parafrasi Adelchi di Manzoni del coro atto terzo: "Dagli atrii muscosi"

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  1. uno
     
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    Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti,
    dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
    dai solchi bagnati di servo sudor;
    un volgo disperso, repente si desta,
    intende l’orecchio, solleva la testa,
    percosso da novo crescente romor.

    Un volgo disperso all’udire un rumore insolito che aumenta continuamente di intensità, esce all’improvviso dagli atrii dei vecchi palazzi coperti di muschio, dalle piazze cadenti (perché lasciate andare in rovina), dai boschi, dalle officine e dai campi bagnati dal sudore dei contadini divenuti servi (dei Longobardi).
    Il volgo disperso sono gli italiani ridotti in schiavitù dai dominatori longobardi; una massa di persone anonime, stanca, umiliata dalla condizione in cui si trova e divisa fra i vari signori, cioè dispersa.
    La scena di grande effetto si svolge fra i “fori cadenti”, cioè luoghi in rovina, abbandonati all’incuria di chi non ha più voglia di mantenere bello e pulito il luogo in cui vive; negli androni delle case talmente trascurati da avere il muschio sulle pareti; nei boschi, nei campi bagnati dal sudore di persone ridotte in condizione servile.
    L’inizio del coro si presenta ricco di movimento con questa folla di gente di tutti ceti che si risveglia dopo un lungo periodo di schiavitù.
    Senti i suoni aspri e sibilanti della lettera s che ha la funzione di far risaltare l’idea del ferro rovente quando viene buttato nell’acqua

    Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
    quel raggio di sole da nuvoli folti,
    traluce de’ padri la fiera virtù:
    ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
    si mesce e discorda lo spregio sofferto
    col misero orgoglio di un tempo che fù.

    Dagli sguardi interrogativi, dai volti impauriti, come un raggio di sole che esce da folte nuvole, balena l’antico orgoglio degli avi: negli sguardi e nei volti si mescolano e si alternano l’avvilimento subito e l’orgoglio del tempo passato.
    L’orgoglio del passato diventa speranza per il futuro.
    I versi sono spezzati a metà e gli accenti variati per esprimere l’avvicendamento della speranza e della paura.
    Misero orgoglio perché basato sul ricordo delle imprese gloriose dei padri (cioè i romani): severa condanna alla paura ed all’incapacità degli italiani di ribellarsi.


    S’aduna voglioso, si sperde tremante,
    per torti sentieri con passo vagante,
    fra tèma e desire, s’avanza e ristà;
    e adocchia e rimira scorata e confusa
    de’ crudi signori la turba diffusa,
    che fugge dai brandi, che sosta non ha.

    Si raduna desideroso ( di conoscere le sorti della battaglia), ma subito di disperde impaurito per vie tortuose col passo incerto di chi non ha una meta, fra paura e desiderio avanza e si ferma: guarda e riguarda la schiera dispersa e sbandata ( dei Longobardi) dei crudeli padroni che fugge dalle spade (dei Franchi) senza concedersi un attimo di sosta.
    Notate come il ritmo ripetuto e pressante dei versi rispecchi l’ansimare e la fatica della corsa.


    Ansanti li vede quai trepide fere,
    irsuti per tèma le fulve criniere,
    le note lètebre del covo cercar;
    e quivi, deposta l’usata minaccia,
    le donne superbe, con pallida faccia,
    i figli pensosi pensose guatar.

    Li vede ansimanti come animali feroci impauriti, con le folte criniere irte per la paura, cercare un nascondiglio nelle loro case e qui abbandonata l’abituale alterigia e superbia, le donne (longobarde) col volto pallido (per la paura) guardano i loro figli ammutoliti ( per l’incertezza di quanto avverrà)
    Da notare la parola “ansanti”. Ansanti per la fatica della corsa, ma anche per lo smarrimento e l’incertezza.

    E sopra i funggenti, con avido brando,
    quai cani disciolti, correndo, frugando,
    da ritta, da manca, guerrieri venir:
    li vede, e rapito d’ignoto contento,
    con l’agile speme precorre l’evento,
    e sogna la fine del duro servir.

    E dietro i fuggiaschi, con la spada avida di sangue, come cani lanciati all’inseguimento di una preda, arrivano altri guerrieri ( i francesi) da destra e da sinistra correndo e frugando ovunque; li vede e preso da uno sconosciuto sentimento di felicità, anticipa gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù.


    Udite! Quei forti che tengono il campo,
    che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
    son giunti da lunge per aspri sentier:
    sospeser le gioie dei prandi festosi,
    assursero in fretta dai blandi riposi,
    chiamati repente da squillo guerrier.

    Ascoltate! I guerrieri Franchi che appaiono vittoriosi e precludono la salvezza dei vostri aguzzini, sono arrivati da lontano per strade difficoltose: hanno sospeso le gioie dei banchetti, si sono alzati in fretta dai loro letti chiamati rapidamente da una tromba che annunciava la guerra .
    L’imperativo del poeta sembra una profezia che toglie l’illusione di un cambiamento repentino, ma anche un’esortazione all’azione.

    Lasciar nelle sale del tetto natio
    Le donne accorate, tornanti all’addio,
    a preghi e consigli che il pianto troncò:
    han carca la fronte de’ pesti cimieri,
    han poste le selle sui bruni corsieri,
    volaron sul ponte che cupo suonò.

    Hanno lasciato nelle stanze della casa natale le donne preoccupate che tornavano e ritornavano a dir loro Addio e li pregavano ( di aver cura di sé) e consigliavano fra le lacrime che troncavano le parole. Hanno caricato la testa con gli elmi già ammaccati dai colpi dei nemici, hanno messo le selle ai cavalli neri e sono volati sul ponte che rimbombava del rumore degli zoccoli dei cavalli in corsa.
    Da notare il cambiamento del tempo verbale ( lasciar, troncò, han carca, han poste).
    Il passato remoto, sostituito dal passato prossimo rende la scena più attuale e presente, più vicina al lettore.
    Notate l’agilità di questi versi nei quali predominano i verbi uditivi e visivi.

    A torme, di terra passarono in terra,
    cantando giulive canzoni di guerra,
    ma i dolci castelli pensando nel cor:
    per valli petrose, per balzi dirotti,
    vegliaron nell’arme le gelide notti,
    membrando i fidati colloqui d’amor.

    A schiere passarono da una terra ad un’altra cantando allegre canzoni di guerra, ma portando nel cuore la propria, dolce casa. Stettero svegli ed armati nelle fredde notti in mezzo a valli pietrose e scoscesi dirupi ricordando i discorsi d’amore con le proprie donne.
    Qui il Manzoni sposa felicemente l’ardore guerriero e la malinconia dolce per le gioie domestiche (la propria donna, la propria casa). Né il coraggio, né la nostalgia prevalgono l’una sull’altra, ma si accompagnano in un perfetto equilibrio.

    Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
    per greppi senz’orma le corse affannose,
    il rigido impero, le fami durar:
    si vider le lance calate sui petti,
    a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
    udiron le frecce fischiando volar.

    I pericoli sconosciuti di luoghi pericolosi, le marce estenuanti su per dirupi mai toccati prima da orme umane, la dura disciplina, la fame, vedere continuamente le lance calare sui petti, sfiorare gli scudi, rasentare gli elmetti, udirono le frecce volare fischiando
    Sembra quasi di poter udire la freccia che scocca e sibila.
    Ben descritta è anche la paura costante dei soldati continuamente in pericolo ed a contatto con la morte.

    E il premio sperato, promesso a quei forti,
    sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
    d’un volgo straniero por fine al dolor?
    Tornate alle vostre superbe ruine,
    all’opere imbelli dell’arse officine,
    ai solchi bagnati di servo sudor!

    E il premio sperato, (o delusi) promesso a quei valorosi sarebbe di rivoltare la condizione di un popolo straniero per mettere fine al suo dolore? Tornate alle vostre superbe rovine ( gli atrii muscosi, i fori cadenti), alle opere inutili delle riarse officine, ai campi bagnati di sudore servile. Come possono essere gli italiani così ingenui da pensare che questo popolo abbia patito tante sofferenze per dare a loro a libertà?

    Il forte si mesce col vinto nemico
    Col nuovo signore rimane l’antico;
    l’un popolo e l’altro sul collo vi sta:
    Dividono i servi, dividon gli armenti;
    si posano insieme sui campi cruenti
    d’un volgo disperso che nome non ha.

    I Franchi vittoriosi si uniscono ai nemici vinti. Accanto al nuovo padrone rimane quello vecchio; gli uni e gli altri vi domineranno:
    Si dividono gli schiavi e gli armenti. Si adageranno insieme sui campi bagnati di sangue che appartengono ad un popolo disperso e senza nome.
    L’autore profetizza così la sorte che attende i pavidi ed inetti italici.
    E così puntualmente avvenne.
    Carlo Magno, dopo aver donato alcuni feudi ai duchi longobardi che avevano tradito Desiderio, assunse il titolo di Re dei Franchi e dei Longobardi.

    Il coro è la sintesi del dramma di tre popoli: quello dei Longobardi, costretti alla fuga; quello dei Franchi vittoriosi, ma a prezzo di grandi sacrifici, fatiche e pericoli; quello degli italici, volgo disperso che si illude di poter riacquistare la libertà.
    La guerra crudele con i suoi orrori e le sue scene di sangue e morte è contemplata dal poeta con la tristezza di un cristiano che accetta con rassegnazione lo scorrere lento della storia intrisa di sangue e lacrime.
    Il popolo italico, accorso al rumore della battaglia, osserva pieno di ansia e speranza.
    Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo che discende dagli antichi romani.
    Come può illudersi che quei guerrieri abbiamo lasciato le loro case, la moglie, i figli, gli agi per venire a liberarlo?
    Si rassegni dunque a continuare ad essere un popolo dominato ed asservito allo straniero, che certo non butterà via la sua vita per ridare la patria perduta ad un volgo che non ha più dignità né virtù.

    Questo era il messaggio che Manzoni mandava agli italiani nel 1822: il suo forte contributo al risveglio risorgimentale.

    Metrica: strofe di sei versi dodecasillabi e senari doppi
     
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  2. metalloso
     
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    fantastico.
     
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  3. michiamo
     
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    miiiiiiiiiiiiiiitico
     
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  4. leoilpoeta
     
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    grazie a te sono riuscito a fare il compito per domani sei un mitooo
     
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  5. lucciotto91
     
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    CITAZIONE (leoilpoeta @ 26/1/2009, 20:57)
    grazie a te sono riuscito a fare il compito per domani sei un mitooo

    pure io ti, amo!
     
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  6. sterki94
     
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    tenks davvero
     
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  7. Soty
     
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    grande!
     
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  8. Nameee
     
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    GRAZIE GRAZIE E ANCORA GRAZIE. *_*
     
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    Che fatica un Kaulitz.
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  10. 666 manganiana
     
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    grazie!! così potrò fare la verifica! xD
     
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  11. Me-io-je
     
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    I <3 U !!!!!
     
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  13. federico Albert
     
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    Una precisazione, c'è un errore di battitura. hai scritto "le note létebre" invece che "le note latèbre". Nulla di grave, me la ricordavo a memoria ed ho trovato questa differenza. Grazie
     
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  14. dancers
     
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    grazieeeeeee........
     
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    CITAZIONE (uno @ 17/10/2007, 16:16) 
    Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti,
    dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
    dai solchi bagnati di servo sudor;
    un volgo disperso, repente si desta,
    intende l’orecchio, solleva la testa,
    percosso da novo crescente romor.

    Un volgo disperso all’udire un rumore insolito che aumenta continuamente di intensità, esce all’improvviso dagli atrii dei vecchi palazzi coperti di muschio, dalle piazze cadenti (perché lasciate andare in rovina), dai boschi, dalle officine e dai campi bagnati dal sudore dei contadini divenuti servi (dei Longobardi).
    Il volgo disperso sono gli italiani ridotti in schiavitù dai dominatori longobardi; una massa di persone anonime, stanca, umiliata dalla condizione in cui si trova e divisa fra i vari signori, cioè dispersa.
    La scena di grande effetto si svolge fra i “fori cadenti”, cioè luoghi in rovina, abbandonati all’incuria di chi non ha più voglia di mantenere bello e pulito il luogo in cui vive; negli androni delle case talmente trascurati da avere il muschio sulle pareti; nei boschi, nei campi bagnati dal sudore di persone ridotte in condizione servile.
    L’inizio del coro si presenta ricco di movimento con questa folla di gente di tutti ceti che si risveglia dopo un lungo periodo di schiavitù.
    Senti i suoni aspri e sibilanti della lettera s che ha la funzione di far risaltare l’idea del ferro rovente quando viene buttato nell’acqua

    Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
    quel raggio di sole da nuvoli folti,
    traluce de’ padri la fiera virtù:
    ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
    si mesce e discorda lo spregio sofferto
    col misero orgoglio di un tempo che fù.

    Dagli sguardi interrogativi, dai volti impauriti, come un raggio di sole che esce da folte nuvole, balena l’antico orgoglio degli avi: negli sguardi e nei volti si mescolano e si alternano l’avvilimento subito e l’orgoglio del tempo passato.
    L’orgoglio del passato diventa speranza per il futuro.
    I versi sono spezzati a metà e gli accenti variati per esprimere l’avvicendamento della speranza e della paura.
    Misero orgoglio perché basato sul ricordo delle imprese gloriose dei padri (cioè i romani): severa condanna alla paura ed all’incapacità degli italiani di ribellarsi.


    S’aduna voglioso, si sperde tremante,
    per torti sentieri con passo vagante,
    fra tèma e desire, s’avanza e ristà;
    e adocchia e rimira scorata e confusa
    de’ crudi signori la turba diffusa,
    che fugge dai brandi, che sosta non ha.

    Si raduna desideroso ( di conoscere le sorti della battaglia), ma subito di disperde impaurito per vie tortuose col passo incerto di chi non ha una meta, fra paura e desiderio avanza e si ferma: guarda e riguarda la schiera dispersa e sbandata ( dei Longobardi) dei crudeli padroni che fugge dalle spade (dei Franchi) senza concedersi un attimo di sosta.
    Notate come il ritmo ripetuto e pressante dei versi rispecchi l’ansimare e la fatica della corsa.


    Ansanti li vede quai trepide fere,
    irsuti per tèma le fulve criniere,
    le note lètebre del covo cercar;
    e quivi, deposta l’usata minaccia,
    le donne superbe, con pallida faccia,
    i figli pensosi pensose guatar.

    Li vede ansimanti come animali feroci impauriti, con le folte criniere irte per la paura, cercare un nascondiglio nelle loro case e qui abbandonata l’abituale alterigia e superbia, le donne (longobarde) col volto pallido (per la paura) guardano i loro figli ammutoliti ( per l’incertezza di quanto avverrà)
    Da notare la parola “ansanti”. Ansanti per la fatica della corsa, ma anche per lo smarrimento e l’incertezza.

    E sopra i funggenti, con avido brando,
    quai cani disciolti, correndo, frugando,
    da ritta, da manca, guerrieri venir:
    li vede, e rapito d’ignoto contento,
    con l’agile speme precorre l’evento,
    e sogna la fine del duro servir.

    E dietro i fuggiaschi, con la spada avida di sangue, come cani lanciati all’inseguimento di una preda, arrivano altri guerrieri ( i francesi) da destra e da sinistra correndo e frugando ovunque; li vede e preso da uno sconosciuto sentimento di felicità, anticipa gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù.


    Udite! Quei forti che tengono il campo,
    che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
    son giunti da lunge per aspri sentier:
    sospeser le gioie dei prandi festosi,
    assursero in fretta dai blandi riposi,
    chiamati repente da squillo guerrier.

    Ascoltate! I guerrieri Franchi che appaiono vittoriosi e precludono la salvezza dei vostri aguzzini, sono arrivati da lontano per strade difficoltose: hanno sospeso le gioie dei banchetti, si sono alzati in fretta dai loro letti chiamati rapidamente da una tromba che annunciava la guerra .
    L’imperativo del poeta sembra una profezia che toglie l’illusione di un cambiamento repentino, ma anche un’esortazione all’azione.

    Lasciar nelle sale del tetto natio
    Le donne accorate, tornanti all’addio,
    a preghi e consigli che il pianto troncò:
    han carca la fronte de’ pesti cimieri,
    han poste le selle sui bruni corsieri,
    volaron sul ponte che cupo suonò.

    Hanno lasciato nelle stanze della casa natale le donne preoccupate che tornavano e ritornavano a dir loro Addio e li pregavano ( di aver cura di sé) e consigliavano fra le lacrime che troncavano le parole. Hanno caricato la testa con gli elmi già ammaccati dai colpi dei nemici, hanno messo le selle ai cavalli neri e sono volati sul ponte che rimbombava del rumore degli zoccoli dei cavalli in corsa.
    Da notare il cambiamento del tempo verbale ( lasciar, troncò, han carca, han poste).
    Il passato remoto, sostituito dal passato prossimo rende la scena più attuale e presente, più vicina al lettore.
    Notate l’agilità di questi versi nei quali predominano i verbi uditivi e visivi.

    A torme, di terra passarono in terra,
    cantando giulive canzoni di guerra,
    ma i dolci castelli pensando nel cor:
    per valli petrose, per balzi dirotti,
    vegliaron nell’arme le gelide notti,
    membrando i fidati colloqui d’amor.

    A schiere passarono da una terra ad un’altra cantando allegre canzoni di guerra, ma portando nel cuore la propria, dolce casa. Stettero svegli ed armati nelle fredde notti in mezzo a valli pietrose e scoscesi dirupi ricordando i discorsi d’amore con le proprie donne.
    Qui il Manzoni sposa felicemente l’ardore guerriero e la malinconia dolce per le gioie domestiche (la propria donna, la propria casa). Né il coraggio, né la nostalgia prevalgono l’una sull’altra, ma si accompagnano in un perfetto equilibrio.

    Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
    per greppi senz’orma le corse affannose,
    il rigido impero, le fami durar:
    si vider le lance calate sui petti,
    a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
    udiron le frecce fischiando volar.

    I pericoli sconosciuti di luoghi pericolosi, le marce estenuanti su per dirupi mai toccati prima da orme umane, la dura disciplina, la fame, vedere continuamente le lance calare sui petti, sfiorare gli scudi, rasentare gli elmetti, udirono le frecce volare fischiando
    Sembra quasi di poter udire la freccia che scocca e sibila.
    Ben descritta è anche la paura costante dei soldati continuamente in pericolo ed a contatto con la morte.

    E il premio sperato, promesso a quei forti,
    sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
    d’un volgo straniero por fine al dolor?
    Tornate alle vostre superbe ruine,
    all’opere imbelli dell’arse officine,
    ai solchi bagnati di servo sudor!

    E il premio sperato, (o delusi) promesso a quei valorosi sarebbe di rivoltare la condizione di un popolo straniero per mettere fine al suo dolore? Tornate alle vostre superbe rovine ( gli atrii muscosi, i fori cadenti), alle opere inutili delle riarse officine, ai campi bagnati di sudore servile. Come possono essere gli italiani così ingenui da pensare che questo popolo abbia patito tante sofferenze per dare a loro a libertà?

    Il forte si mesce col vinto nemico
    Col nuovo signore rimane l’antico;
    l’un popolo e l’altro sul collo vi sta:
    Dividono i servi, dividon gli armenti;
    si posano insieme sui campi cruenti
    d’un volgo disperso che nome non ha.

    I Franchi vittoriosi si uniscono ai nemici vinti. Accanto al nuovo padrone rimane quello vecchio; gli uni e gli altri vi domineranno:
    Si dividono gli schiavi e gli armenti. Si adageranno insieme sui campi bagnati di sangue che appartengono ad un popolo disperso e senza nome.
    L’autore profetizza così la sorte che attende i pavidi ed inetti italici.
    E così puntualmente avvenne.
    Carlo Magno, dopo aver donato alcuni feudi ai duchi longobardi che avevano tradito Desiderio, assunse il titolo di Re dei Franchi e dei Longobardi.

    Il coro è la sintesi del dramma di tre popoli: quello dei Longobardi, costretti alla fuga; quello dei Franchi vittoriosi, ma a prezzo di grandi sacrifici, fatiche e pericoli; quello degli italici, volgo disperso che si illude di poter riacquistare la libertà.
    La guerra crudele con i suoi orrori e le sue scene di sangue e morte è contemplata dal poeta con la tristezza di un cristiano che accetta con rassegnazione lo scorrere lento della storia intrisa di sangue e lacrime.
    Il popolo italico, accorso al rumore della battaglia, osserva pieno di ansia e speranza.
    Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo che discende dagli antichi romani.
    Come può illudersi che quei guerrieri abbiamo lasciato le loro case, la moglie, i figli, gli agi per venire a liberarlo?
    Si rassegni dunque a continuare ad essere un popolo dominato ed asservito allo straniero, che certo non butterà via la sua vita per ridare la patria perduta ad un volgo che non ha più dignità né virtù.

    Questo era il messaggio che Manzoni mandava agli italiani nel 1822: il suo forte contributo al risveglio risorgimentale.

    Metrica: strofe di sei versi dodecasillabi e senari doppi
     
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