prigionia nei campi di concentramento tedeschi e di altri paesi da questi occupati.

    Secondo Giorgio Rochat la Divisione Acqui avrebbe perso in combattimento 1.200 soldati e 5.000 nei massacri seguenti, mentre invece i tedeschi fanno indirettamente salire questo numero (i rapporti indicavano 5.000 soldati italiani sopravvissuti agli scontri) a 6.500. Queste cifre comprendono in ogni caso il generale Gandin e 193 ufficiali, fucilati tra il 24 e il 25 settembre, più altri 17 marinai giustiziati dopo aver seppellito i corpi dei loro commilitoni. I sopravvissuti, quantificati in una sessantina, trovarono rifugio tra la popolazione o tra i partigiani greci[56]. Anche Arrigo Petacco è su questa linea di pensiero, stimando i caduti di Cefalonia in oltre 400 ufficiali e 5.000 soldati oltre ai 2.000 periti in mare, mentre i sopravvissuti furono meno di 4.000[57]. Ancora, l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia quantifica le perdite complessive dei soldati stanziati a Cefalonia a 390 ufficiali e 9.500 uomini di truppa. I superstiti furono in tutto 2.135[senza fonte] ufficiali e circa 2.000 uomini di truppa, ma la maggior parte di essi fu deportata in Germania e poi in Unione Sovietica, da dove molti non fecero ritorno[58]. Per ultimo, Alfio Caruso nel suo Italiani dovete morire riporta 1.300 italiani morti durante i combattimenti, 5.000 passati per le armi e 3.000 scomparsi in mare[59].
    Tutti questi autori usarono come fonte principale un comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri diramato il 13 dicembre 1945 da Ferruccio Parri, che, sebbene dichiari di poter solo fornire le prime notizie ufficiali, attesta le perdite italiane in 4.750 soldati e 155 ufficiali durante i combattimenti, più altri 260 caduti nei giorni seguenti. A questi numeri vanno aggiunti anche 3.000 naufraghi periti nel viaggio verso la terraferma, per un totale di 9.000 soldati e 415 ufficiali a fronte di 1.500 morti, 19 aerei e 17 mezzi da sbarco distrutti inflitti alla Wehrmacht
    L'eccidio di Cefalonia ha tuttora un solo colpevole: il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d'armata truppe da montagna della Wehrmacht dall'agosto 1943 all'8 maggio 1945[5], venne infatti condannato dal tribunale di Norimberga a 12 anni di reclusione, sebbene ne scontò solo tre. Nel 1957 in Italia furono prosciolti (secondo alcuni per non danneggiare l'immagine dell'esercito[61]) degli ufficiali della Acqui accusati di aver aizzato gli uomini contro i tedeschi dando così origine ai combattimenti e sempre nello stesso anno si iniziò un altro processo nei confronti di 30 ex soldati tedeschi, risoltosi un anno dopo con un nulla di fatto[62].
    Nel 1964 anche la Germania aprì un'inchiesta sulla vicenda una volta ricevuto del materiale da Simon Wiesenthal, ma quattro anni dopo la procura di Dortmund archiviò il caso per riaprirlo nel 2001, prendendo in esame sette ex ufficiali della Wehrmacht. Tra questi figurava anche Otmar Muhlhauser, capo del plotone di esecuzione che fucilò Gandin, prosciolto dalla procura di Monaco di Baviera nel settembre del 2007 perché reo di aver commesso un omicidio "semplice", non rientrante nella categoria di crimini di guerra; stessa sorte subirono gli altri sei imputati[62].

    Dietro la segnalazione di due donne italiane che persero il padre a Cefalonia, la procura militare di Roma aprì un nuovo fascicolo il 2 gennaio 2009 chiamando al banco degli imputati il solo Muhlhauser, ma non si poté fare molto perché il 1º luglio dello stesso anno l'ex militare tedesco, ormai ottantanovenne, morì, e così il processo terminò il 5 novembre (data del rinvio per accertare le condizioni di salute dell'imputato)[62].
    All'inizio del 2010 il tribunale militare di Roma ha iniziato una nuova azione legale nei confronti di Gregor Steffens e Peter Werner, entrambi ottantaseienni ed appartenuti al 966º Reggimento Granatieri da fortezza, accusati di aver ucciso 170 soldati italiani che si erano arresi. Sentiti già dalla procura di Dortmund nel 1965 e nel 1966 alla quale si erano dichiarati innocenti, i due ex militari hanno fatto altrettanto a Roma e al momento le indagini sono ancora in corso
    A ricordo della Divisione Acqui è stato eretto un monumento a Verona, e il 21 settembre di ogni anno viene commemorato l'eccidio alla presenza di autorità civili e militari.

    * Il 1º marzo 1953, l'ex Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi ha assistito al ritorno dei resti dei soldati, durante una grandiosa cerimonia al porto di Bari.
    * Nel 1993, lo scrittore britannico Louis de Bernières pubblicò il suo romanzo di maggior successo dal nome Captain Corelli's Mandolin ispirato dall'eccidio. Il libro ottenne un buon successo di critica e di pubblico e nel 2001 venne portato sullo schermo dal regista John Madden e con la presenza del Premio Oscar Nicolas Cage nel ruolo del Capitano protagonista. Il titolo in italiano scelto per il film, accolto peraltro freddamente da pubblico e critica, è stato Il mandolino del capitano Corelli.
    * Il 1º marzo 2001 l'ex Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi ha visitato Cefalonia pronunciando un discorso sottolineando come "la loro scelta [della Divisione Acqui] consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo"[64].
    * Nel 2005 è stata trasmessa su Rai Uno una serie televisiva sull'eccidio intitolata Cefalonia, con la regia di Riccardo Milani e la colonna sonora di Ennio Morricone.
    * Il 25 aprile 2007 il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, dicendo di "ispirarsi al suo predecessore" Ciampi, ha voluto festeggiare il 62º anniversario della Liberazione anche a Cefalonia: si è trattato, oltre che di un omaggio dal notevole valore simbolico, anche della prima volta in assoluto che la ricorrenza del 25 aprile è stata festeggiata da un Presidente della Repubblica in carica al di fuori dei confini nazionali.





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    Nazario Sauro (Capodistria, 20 settembre 1880 – Pola, 10 agosto 1916)


    « Caro Nino,

    Tu forse comprendi od altrimenti comprenderai fra qualche anno quale era il mio dovere d'italiano. Diedi a te, a Libero ad Anita a Italo ad Albania nomi di libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello ed il mio giuramento l'ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la Patria che è il plurale di padre, e su questa patria, giura o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli quando avranno l'età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani! I miei baci e la mia benedizione. Papà
    Dà un bacio a mia mamma che è quella che più di tutti soffrirà per me, amate vostra madre! e porta il mio saluto a mio padre. »


    Ottenuto il diploma di Capitano Marittimo, iniziò molto giovane l'attività di marinaio che lo portò all'età di vent'anni al suo primo comando su di una nave mercantile. Dopo essere stato al servizio di varie società di navigazione, tra cui la Società Austro-Americana dei Fratelli Cosulich, la Società Istria-Trieste e la Società Capodistriana di Navigazione a Vapore, nel 1910 passò al servizio della compagnia di trasporti marittimi "Zuttiati" che collegava i porti fluviali di Portonogaro e Cervignano del Friuli con gli scali dell'Istria e della Dalmazia. Ciò gli consentì di percorrere tutto l’Adriatico, impratichendosi particolarmente delle coste dalmate, delle rotte in stretti canali, sulle condizioni idrografiche e sulle vicissitudini meteorologiche di quel tratto di mare.

    Negli anni prossimi allo scoppio del conflitto mondiale, mentre era al comando del mercantile Cassiopea che faceva la spola con l'Albania, Sauro trasportò armi per conto di patrioti albanesi che aspiravano all’indipendenza del loro paese dalla dominazione turca, cercando così di contribuire alla libertà dell’Albania, in conformità al principio mazziniano dell’indipendenza di tutti i popoli. Tanto si appassionò per tale causa, da imporre il nome di Albania alla sua figlia più piccola, ultima di cinque (Nino, Libero, Anita, Italo).

    Allo scoppio della prima guerra mondiale nell’agosto del 1914, Sauro lasciò pertanto Capodistria ed il lavoro, il 2 settembre 1914, ed in ferrovia raggiunse Venezia, dove insieme ad altri esuli sostenne l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria. A seguito del terremoto che colpì la regione della Marsica il 14 gennaio 1915, Sauro fu tra i primi a partire per dare conforto e soccorso ai superstiti (una lapide a lui dedicata è conservata presso il Comune di Avezzano).
    Il monumento a Nazario Sauro sulle rive di Trieste

    Con l’entrata in guerra dell’Italia, Sauro si arruolò volontario nella Regia Marina, dove ottenne il grado di tenente di vascello di complemento (23 maggio 1915). Con l’incarico di pilota si imbarcò subito su unità siluranti di superficie e subacquee. In 14 mesi di attività, compì oltre sessanta missioni.

    Il 30 luglio 1916 si imbarcò a Venezia sul sommergibile Giacinto Pullino con il quale avrebbe dovuto effettuare un'incursione su Fiume, ma l’unità andò ad incagliarsi sullo scoglio della Galiola, all’imbocco del golfo del Quarnero. Risultati vani tutti i tentativi di disincaglio, distrutti i cifrari di bordo e le apparecchiature e predisposta per l’autoaffondamento, l’unità fu abbandonata dall’equipaggio e Sauro, allontanatosi volontariamente da solo su un battellino, venne intercettato dal cacciatorpediniere Satellit e fatto prigioniero.

    Alla cattura seguì il processo presso il tribunale della Marina austriaca di Pola (dopo aver dichiarato la falsa identità come tal Nicola Sambo), fatto di interrogatori, dibattimenti, confronti e riconoscimenti (tra i quali quello dei concittadini Giovanni Riccobon, Giovanni Schiavon e quello decisivo di suo cognato Antonio Steffè, Maresciallo della Guardia di Finanza austriaca). Infine, il confronto drammatico con la madre che, pur di salvarlo dalla forca, negò di conoscerlo.

    La condanna alla pena di morte per alto tradimento, tramite impiccagione, fu eseguita nelle carceri militari di Pola il 10 agosto 1916.





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    La Battaglia di El Alamein


    Al km 120 della litoranea Alessandria d'Egitto-Marsa Matruh si fronteggiarono due eserciti e due strateghi geniali: Rommel, Comandante dell'Afrika Korps e Montgomery, Comandante dell'8° Armata britannica.

    Nel 1942, c'era soltanto una stazioncina lungo la ferrovia che dal Delta del Nilo raggiungeva il confine con la Libia e che gli Inglesi avevano prolungato fino in prossimità di Tobruk.

    Situata sul Golfo degli Arabi, la località, distante 180 chilometri da Maesa Matruh e 105 da Alessandria, era soltanto un nome sulla carta geografica. Nessuno poteva immaginare che uomini in armi sotto una dozzina di bandiere (altro che le « due bandiere » del nome), si sarebbero dati battaglia in quel posto desolato: gli Italo-tedeschi, decisi a raggiungere Alessandria, Il Cairo e Suez, gli Inglesi, le truppe del Commonwealth e gli alleati altrettanto decisi a sbarrare il passo ai primi.

    Nel 1940, in previsione dell'entrata in guerra dell'Italia e di una avanzata dalla nostra Decima Armata in direzione dell'Egitto, il Comandante inglese del Medio Oriente, Generale Archibald Wavell, e il Comandante dell'Armeé d'Orient francese, enerale Maxime Weygand, compirono una ricognizione a El Alamein, avendo valutato l'importanza della posizione, difficilmente raggiungibile da sud. Quando gli Italiani raggiunsero El Alamein, scoprirono che alcune opere in calcestruzzo, apprestate dagli inglesi, recavano la data del 1940: segno evidente che le difese non erano state improvvisate.

    Dunque, una posizione difficilmente aggirabile, infatti, a poco meno di 60 chilometri dalla costa, il deserto, rotto qua e là da piccoli rilievi che diventarono di grande importanza tattica e sovrastato a sud dai 217 metri della « piramide » naturale rocciosa di Quaret El Himeimat, piomba verso la depressione di El Qattara (134 metri sotto il livello del mare), costellata di sabbie mobili e terreno cedevole.

    Un’altra curiosità, questa molto importante, è che nella zona di El-Alamein si trovarono le uniche sorgenti di acqua dolce di quel tratto di deserto occidentale egiziano.

    L'evidente sproporzione delle forze in campo, a favore degli inglesi (l'Ottava Armata britannica contava 220mila uomini, contro i 96mila dell'Afrika Korps Italo-Tedesco), era aggravata dalla mancanza di rifornimenti e dal fatto che i trasporti marittimi diretti in Libia erano implacabilmente silurati dagli inglesi.

    *

    Gli schieramenti e i piani di combattimento

    Dal nord verso sud lo schieramento dell'Asse Italo-Tedesco era il seguente: a nord le divisioni di fanteria "Trento", "Bologna" e "Brescia". All'estremità sud, la divisione Paracadutisti "Folgore", appena giunta in Africa settentrionale. Alle spalle della "Folgore", la divisione "Pavia". In prima linea, a sostegno delle forze italiane, la 164ma divisione tedesca e la brigata Paracadutisti del generale Ramcke. Le unità di manovra, tenute in seconda schiera, erano a nord la divisione corazzata "Littorio" e la 15ma Panzerdivision, e a sud la divisione corazzata "Ariete" e la 21ma Panzerdivision. Di riserva, la divisione "Trieste" e la 90ma divisione tedesca.

    Lo schieramento adottato da Montgomery era formato a nord, dal 30° Corpo d'Armata, a sud il 13° e, alle loro spalle, il reparto meglio addestrato e meglio armato, ossia il 10° Corpo d'Armata corazzato.

    Nel 30° Corpo figuravano le divisioni indiana, neozelandese, australiana e sudafricana; nel 13°, oltre a due divisioni inglesi, due brigate francesi e una brigata greca.

    Il Generale inglese aveva quindi a sua immediata disposizione tre divisioni corazzate e l’equivalente di sette divisioni di fanteria. Il concentramento di forze così ingenti richiese molte misure ingegnose di occultamento e molte precauzioni.

    Il suo piano consisteva nell'attaccare il centro del settore nord, dov'erano schierate la "Trento" e la 164ma divisione tedesca, tentando di sfondare nel tratto tenuto dagli italiani, ritenuti più deboli e peggio armati dei loro camerati germanici. Fatto questo, aprire due corridoi nei campi minati, attraverso i quali far passare i mezzi corazzati che dovevano eliminare i panzer nemici. I carri avrebbero protetto l'avanzata della fanteria e avrebbero spazzato via i reparti dell'Asse di prima linea. In un secondo tempo era prevista la distruzione delle truppe Italo-Tedesche di copertura. Infine dovevano essere eliminate le riserve.

    Il piano di Montgomery era una finta a sud, per poi attaccare in forze a nord. Nei giorni precedenti nel prepararsi, aveva mascherato e mimetizzato (addirittura avvalendosi di uno sceneggiatore cinematografico - Barkas- e di un illusionista - Maskelyne) un fortissimo concentramento a nord (86 battaglioni di fanteria, 150.000 uomini, alcune migliaia di automezzi, 3247 cannoni, migliaia di tonnellate di rifornimenti, 1350 carri armati. 1200 aerei) mentre predisposte un altro contingente di molto inferiore e disordinatamente a sud, che trasse in inganno Rommel prima di partire; più che convinto che gli inglesi con le forze che disponevano a sud non potevano prima di novembre scatenare un offensiva.

    Soprattutto, fu necessario per la Gran Bretagna impedire all’aviazione nemica di rendersi conto perfettamente dell’imponenza dei preparativi. Tale sforzo fu coronato da un completo successo così che l’attacco costituì per il nemico una vera sorpresa.

    Assente Rommel (ricoverato in Germania alla fine di settembre), la battaglia cominciò alle 21.40 precise del 23 ottobre 1942, in una notte di luna piena, quando i mille cannoni di Montgomery aprirono il fuoco simultaneamente lungo il fronte, concentrando il tiro sulle postazioni di artiglieria sulle truppe dell'Asse per una ventina di minuti; il tiro era quindi diretto contro le posizioni occupate dalla fanteria.

    *

    La Battaglia: urto iniziale, attacchi e contrattacchi

    Alle 22 del 23 ottobre 1942 scatta l'azione delle fanterie che sarà seguita dall’azione dell'urto. Sotto la protezione del fuoco delle artiglierie, resa più efficace dai bombardamenti aerei, avanzarono il XXX e il XIII corpo d’armata, comandati rispettivamente dai generali Leese e Horrocks, che attaccarono su un fronte di quattro divisioni; l’intero XXX corpo cercò di aprirsi due varchi attraverso le linee fortificate nemiche.
    Dietro di esso seguirono le due divisioni corazzate del X corpo d’armata (generale Lumsden) per sfruttare l’eventuale successo.

    Notevoli progressi furono compiuti sotto la protezione di un fuoco imponente; all’alba erano state state create nello schieramento nemico profonde sacche. Tuttavia, sino a quel momento nessuna breccia fu aperta nel profondo sistema di campi minati e di sistemazioni difensive dei tedeschi. La resistenza dei tedeschi e degli italiani fu accanita, superiore al previsto.

    Ma all'alba del 24 ottobre il 30mo Corpo d'armata britannico raggiunse gli obiettivi assegnati, ma le sue fanterie stanche e provate non poterono contribuire ad assicurare il passaggio dei carri armati nel varco aperto nel settore nord. Intanto il Generale tedesco Stumme, sostituto di Rommel, 24 ore dopo l’inizio della battaglia muorì. Secondo alcune fonti di aploplessia, con un un colpo di rivoltella alla tempia, secondo altri.

    Nelle primissime ore del giorno 25 Montgomery tenne rapporto ai comandanti di grado più elevato, dando ordine di spingere di nuovo all’attacco prima dell’alba le forze corazzate, in conformità alle sue istruzioni iniziali. Effettivamente, durante la giornata altro terreno fu guadagnato dopo aspri combattimenti; l’altura chiamata Kidney Ridge diviene teatro d’una battaglia furiosa con le divisioni corazzate nemiche, la 15a tedesca e l’ “Ariete” italiana, che lanciarono una serie di violenti contrattacchi.

    Su richiesta di Hitler, Rommel lasciò l’ospedale e riprese il comando nel tardo pomeriggio del giorno 25. Aspri combattimenti si svolsero per tutto il 26 lungo la profonda sacca aperta sino a quel momento nelle linee nemiche, e soprattutto ancora nella zona di Kidney Ridge.

    L'aviazione tedesca, che nei due giorni precedenti rimase, lanciò l’ultima sfida alla superiorità aerea inglese. Vi furono parecchi scontri che si risolvono per la maggior parte a favore di Montgomery.

    Gli sforzi del XIII corpo d’armata ritardarono, ma non riuscirono ad impedire il trasferimento delle unità corazzate tedesche verso quello che ormai Rommel sapeva che era il settore decisivo della battaglia. Questo movimento fu tuttavia duramente ostacolato dalla RAF.

    Durante tutto il 27 e il 28 ottobre infuriò una violenta battaglia per l’altura di Kidney, scatenata ripetutamente dalla 15a e dalla 21 a divisione corazzata tedesche, appena arrivate dal settore sud.

    L'avanzata inglese riprese il 28 nei corridoi, sotto il fuoco rapido e micidiale dei cannoni anticarro tedeschi; i carri armati inglesi posti fuori combattimento si contavano già a decine.

    E' il momento culminante. Il 28 sera i carri inglesi distrutti sono circa trecento. La 1ma divisione corazzata inglese, al di là del corridoio, rischia a un certo punto di venire attaccata e respinta dalla 21ma divisione Panzer tedesca.

    Montgomery, per evitare il peggio, spinse verso nord la 7ma divisione corazzata e ordinò alla 9na divisione australiana di colpire anch'essa a nord. La situazione non si presentà brillante. Il comandante dell'Ottava armata penssava di sfondare in un arco di tempo di una decina di ore e invece i suoi calcoli si rivelarono terribilmente sbagliati.

    A questo punto il Generale Inglese diede disposizioni per effettuare lo sfondamento decisivo (operazione "Supercharge", ovvero colpo d'ariete).

    *

    Lo sfondamento decisivo, "il Supercharge"

    Ecco come si svolse l’operazione "Supercharge", secondo le parole del Generale Inglese Alexander: «La notte del 28 e poi nuovamente il 30 ottobre gli australiani attaccarono verso nord in direzione della costa riuscendo finalmente a isolare quattro battaglioni tedeschi rimasti sul posto. Il nemico sembrava fermamente convinto che intendessimo attaccare lungo la strada e la linea ferroviaria e reagì alla nostra puntata con estrema energia. Rommel spostò la 2^ divisione corazzata dalla sua posizione a ovest del nostro saliente vi aggiunse la 90^ divisione leggera che sorvegliava il fianco nord dello stesso saliente e lanciò le due unità in furiosi attacchi per disimpegnare le truppe accerchiate. Il posto lasciato libero dalla 2^ divisione corazzata fece avanzare la divisione "Trieste" che era la sua ultima unità di riserva non ancora impiegata. Mentre Rommel era così duramente impegnato e dava fondo alle ultime formazioni fresche che gli rimanevano nel tentativo di disimpegnare un solo reggimento noi fummo in grado di completare senza essere disturbati la riorganizzazione delle nostre forze per l’operazione “Supercharge”. La magnifica puntata degli australiani, attuata con una serie ininterrotta di aspri combattimenti, aveva volto a favore degli inglesi le sorti di tutta la battaglia.

    All’una antimeridiana del 2 novembre l’operazione “Supercharge” aveva inizio. Protette da un fuoco di sbarramento di 300 pezzi d’artiglieria, le brigate britanniche aggregate alla divisione neozelandese sfondarono il sistema di difesa nemico e la IX brigata corazzata britannica si lanciò in avanti. Esse urtarono tuttavia in una nuova linea di difesa, forte di numerose postazioni anticarro, lungo la pista di Ei Rahman. Ne risultò un lungo combattimento che costò gravi perdite alla brigata; il corridoio alle sue spalle fu però tenuto aperto e la la divisione corazzata britannica poté avanzare lungo di esso".

    La sera del 2 novembre secondo le stesse fonti tedesche, le divisioni corazzate germaniche, che iniziarono la battaglia con 240 carri efficienti, ne allinearono soltanto 38, ma invece di ripiegare il 3 novembre arrivò un perentorio ordine di Hitler, con il quale si impose all'Afrika Korps di farsi uccidere sul posto piuttosto di indietreggiare di un metro. Così Rommel mandò a tutti i reparti l'ordine di resistere a ogni costo, rifiutando di accettare le implorazioni dei suoi generali, contrari a questa condotta.

    Nelle prime ore del giorno 4, la V brigata indiana scatenò un fulmineo attacco a otto chilometri a sud di Tel El-Aggagir, con successo.

    Montgomery è in piena avanzata, avendo aggirato ormai lo sbarramento anticarro italo-tedesco. Il Generale tedesco Von Thoma, in prima linea, si consegna agli inglesi, senza rispettare, in questo modo, l’ordine imposto da Hitler ai suoi uomini. Alle 15.30 giunge a Rommel un messaggio: la divisione italiana "Ariete" non esiste più, si è immolata per tenere le posizioni.

    Gli inglesi hanno aperto una breccia ampia venti chilometri. Alle 8 di sera, quando apprende che la brigata corazzata britannica è già arrivata alla litoranea, Erwin Rommel decide l'unica soluzione possibile: la ritirata.

    Gli ultimi a cedere ad El Alamein saranno i Paracadutisti della "Folgore", abbarbicati al terreno a sud, ai margini della depressione di El Qattara hanno di fronte quel 13mo Corpo d'armata che, secondo la versione inglese, deve impegnarsi soltanto per dar vita a un falso scopo, mentre in realtà è costretto a combattere una delle più dure e logoranti battaglie locali di sfondamento dell'intero fronte.

    I Parà Italiani della Folgore resisterono per ben tredici giorni SENZA CEDERE UN METRO, senza acqua e senza cibo.

    Stremati, e senza munizioni, continuarono a combattere andando all’attacco con i propri pugnali, e all’invito inglese di arrendersi, accerchiati dagli inglesi, montarono sulle carcasse dei carri, petto in fuori e pugnale in alto risposero con il grido: “FOLGORE!!!”
    Partiti dall'Italia in cinquemila, rimasero, tra ufficiali e truppa, in trecentoquattro.

    Alla resa, i ragazzi ebbero l’Onore delle Armi e il nome della divisione, FOLGORE, con le loro gesta divenne subito, inevitabilmente, leggenda.

    *

    Il ruolo della Folgore: consumata, MA NON VINTA

    La sera del 23 ottobre, come descritto, cominciò l'improvvisa azione di preparazione dell'artiglieria avversaria che preannunciava l'imminenza dell'attacco. Gli inglesi disponevano di 2.000 nuovi carri armati dei tipi più moderni, (oltre 1.300 impiegati nella battaglia) in prevalenza americani,di una fortissima aviazione che dominava incontrastata il cielo, di circa 3.000 cannoni di ogni calibro e di elevata potenza, con una scorta di munizioni che permetteva loro di rovesciare sulle nostre linee migliaia di tonnellate di proiettili per settimane consecutive.
    Dai margini della depressione di El Qattara fino al mare si accese, improvviso, un gigantesco lampegiare che si fondeva in un'unica vampata vulcanica, accompagnata da migliaia di scoppi che sommergevano completamente il nostro schieramento, dalla linea dei capisaldi alle postazioni d'artiglieria ed oltre, per sconvolgere e distruggere tutto ciò che potesse potenziare la nostra resistenza. L' uso di cortine fumogene paralizzava l' osservazione, ostacolava il tiro dei cannoni ed impediva di scorgere le mosse del nemico che si apprestava a serrare sotto le nostre difese per attaccarle. La "Folgore" attendeva l'imminente urto con la ferma volontà di opporsi all'avversario col massimo impegno e far pagare, agli inglesi, a caro prezzo, il loro ambizioso progetto.
    I nostri ragazzi sembravano elettrizzati da quell'atmosfera di battaglia e dall'eccezionale spettacolo che si svolgeva intorno a loro, ed attendevano senza timori lo sviluppo degli avvenimenti per incontrarsi con i Inglesi e dare loro il "benvenuto".
    Alle ore 20,40 del 23 ottobre l'avversario iniziava un fuoco di artiglieria di violenza e proporzioni inusitate che si protraeva ininterrottamente per tutta la notte sul 24 ed investiva in pieno l'intero fronte presidiato dalla Divisione "Folgore".
    Dal rilevamento delle vampe si potè calcolare che contro il solo fronte del 187° reggimento agivano non meno di 150 pezzi (confermati poi in 200). Malgrado il massiccio tiro d'artiglieria, si poteva udire ogni tanto lo sferragliamento di cospicue masse di carri armati serranti sotto le posizioni dei paracadutisti.
    Quando, fra gli scoppi e le vampe che illuminavano a giorno le postazioni si udì l'ordine dei comandanti «ai posti di combattimento» un grido solo rispose, altissimo ed unanime «Folgore!». Subito dopo numerose pattuglie nemiche, protette da nebbiogeni, tentavano di raggiungere i campi minati per aprirvi dei varchi, ma venivano inesorabilmente respinte.
    Nel settore centrale la compagnia avanzata, la 6° comandata dal Capitano Marenco, si fece sterminare dopo un violento corpo a corpo; dei 90 paracadutisti che componevano la compagnia, solo una ventina rìuscirono a ripiegare verso la nostra linea principale di difesa. Avevano distrutto 30 carri armati ed ucciso circa 150 inglesi. Nel pomeriggio del 24, in un tentativo di contrattacco, cadeva il comandante dei raggruppamento Tenente Colonnello Marescotti Ruspoli a cui veniva concessa la medaglia d'oro alla memoria.

    Verso le ore 14 del 25 ottobre una colonna di una quarantina di carri (4° Brigata corazzata leggera della 7° Divisione corazzata britannica) e due battaglioni di fanteria attaccavano il caposaldo della 12° compagnia deil IV/187° comandata dal Capitano Cristofori. Dopo lotta violentissima, che condusse a fasi di corpo a corpo, il nemico veniva respinto con perdite particolarmente sanguinose, lasciando sul terreno 22 carri armati immobilizzati.
    Nella notte sul 26 l'avversario compiva l'ultimo tentativo di rompere il fronte della "Folgore". Avendo constatato la saldezza della nostra linea, decise di far massa contro il saliente di Deir el Munassib, allo scopo di impadronirsene e di irrompere quindi lungo un allineamento vallivo (Deir el Munassib-Deir Alinda), che da quelle posizioni si diparte.
    Dopo la consueta preparazione di artiglieria e nebbiogeni, al sorgere della luna (ore 22) la 69° Brigata di fanteria (50° Divisione britannica) e reparti della Brigata "Francia Libera" mossero su tre colonne all'attacco contro le posizioni dei IV/187° reggimento. Una colonna, composta di due battaglioni dei reggimento "Green Howards" e di una compagnia autoblindo, riprendeva il fallito attacco del pomeriggio contro il caposaldo della 12° compagnia; un'altra colonna formata di elementi d'assalto degaullisti, impegnava la 10° compagnia; una terza colonna costituita dai battaglioni del reggimento "Royal West Kent" (44° Divisione britannica) e dal battaglione carri IV/8° Hussars (7° Divisione corazzata), investiva da ogni lato il caposaldo presidiato dalla 11° compagnia. Contemporaneamente venivano impegnate da altre unità le postazioni del II battaglione. Alle ore 23 l'intero fronte dei 187° reggimento era così premuto da ogni parte...

    Aliquote del IX battaglione in secondo scaglione, venivano spostate nella notte per rafforzare le ali dello schieramento, particolarmente minacciate. Verso le ore 01,00 gli attacchi diretti contro le postazioni della 10° e 12° compagnia potevano considerarsi stroncati. Le colonne avversarie in seguito alle gravi perdite subite, desistevano da ogni tentativo di progresso e si accontentavano di mantenere impegnata la difesa.
    Grave si manifestava invece la situazione della 11° compagnia. I vari centri di fuoco della compagnia attaccati su ogni lato e premuti da presso dai carri armati si difesero disperatamente. La lotta durò violentissima per un paio d'ore; poi, uno alla volta, i pezzi controcarro esaurirono le munizioni e non potendo esserne riforniti perché rimasti isolati, furono costretti al silenzio. Le armi automatiche venivano soverchiate dai carri. Alle ore 04,00 solo un paio di centri di fuoco resistevano ancora; la quasi totalità degli uomini della compagnia era caduta sulle posizioni.
    In questa azione cadeva eroicamente, guidando un ultimo disperato tentativo di contrassalto, il Comandante della compagnia Capitano Costantino Ruspoli alla cui memoria fu conferita la medaglia d'oro.
    Alle prime luci del giorno 27 il Comandante dei IV/187° (Capitano Valletti) quattro volte ferito, ma rimasto volontariamente sul posto, ordinava un contrassalto che veniva eseguito da un plotone al Comando del Tenente Raffaele Trotta, Comandante della compagnia cannoni da 47/32 assegnata in rinforzo al IV battaglione.
    Ad azione ultimata, le posizioni perdute venivano riconquistate e saldamente tenute, successivamente il tenente Trotta veniva sostituito dal Tenente Gallo, il quale a sua volta ferito, cedeva il comando del battaglione al Maggiore Vagliasindi.
    Nel corso del giorno 27 il nemico, efficacemente contrastato, tentava un ulteriore attacco, contro le posizioni della 10°/IV con elementi degaullisti rinforzati da un battaglione del Queen's Royal Regiment (44° Divisione inglese). La immediata, decisa reazione del presidio, il tempestivo intervento delle artiglierie stroncavano l'attacco ed il nemico veniva rigettato con gravi perdite.
    Durante il contrassalto cadeva eroicamente alla testa dei suoi uomini il comandante della compagnia, Tenente Gastone Simoni alla cui memoria veniva conferita la medaglia d'oro.
    Il Maggiore d'artiglieria Francesco Vagliasindi del 185° reggimento, il cui gruppo a seguito delle perdite subite era stato sciolto, e che aveva chiesto l'onore di assumere il comando di un reparto di fanteria, cadeva alla testa del IV/187° reggimento.
    Il giorno 28 il nemico, esausto, non rinnovava i suoi attacchi limitandosi a battere le nostre posizioni con violenti tiri di artiglieria e mortai.
    Nei giorni successivi, dopo qualche scontro di carattere locale, gli opposti fronti andavano stabilizzandosi. L'offensiva tentata dal nemico contro la "Folgore" era sanguinosamente fallita dopo sei giorni di accaniti combattimenti ed inutili attacchi. L'avversario era solo riuscito ad occupare parzialmente un caposaldo avanzato senza però infirmare la solidità delle posizioni, nè intaccare minimamente la linea di resistenza. Il nemico aveva lasciato sul terreno alcune centinaia di caduti; 52 carri furono da esso perduti; 164 uomini tra cui 12 ufficiali, venivano catturati.
    Particolarmente significativo il tributo di sangue offerto dai comandanti di battaglione e di gruppo della "Folgore": su 16 ufficiali succedutisi al comando di 9 unità, si ebbero ben 15 perdite (10 caduti e 5 feriti).
    Il Generale Alexander, a proposito dei combattimenti di quei giorni, scrisse: «Si trovò che il nemico era in forze e bene appostato, pertanto non si insistette nell'attacco».

    Per quanto riguarda i due raggruppamenti nei quali era articolato il 186° si è detto che l'attacco si attuò in due direzioni: da est verso ovest, prevalentemente sul fronte del settimo battaglione (raggruppamento Tantillo) ed essenzialmente condotto da fanterie.
    Sul fronte dei VII battaglione l'attacco si protrasse fino al 31 ottobre, con alterne vicende, per l'intervento di nostri contrattacchi condotti con l'appoggio di carri armati. Iniziatosi con la distruzione dei nostri centri in fascia di osservazione, sovrumanamente difesisi con bombe a mano e bottiglie molotov; culminato il 26 ottobre con la costituzione da parte del nemico di una sacca al centro della posizione di resistenza del battaglione; ed infine respinto dal nostro contrattacco il 27 ottobre, con la eliminazione di tale sacca e la cattura di un maggiore, 3 capitani, 4 tenenti, 207 militari, armi e munizioni: davanti alle nostre posizioni, si contano semidistrutti, 67 mezzi corazzati nemici. Il 28 ottobre, un "parlamentario" inglese si presentava per chiedere una tregua d'armi, allo scopo di dare sepoltura ai caduti d'ambo le parti. La tregua, concessa, ha la durata di tre ore; al termine vengono scambiati i recuperati piastrini dei caduti: 50 paracadutisti, circa 150 inglesi.

    Il nemico si riordina e si sistema a circa 600 metri dalle nostre linee per riprendere fra il 29 ottobre e la notte del 1 novembre i suoi sforzi condotti però, a quello che sembrava, con scarsa decisione e forse a solo scopo dimostrativo: lasciò in seguito alla nostra reazione, nelle nostre mani un'altra cinquantina di prigionieri.
    Sul fronte del V battaglione il vero e proprio contatto con il nemico avvenne verso le ore 3 antimeridiane dei giorno 24 ottobre. Anche qui esso non avvenne di sorpresa, perché fin dalla mezzanotte il posto avanzato di Qaret el Himeimat aveva dato notizia che si udiva sfilare da sud-est verso nord-ovest una forte massa di mezzi meccanizzati nemici: indubbio preludio ad un attacco avvolgente contro l'ala esposta del nostro schieramento generale.

    Per detta eventualità, data la natura e data anche l'esiguità delle forze disponibili, il comandante del battaglione, con il pieno consenso del comandante del reggimento, si era orientato al seguente concetto: ridurre all'estremo uomini e mezzi dislocati ai piedi delle propaggini sud del ciglione di Munaquir el Daba, sovrastante la depressione salata, a sorveglianza del campo minato ivi esistente e col compito preciso di disorientare con la loro azione il nemico dando nel contempo un sicuro allarme al comando; di reagire in alto con l'immediato contrattacco contro le fanterie nemiche che si fossero affacciate da sud sull'altopiano (prive ormai dell'appoggio dei mezzi corazzati, necessariamente attardati dalla natura impervia degli accessi) cogliendole così di sorpresa, quando avrebbero creduto di aver raggiunto con estrema facilità il successo. A tale scopo il Comandante di battaglione, dopo aver sottratto e riunito tutti gli uomini non strettamente necessari al servizio delle armi, disponeva di circa 3 plotoni appoggiati da alcuni mortai. Da parte sua il comando di reggimento dislocato come detto poche centinaia di metri a nord di Naqb Rala, armando con personale di fortuna alcuni pezzi anticarro da 47/32 (giunti senza personale nella giornata del 23) aveva disposto uno sbarramento prudenziale, fronte a sud della gola di Naqb Rala; aveva un pugno di uomini composto dagli elementi del plotone collegamenti e del comando; aveva predisposto per l'afflusso (qualora le vicende dell'azione l'avessero reso necessario e possibile) degli uomini dei centri arretrati viciniori del VI battaglione dislocati nella piana: perché, ove si fosse giunti a quegli estremi, egli giudicava di dovere giocare tutto per tutto.

    L'azione nemica contro il fianco destro del battaglione si risolse rapidamente e nella maniera più brillante per noi: gli scoppi di alcune mine e il divampare improvviso breve ed intenso del fuoco delle mitragliatrici, il lancio delle bombe a mano da parte degli elementi di osservazione in basso, avverte che il contatto era avvenuto ai piedi del Ciglione Sud di Munaquir el Daba e che sarebbe stato imminente l'affacciarsi sull'Altopiano di Naqb Rala delle fanterie nemiche. Il Comandante di battaglione articolò il rincalzo in due aliquote per l'azione sul fianco destro e nel fronte degli attaccanti; il comandante di reggimento con il modestissimo reparto di formazione si avviò verso il comando del Quinto battaglione. Ma il suo intervento non fu necessario; il V battaglione risolse coi suoi mezzi la situazione. Non appena, nell'incerto chiarore antelucano vede dilagare in silenzio sul pianoro le fanterie nemiche, riconoscibili per il caratteristico elmetto, il Comandante del battaglione fa scatenare su di esse alcune celerissime salve di mortai e raffiche di mitragliatrici pesanti ed al grido di Savoia, Viva l'Italia, "Folgore", dà il segnale del contrassalto: si gettano nella mischia anche i serventi della compagnia mortai. Il nemico si arresta, tenta di resistere ma viene travolto ed incalzato, fino a che l'ultimo uomo non ha sgombrato il pianoro, ridiscendendo le pendici sud di Munaquir el Daba. Il Comandante del battaglione, il suo Vice Comandante, il Comandante della compagnia mortai, ed altri ufficiali sono feriti, sensibili sono nel complesso le perdite che hanno costituito il prezzo del successo. Ma sul fronte del V battaglione il nemico non compie nessun altro attacco.

    Fra il VII e il V è schierato il VI; questo non subisce alcun serio tentativo di rottura, ma sopporta notevoli perdite per le azioni di bombardamento e nelle azioni di pattuglia che si sviluppano, particolarmente attive, verso il tratto tenuto dal VII, a protezione del proprio fianco sinistro.

    Con la fine di ottobre (per quanto riguarda il 186° reggimento) tutto sembra avviarsi ad una relativa calma. Il nemico è stato respinto, ma le perdite complessive subite specie nei quadri, sono state gravissime: sono caduti il Vice Comandante del reggimento (Tenente Colonnello Ruspoli), il comandante del VI battaglione (Maggiore Bergonzi) ed alcuni comandanti di compagnia; sono rimasti feriti fra gli altri il comandante del V battaglione (Maggiore Izzo), l'aiutante maggiore in 1° del reggimento (Capitano Maggiulli), il Capitano medico Guberti. I comandi dei battaglioni V e VI sono tenuti da capitani appena promossi, le compagnie in gran prevalenza sono comandate da sottotenenti di complemento o da sottufficiali; la forza dei reparti è ridotta a pochi uomini. Ma il rimpianto per la perdita di tanti e tanti compagni d'arma è virile; lungi dal reprimere gli animi, esalta in tutti l'orgogliosa fierezza di avere ovunque respinto il nemico combattendo strenuamente. La situazione generale impose al comando di Armata di ordinare l'arretramento di tutto il fronte: l'ordine al 186° fu portato dal Vice Comandante della Divisione Generale Bignami alle ore 21,30 del 1 novembre: esecuzione immediata; nuova linea di schieramento da assumersi per l'alba del 2 novembre: Rain Pool-Karet el Kadim; divieto di operare distruzioni che comunque potessero svelare il movimento al nemico; mezzi di trasporto a disposizione per il traino dei pezzi e per il carico di almeno parte delle riserve di munizioni; viveri ed acqua (che erano state accumulate in vista di strenua resistenza in posto) nessuno...
    Tutti si resero conto che cominciava, per il reggimento e per la divisione la più dolorosa vicenda; ma tutti erano decisi a far si che questa diventasse anche la più gloriosa e restasse leggendaria. La ritirata nel deserto...
    La BBC inglese a battaglia conclusa, l'11 novembre così commenta: "I resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane".

    *

    La ritirata

    La battaglia è ormai vinta per gli inglesi e la via è aperta ai loro carri armati per inseguire il nemico attraverso il deserto ormai sgombro di ostacoli. Rommel si trova ormai in piena ritirata, ma vi sono mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi si arrogano la precedenza nell’uso degli automezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane sono così abbandonate in pieno deserto con poca acqua e poco cibo, e senz’altra prospettiva che quella di essere circondati e spediti nei campi di concentramento. Il campo di battaglia è seminato di carri armati distrutti o inutilizzabili, di cannoni e di automezzi abbandonati. L’aviazione tedesca ha rinunciato alla disperata impresa di contrastare la superiorità aerea della RAF,così che l' aviazione inglese operava pressoché indisturbata, attaccando senza tregua con tutte le sue forze le lunghe colonne di uomini e di automezzi che fuggono verso ovest. La ritirata sarà un altro capolavoro del feldmaresciallo, perché nonostante la sconfitta subita Montgomery non riuscirà ad accerchiarlo e a distruggere definitivamente l'Afrika Korps.




     
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  5. Sunfire_mc
     
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  6. wild Monkey
     
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    Se mi permettete una riflessione .

    Queste persone avevano un ideale, amavano l'Italia, cosa direbbero se tornassero in vita e vedrebbero come si e ridotta l'Italia per cui hanno sacrificato la loro vita.

     
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5 replies since 6/12/2010, 21:28   3326 views
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