Riassunto capitolo per capitolo dei Promessi Sposi

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    RIASSUNTI


    Capitolo I. Una sera del mese di novembre 1628, su una stradina lungo la sponda del lago di Como, cammina un frate, don Abbondio. Mentre cammina ha alcuni pensieri che vengono improvvisamente interrotti dall’apparizione di due bravi, due brutti tipi al servizio di un signorotto spagnolo molto potente.
    Dopo avere descritto le caratteristiche dei bravi, Manzoni comincia a raccontare il colloquio tra i bravi e don Abbondio: i bravi dicono al curato che, in nome del loro potente padrone, don Rodrigo, il matrimonio fra Renzo e Lucia “non s’ha da fare!”. Don Abbondio, impaurito, assicura la propria fedeltà al potente signore spagnolo promettendo che non celebrerà il matrimonio, già fissato.
    Questo atteggiamento debole viene visto alla luce della giustizia del seicento, dove le minacce sono frequenti e non sono mai punite, e viene sottolineata la natura debole e paurosa del curato.
    Conclusa questa riflessione del poeta, si torna alla narrazione con il ritorno a casa del curato, che racconta il suo incontro alla sua serva, Perpetua.


    Capitolo II. Al mattino successivo, quando Renzo si reca alla chiesa, apprende che per alcune formalità il matrimonio deve rinviarsi. Poco convinto, sul punto di allontanarsi, incontra Perpetua che non può fare a meno di fargli intendere che le ragioni sono ben altre. Nuovo colloquio tempestoso con don Abbondio, costretto da Renzo a rivelare che l'impedimento è don Rodrigo, il signorotto del paese. Renzo, disperato, corre alla casa di Lucia.

    Capitolo III. Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli.
    L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo.
    Intanto Lucia insiste con la madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo.
    Ritorna Renzo, deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.

    Capitolo IV. Padre Cristoforo, avvertito da Lucia, esce dal suo convento di Pescarenico e si reca alla casa delle due donne. Il capitolo è in gran parte occupato dalla narrazione della giovinezza del frate: figlio di un facoltoso mercante, aveva ricevuto una raffinata educazione. Venuto un giorno a diverbio con un nobile, l'aveva ucciso in duello; quindi, per espiazione, s'era fatto frate, mutando il nome di Lodovico in quello di Cristoforo.

    Capitolo V. Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.

    Capitolo VI.
    Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio. Don Rodrigo scaccia il frate che prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.

    Capitolo VII. Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.

    Capitolo VIII. È il capitolo della «notte degli imbrogli», che comincia col fallimento del tentativo di matrimonio «a sorpresa»; don Abbondio, con furia inusitata, si libera degli intrusi e dà l'allarme: il campanaro Ambrogio, credendo la canonica invasa dai ladri, suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna, altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno trovato vuota la sua casa. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo, avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i fuggitivi di recarsi al convento.

    Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.

    Capitolo IX.Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia, che continua anche nel capitolo X.
    Geltrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.

    Capitolo X. Geltrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
    Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che vengono accolte da Geltrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.

    Capitolo XI. Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate.

    Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato.Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.

    Capitolo XII. La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».

    Capitolo XIII. Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione, cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.

    Capitolo XIV. Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente, fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del tutto ubriaco, Renzo va a dormire.

    Capitolo XV. Renzo, essendo ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio.

    Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.

    Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.

    Capitolo XVI. Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo, dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il rischio gravissimo che ha corso.

    Capitolo XVII. Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto calunnioso. Dopo alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.

    Capitolo XVIII. Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.

    Capitolo XIX. Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.

    Capitolo XX. Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.

    Capitolo XXI. Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa «conversione dell'Innominato».

    Capitolo XXII. L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.

    Capitolo XXIII. Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.

    Capitolo XXIV. Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.

    Capitolo XXV. Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.

    Capitolo XXVI. Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.

    Capitolo XXVII. La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.

    Capitolo XXVIII. Questo è un capitolo, in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.

    In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.

    Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.

    Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.

    Capitolo XXIX. Nel paese di Lucia, per sfuggire ai saccheggi, don Abbondio, Perpetua e Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta, la gente della zona.

    Capitolo XXX. La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.



    Capitoli XXXI e XXXII. Il passaggio delle milizie straniere ha lasciato la peste che comincia a imperversare a Milano e nel contado. In città la confusione è grande. Il cardinale ordina una processione espiatoria che non fa che accrescere il contagio. Dovunque si parla di untori, cioè di agenti del nemico incaricati di spargere la peste ungendo le porte e i muri delle case. Si istituiscono anche «infami» processi contro innocenti, accusati dall'isterismo popolare.

    Capitolo XXXIII. Tra i colpiti dalla peste è don Rodrigo, tradito dal Griso e consegnato ai monatti, i raccoglitori dei morti e dei contagiati. Renzo, che ha superato la malattia, ora che nessuno si cura più di lui, si mette in cerca di Lucia, e si reca al paese, dove trova la desolazione; da don Abbondio apprende che Perpetua è morta insieme con molti altri, che Agnese è presso parenti a Pasturo e che Lucia è a Milano, presso la famiglia di don Ferrante.

    Capitolo XXXIV. Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione. Assiste all'episodio patetico della madre di Cecilia, la bambina morta di peste. Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti.

    Capitolo XXXV. L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.

    Capitolo XXXVI. Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.

    Capitolo XXXVII. Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.

    Capitolo XXXVIII. Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».

    SCHEDE PERSONAGGI


    Renzo
    Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.

    Lucia
    Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.

    Agnese
    Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.

    Padre Cristoforo
    Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.

    Cardinal Federigo
    All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.

    Innominato
    L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.

    Don Rodrigo
    Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.

    Don Abbondio
    Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.

    Gertrude
    La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.

    VITA DI ALESSANDRO MANZONI


    Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Pietro e Giulia Beccaria. Il matrimonio dei genitori non è felice , fu fatto per interesse in quanto il patrimonio dei Beccaria era in dissesto ; Giulia Beccaria lascia così il marito . Si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati andando a vivere a Parigi. Alessandro vive dapprima in collegio, ma, dopo la morte del padre, raggiunge la madre. Gli anni nella capitale francese, dal 1805 al 1810, sono decisivi nella sua formazione culturale, che è sostanzialmente di stampo illuminista, razionalista e anticlericale. L'avvenimento più importante della sua vita sarà perciò la conversione al cattolicesimo, che avverrà intorno al 1810, due anni dopo il suo matrimonio con Enrichetta Blondel. Proprio Enrichetta lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie. Lo stesso anno della sua conversione Manzoni torna a vivere a Milano, dove resterà poi fino alla morte, ad eccezione di alcuni mesi trascorsi a Parigi, tra il 1819 e il 1820, e di qualche breve viaggio a Firenze, nel 1827 e nel 1856.
    L'esistenza dello scrittore trascorre quindi nel lavoro e nell'intimità familiare, lontano dalla curiosità e dagli impegni mondani, tra Milano e la sua villa di Brusuglio, nella campagna lombarda. Ecco perché, oltre alle date di pubblicazione delle sue opere, pochi sono i fatti da registrare della sua lunga vita, protrattasi fino al 1873 e attraversata da dolorosi lutti: la morte, nel 1833, della prima adorata moglie; poi, quella della madre, nel 1841; della seconda moglie Teresa Stampa, nel 1861; e infine di ben sei dei suoi otto figli. Tra i pochi avvenimenti della vita manzoniana si ricorderanno la partecipazione, nel 1861, dopo la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia, alla prima seduta del Parlamento; il suo intervento, nel 1864, alla votazione per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze; l'accettazione, nel 1870, della cittadinanza romana, per dimostrare pubblicamente la propria convinzione della necessità della scomparsa del potere temporale della Chiesa.

    Le opere giovanili di Manzoni nascono nel clima culturale milanese, dominato dalla presenza di Vincenzo Monti. Così è del Trionfo della libertà, composto dopo la pace di Luneville, nel 1801, e così è anche dell'epistola in versi l'Adda, del 1803. Più tardi, nei Sermoni (1804), Manzoni tenta i modi della poesia satirica, guardando al Parini come maestro. Il testo più maturo e signifìcativo dell'opera giovanile manzoniana è tuttavia il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), che costituisce un documento assai eloquente della precoce e robusta maturità morale di Manzoni, della sua ricerca di un programma austero di vita.

    La storia autentica della poesia manzoniana inizia però con gli Inni sacri, che testimoniano della conversione religiosa del loro autore. Dopo la conversione al cattolicesimo, Manzoni progetta una serie di dodici Inni sacri, dedicati ciascuno ad una festività della Chiesa: di essi ne porterà a termine solo cinque, i primi quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) e il quinto (La Pentecoste) tra il 1817 e il 1822. In questi Inni Manzoni non si occupa soltanto degli aspetti dogmatici e teologici del cristianesimo, ma soprattutto dei suoi aspetti morali e sociali, più direttamente vissuti dalla coscienza religiosa popolare.

    Dopo la stagione degli Inni sacri, tra il 1815 e il 1822, si apre un altro lungo periodo di riflessione inferiore che porta ad un crudo pessimismo: la conquista di un " credo " religioso viene sottoposta ad un processo di discussione, mentre l'attenzione di Manzoni si apre ad una complessa visione delle ragioni dell'esistenza e si sforza di rintracciare nella storia i segni visibili di una presenza divina. In questo periodo di riflessione nascono le odi civili, e tra di esse il Marzo 1821, in cui Manzoni, celebrando l'unirsi delle forze piemontesi e lombarde contro l'oppressore austriaco (un'unione in cui egli scorge il segno della volontà di Dio), proclama il suo ideale unitario di patria, nel sogno di un'Italia " una d'arme, di lingua, d'altare ".

    Più che in queste odi, tuttavia, è nelle tragedie che si può osservare l'ampliarsi della problematica manzoniana. Ciò che importa allo scrittore, nel suo teatro, è la rappresentazione di una drammatica tensione morale dei suoi personaggi: i quali, quanto più sono impegnati a combattere per un ideale generoso, tanto più appaiono poi travolti dalle leggi della forza e della violenza che dominano il mondo. È questa la situazione del Conte di Carmagnola (1820), ma soprattutto dell'Adelchi (1822), nella quale è rappresentato il momento conclusivo della guerra tra franchi e longobardi. Adelchi, figlio di Desiderio, re dei longobardi, è il personaggio-chiave della tragedia. Al fedele Anfrido confessa in un momento di smarrimento: "Il core mi comanda / alte e nobili cose; e la fortuna [il destino] / mi comanda ad inique ". Ed in ciò sta la sua personale vicenda drammatica e il problema morale che Manzoni vuoi rappresentare. La realtà si oppone al desiderio dell'uomo di operare nel giusto; ogni sua azione sfocia in una direzione opposta a quella voluta. Ed è proprio questa condizione assurda, ma tragica, in cui l'uomo viene a trovarsi, che determina quella scelta a non agire. Solo non agendo è possibile infatti non commettere il male: Adelchi, "trascinato" per una via che non ha potuto scegliere, germe " caduto in rio [cattivo] terreno / e balzato dal vento ", diviene così l'eroe romantico della non azione.

    Nell'ambito di questi problemi si pone anche l'ode celebrativa scritta in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, il Cinque maggio, del 1821. L'immagine di Napoleone pare diventare l'immagine simbolo di un uomo che, pur nell'aspirazione a portare nel mondo le idee per una vita più giusta, seminava l'Europa di stragi. Senonché, rispetto all'Adelchi, nel Cinque maggio i termini appaiono capovolti: il destino di Napoleone, svela in realtà l' "orma" di un preciso disegno provvidenziale di Dio, riassume simbolicamente il percorso stesso della storia, la quale, attraverso la sua tragica vicenda di sangue e di violenza, sfocia a giuste conquiste. E da questa concezione della storia, in cui la Provvidenza divina segna il suo cammino, nascerà il capolavoro manzoniano, I promessi sposi appunto, pubblicato una prima volta nel 1827 e, in edizione definitiva, nel 1840. La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il '42. Vi è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è attenuata (ad es, le due figure di don Rodrigo e della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi).

    Importanti saranno pure i suoi scritti sulla lingua. Attraverso una serie di testi (Sulla lingua italiana e Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, ambedue del 1845; Lettera al marchese Casanova, del 1871), Manzoni elabora infatti una sua organica teoria linguistica, la quale trova il suo punto di riferimento costante nel principio che la lingua scritta deve accostarsi a quella parlata. La norma di ogni scelta linguistica non sta quindi in una conferma che venga da un uso letterario, ma semplicemente nella conferma del parlato. Su questa base teorica Manzoni discute il problema dell'unità linguistica italiana: essa, vista la diversificazione notevole della lingua parlata nelle varie regioni, non può essere raggiunta che attraverso l'uniformarsi delle singole parlate a quella di maggior prestigio, cioè alla fiorentina. Nel parlato fiorentino delle persone colte, Manzoni indica perciò la norma da seguire per l'unificazione linguistica italiana.



    OPERE DEL MANZONI


    INNI SACRI

    Prima opera dopo la conversione: gli inni sono un componimento religioso simile all'ode = ne voleva scrivere 12, come gli apostoli e come le più importanti ricorrenze Cattoliche, dedicato ognuno ad un Dogma (verità rivelate): ne riuscì a scrivere solo 5: "la Resurrezione"; "il nome di Maria"; "il Natale"; "la Crocifissione"; "la Pentecoste" (unico veramente riuscito: 50 giorni dopo la morte di Gesù scende sugli apostoli lo Spirito Santo)

    OPERE TEATRALI

    Manzoni coltivò molto la passione per la tragedia tanto che ne scrisse due, tra il 1816 e il 1822, di larghissimo successo:
    Il Conte di Carmagnola
    Adelchi

    Le tragedie sono opere scritte in versi destinate alla recitazione - Sono state riscoperte e rilanciate da Vittorio Alfieri - Presso i Greci era la forma più alta di Arte - Trattano di temi importantissimi con personaggi altrettanto importanti e di alta levatura sociale (non gente umile che poteva essere protagonista solo di commedie a lieto fine), che spesso presentavano un finale tragico - La tragedia tratta di realtà non quotidiane; mentre la commedia è legata a realtà umili e comuni. Entrambe le tragedie del Manzoni sono tragedie storiche in cui l'importanza della storia è fondamentale (Romanticismo =/= per gli Illuministi come Cartesio, studiare storia era come perdere tempo facendo turismo).

    DRAMMA DEL POTERE = come nell'Alfieri, nel Manzoni si ritrova un tema comune: i protagonisti iniziano le loro avventure in una condizione di detenzione del potere che perde, ritrovandosi in un mare di guai che conducono al carcere, alla prigionia ed infine alla morte. In questo contesto si inserisce anche il concetto di tragedia storica: ciò che il Manzoni narra sono drammi del potere realmente accaduti e documentati.

    Il conte di Carmagnola

    Il conte di Carmagnola era un capitano di ventura della prima metà del 1400 che dopo aver prestato servizio a lungo per il Ducato di Milano si trasferì a Venezia per comandare le truppe venete. Il destino volle che fu costretto a comandare anche una battaglia contro le truppe mercenarie di Milano: le sconfisse ma non le inseguì per fare prigionieri (era solito tra due eserciti di soldati mercenari non fare prigionieri e addirittura non inseguire gli sconfitti). Il Senato di Venezia avvisato del comportamento del Conte e anche influenzato da antagonisti dello stesso, lo condannò per alto tradimento alla pena di morte = Dramma del peccato, del potere e dell'ingiustizia. Dalla lettura dell'opera si capisce come il Manzoni simpatizzi essenzialmente per il Conte che rappresenta il Potere Militare, mentre disdegni il Senato che rappresenta il Potere Politico = risalta la simpatia del Manzoni per le virtù militari = Questo fatto è sostenuto dagli avvenimenti storici dei primi anni del 1800: nel 1814-15 si sviluppò il dramma di Napoleone che dopo essere stato sconfitto a Waterloo e dopo aver visto la disgregazione del suo Impero fu costretto all'esilio sull'isola di Sant'Elena; questi avvenimenti sconvolsero soprattutto il Manzoni a causa dell'abuso del potere politico attuato da Austria e Russia nella spartizione dell'Europa e soprattutto dell'Italia.

    Adelchi

    Adelchi è il figlio dell'ultimo Re Longobardo, Desiderio: i Longobardi furono uno dei popoli barbari che invasero il Centro-Nord Italia dopo la caduta dell'Impero Romano tra il 400 e il 500 d.C. e furono sconfitto da CarloMagno chiamato dal Papa in suo soccorso.

    1° atto CarloMagno aveva sposato Ermengarda, figlia di Desiderio ma la ripudia quando dopo essere stato chiamato dal Papa decide di scendere in Italia per combattere i Longobardi. Ermengarda cade in una crisi profonda a causa del suo completo amore per Carlo: dopo il ritorno a casa si ritirerà in un convento per finire i suoi giorni lontano dal mondo. Desiderio decide di muovere guerra contro CarloMagno.

    Nel primo atto si delinea lo schema dei personaggi:
    Adelchi: figlio di Desiderio;
    Desiderio: Re dei Longobardi; Anfrido: fedele scudiero nonché miglior amico di Adelchi; Svarto: soldato ambizioso che con altri suoi compari decide di allearsi con Carlo dubitando delle possibilità di vittoria dell'esercito longobardo.

    2° atto

    Mentre Pietro (commissario papale) cerca di convincere Carlo a non demordere nonostante l'invalicabilità delle Chiuse, il dicono di Ravenna, Martino, confida all'Imperatore un passaggio segreto per aggirare le Chiuse e attaccare il campo longobardo da un lato indifeso.

    3° atto

    Nel campo longobardo Adelchi confida ad Anfrido il suo desiderio di Gloria (ideale romantico che si ottiene con grandi imprese) che sente irrealizzabile. I Franchi attaccano e nello scontro Anfrido muore eroicamente. L'esercito longobardo si divide in due: una parte, comandata da Svarto di pone agli ordini di Carlo; l'altra si divide ulteriormente in due e segue Adelchi a Verona, Desiderio a Pavia. L'atto si chiude con un CORO: Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti (T105a - pag. 899); con il coro l'autore dell'opera si riserva una parte per fare commenti = entrano in palcoscenico attori non protagonisti che presentano le riflessioni dell'autore sottoforma di canto.

    T 105 A Parole piane = accento sulla penultima sillaba. tronche = accento sull'ultima sillaba. Si parla degli italiani (tema patriottico = tragedia della patria) che combattendosi tra loro rischiano di esporre il fianco agli invasori stranieri. I Longobardi del 700 fanno venire in mente gli austriaci del 1800. I Franchi sono invece i francesi di Napoleone, tiranno illusore che ha dato speranze al popolo italiano di liberarlo dalla dominazione straniera pur essendo lui stesso uno straniero = sin dal Trattato di Campoformio si era capito che i francesi volevano dominare l'Italia. Ma gli italiani di allora non si accorgono di queste finezze e accorrono ad assistere gioiosamente alla sconfitta dei Longobardi dai quali saranno in seguito ancora dominati con l'appoggio dei francesi.

    Versi 1-6

    Da 2 secoli non si combattono più guerre ed il popolo latino è abituato alla servitù: nel mondo antico, comanda che combatteva in guerra, mentre chi veniva sottomesso era costretto alla servitù = il rumore di battagli è una grande novità.

    Versi 7-12 Orgoglio di essere discendenti dei romani che conquistarono il mondo.

    Versi 13-18 Timore = del castigo longobardo Il popolo latino vede per la prima volta i suoi dominatori in fuga, sconfitti.

    Versi 19-24 Longobardi simili a bestie, "fere", impaurite che cercano affannosamente un nascondiglio, una tana; dove le donne longobarde li guardano senza il solito sguardo superbo e minaccioso e con la faccia pallida, pensosi.

    Versi 25-30 La guerra è descritta dal Manzoni cristiano come una cosa bestiale = una caccia: infatti i nobili si allenavano alla guerra in tempo di pace andando a caccia

    Versi 31-60 Interviene il Manzoni che si rivolge al pubblico presente a teatro; chiede, infine, in modo altamente ironico se il premio da attribuire ai Franchi per quello che dovettero affrontare è liberare dalla schiavitù un popolo diviso e straniero, di cambiargli il destino.

    Ruine = rovine dell'impero romano.
    Imbelli: non adatti alla guerra = in (non) bellum (guerra).

    Versi 61-66 Franchi e Longobardi si mescolano e governano insieme opprimendo (stare sul collo) il popolo italiano. Servi = greggi = animali: i servi venivano trattati come bestie, come merce da spartirsi. In fin dei conti al popolo latino dominato dai Longobardi successe ciò che è accaduto al popolo padano nel 1800: due popoli stranieri (Francia ed Austria) combattono per il dominio su un altro popolo (Italia). PROBLEMATICHE POLITICHE, STORICHE E RELIGIOSE: la libertà sembra che sia degna solo di coloro che combattono e che vanno in guerra = l'insegnamento di Dio è l'esatto opposto.

    4° atto Muore Ermengarda dopo aver appreso la notizia che Carlo ha contratto nuove nozze. Alla scena segue il Coro Sparsa le trecce morbide (T105b - pag. 901).

    T 105 B Il coro che viene presentato nell'atto 4° si riferisce alla morte di Ermengarda: TRAGEDIA DEL RIPUDIO. Lei e suo fratello Adelchi sono i due personaggi su cui le tragedia si realizzano: Ermengarda dopo essere stata ripudiata si rinchiude in un convento a Brescia dove morirà per il dolore dato dall'amore per CarloMagno SCHEMA METRICO: strofe di 6 versi settenari, sdruccioli i versi dispari, piani e rimati il 2° ed il 4°, mentre è tronco l'ultimo (= verso un po' artificioso ma adatto al contesto di morte e tragedia del Coro). Con le morbide trecce adagiate sul petto che sussulta affannosamente, con le mani (palme) abbandonate (lenta) e con il viso pallido e sofferente di morte imminente, giace Ermengarda, donna di grande pietà (pia), mentre il suo sguardo, tipico dei moribondi, erra alla ricerca del Paradiso. Intanto il pianto intorno a lei cessa e iniziano le preghiere delle sorelle: una mano gelida e leggera (quella della morte) cala sul suo viso e le abbassa le palpebre oscurando la pupilla azzurra. Ora il Manzoni si rivolge all'anima di Ermengarda = Sgombra, o nobile, i pensieri dolorosi che portavi nella mente angosciata; leva a Dio un puro pensiero di offerta (offriti a Lui): il Paradiso è la meta della tua lunga sofferenza terrestre. Il destino terreno della povera Ermengarda era immutabile: Dio non le avrebbe mai concesso di dimenticare Carlo come lei voleva perché per destino per salire in Paradiso tra i Santi doveva soffrire in terra = la sofferenza la rende santa al cospetto dei Santi del Paradiso. [TEMA DELLA DIMENTICANZA: con questo termine si vuole indicare il fatto che nei momenti infelici della vita salgono alla mente i ricordi felici = il Manzoni richiama spesso questo tema, quanto nei Promessi Sposi, tanto nel "5 Maggio".] Nel buio delle notti trascorse insonni tra i chiostri, da sola, ai piedi degli altari a chiedere a Dio di dimenticare Carlo, venivano inconsciamente alla memoria tutti i momenti più lieti passati alla corte francese con l'amato quando, ignara del suo traditore avvenire, ubriaca di felicità, respirò la salutare aria della terra Franca apparendo in mezzo alle spose di Francia. Quando da una collina vedeva, con i capelli ornati da gemme, le immagini (Carlo che cavalcava chino a crine sciolto, seguito dalla furia degli altri cavalli e dai cani ansanti che costringevano il cinghiale ad uscire dal cespuglio, scoprendosi) della caccia culminante con l'uccisione del cinghiale: Ermengarda alla vista del sangue impallidiva e ritirava lo sguardo, per un terrore che la rendeva più bella. Infine Carlo, toltosi la maglia di ferro si andava a lavare alla Mosa (fiume di Aquisgrana) per levarsi di dosso il nobile sudore della fatica ( il sudore degli italiani e un "servo sudore").

    Dal verso 61 all'84 Manzoni fa una similitudine; parla della Rugiada (che di notte da' refrigerio al fiore, ma è anche la parola amica di una suora che le dice di pregare sempre e solo Dio) e del Sole (ricordo di Carlo che torna, e anche oggetto della natura che quando sorge uccide il fiore con la forza e l'impetuosità dei suoi raggi).

    Il Manzoni ora torna a rivolgersi ad Ermengarda. Scaccia dalla tua mente angosciata le passioni, eleva a Dio un canto eterno: nel suolo (= Lombardia) che dovrà ricoprire le tue spoglie sono sepolte altre spose che come te sono morte di dolore causato dall'amore, sono donne che hanno perso il fidanzato o i figli morti in battaglia, trafitti dalle spade longobarde. Tu, che discendi dalla famiglia regnante dei Longobardi, colpevoli oppressori, la cui legge era quella del più forte e la virtù stava nel fatto di essere maggiore di numero e la gloria nel non aver pietà dei deboli, fosti collocata dalla PROVVIDA SVENTURA tra gli oppressi: muori dunque tra il pianto delle suore, dove nessuno oserà insultare le tue spoglie. Muori e sul tuo volto torni la pace com'era quando, ignara di un traditore avvenire (v. 31), esprimeva solo lievi pensieri. Così come il sole tramontante dietro i monti, da dietro le nuvole trova uno spiraglio per arrossare il vibrante occidente ed augurare al religioso contadino un giorno sereno.

    PROVVIDA SVENTURA = sventura mandata dalla provvidenza: noi viviamo in un mondo di malvagi destinati all'inferno: Dio manda a qualcuno di questi la sventura per purificarli e renderli diversi dai malvagi: in questo modo chi prima era oppressore diviene oppresso (per Manzoni o sei l'uno o sei l'altro: non puoi stare nel mezzo) = Ermengarda da oppressore, grazie alla Provvida Sventura diventa oppressa e le si aprono così le porte del Paradiso. - La vicinanza dei due termini costituisce un ossimoro: figura retorica che consiste nell'accostamento di due termini di significato opposto: se soffrirai sulla terra avrai la possibilità di conquistare il Paradiso. Segue l'accordo tra Svarto, ora nobile del Regno dei Franchi, e il Duce Guntigi, che aveva ricevuto l'incarico da Desiderio di difendere le mura di Pavia: non mantiene l'impegno e le forze di Carlo potranno entrare in Pavia.

    5° atto Inizia con un monologo di Adelchi che ha appena ricevuto notizia dell'occupazione di Pavia e richiesta del suo esercito stremato di arrendersi ai Franchi che assediavano Verona: decide di arrendersi ma di fuggire verso Bisanzio. Le truppe franche sono più veloci di lui e lo arrestano ferendolo a morte: fa però a tempo a chiedere di incontrare il padre e Carlo al quale chiederà una dignitosa prigionia per il padre: l'Imperatore acconsentirà e Adelchi morirà.

    T 105 C Conclusione dell'Adelchi: disfatta dei Longobardi; prigionia di Desiderio; morte di Adelchi. [Collegamento con la morte di Ermengarda: perché Dio vuole salvare qualcuno? Perché c'è qualcuno che nell'intimo presenta animo e sensibilità cristiana, odiando la violenza pur dovendoci convivere = Ermengarda infatti viene salvata da Dio pur senza aver ottenuto successo terreno, che spetta solo agli oppressori che non raggiungeranno il Paradiso] Dai primi versi si capisce come il Manzoni simpatizzi per Adelchi e gli attribuisca un animo cristiano, mentre al padre l'autore riserva sempre un animo guerriero attaccato ai beni terreni = anche la morte di Adelchi rappresenta un intervento della Provvida Sventura. Infatti si nota come il giovane ne capisce il significato rendendosi conto dell'esistenza della forza della volontà divina che pur portando sventura non è crudele. Versi 23-4-5 = Desiderio ricorda le qualità del figlio, ma solo quelle militari e terrene denotando di non essere pronto all'incontro con Dio non avendo ancora afferrato il significato profondo dei valori cristiani. SOLILOQUIO DI ADELCHI (veri 26 ... 52) Il mistero della vita è comprensibile solo in punto di morte perché durante la vita non si ha il tempo per farlo = per una persona che sta per morire non è importante la perdita del regno ma quello che sarà di lui dopo la morte. Gli anni di prigionia che il padre sta per affrontare saranno molto più belli di quelli passati a regnare perché durante la prigionia non si ha la possibilità di commettere alcun torto o ingiustizia: nessuno così in cielo potrà annotare ulteriori tue angherie a causa delle imprecazioni che coloro che tu opprimi ti mandano per essere un tiranno oppressore (diverrai un oppresso salvato da Dio). Adelchi manifesta il disprezzo del potere e gli uomini che lo detengono: "godi perché non sei più Re, perché ti è chiusa ogni via all'azione (non potrai più fare niente che faccia soffrire qualche altro essere umano): su questa terra non c'è spazio per delle azioni gentili, nobili ed innocenti: o si fanno torti o si patiscono (o oppressi o oppressori) = Visione pessimistica del Manzoni. Il mondo è posseduto dalla violenza (legge del più forte) che si fa chiamare diritto del più forte, di colui che fa le leggi. I primi longobardi seminarono la barbarie che fu coltivata dagli altri successori e la terra oramai non da' altro che sangue ed ingiustizie. Godi dunque ancora di più per non essere Re: governare su gente ingiusta, i Longobardi, non è bello. Tu l'hai provata questa amarezza, e anche se così non fosse (cioè, se anche tu avessi trovato piacere nel governare un popolo crudele), ricordati che comunque tutto finirà sempre con la morte: tutto si concluderà con il diventare nulla (diverso dal nulla eterno del Foscolo). Il giorno della vittoria (morte di Adelchi) è felice per Carlo ma resta comunque il fatto che anche lui prima o poi morirà.

    A questo punto Carlo si lascia impietosire dalle parole di Adelchi e non vuole più essere chiamato nemico. Adelchi notando questa leggera conversione capisce che può ottenere qualcosa da Carlo: pur non chiedendogli la liberazione del padre, gli chiede che Desiderio possa ottenere una prigionia senza sofferenze in cui i duchi longobardi traditori non possano apparire al suo cospetto.

    Negli ultimi versi si nota la totale conversione di Adelchi che felice si abbandona alla morte. Analizzando il personaggio di CarloMagno si nota come, anche se nella tradizione cristiana egli fosse considerato l'Imperatore Cristiano, il Manzoni sottolinea il fatto che Carlo nell'Adelchi abbia preferito la Ragion di Stato al Vangelo: Manzoni vede Carlo come uomo di potere e non di Chiesa.

    POETICA DEL MANZONI

    La storia è di fondamentale importanza sia nel Manzoni che nel Romanticismo che vedono nella storia Medievale la culla della civiltà. Per Manzoni, dunque, la storia ha grandissima importanza (tragedie, romanzi e poesie storici: con un legame fondamentale con gli avvenimenti storici = Promessi Sposi e 5 Maggio). La storia è importante perché si contrappone al mito, alla leggenda del Neoclassicismo: i miti sono favole inventate; la storia è realtà, un insieme di vicende realmente accadute. Manzoni ama la verità e pensa che il primo compito di un uomo di pensiero sia giungere a scoprire la verità, non di certo attraverso i miti (favole che a volte contengono falsità e bugie) ma con vicende storiche. Infatti gli Dei pagani erano falsi: idee pagane false.

    VERITA' = STORIA

    In Manzoni c'è la convinzione che la storia si sviluppi non con il caso ma con l'intervento di Dio che prende a cuore la storia dell'uomo per far raggiungere degli scopi-obiettivi agli uomini e li aiuta come se fosse il regista di un film = l'uomo è condotto verso la lontananza dall'essere animale e verso l'evoluzione. [Voltaire pensava invece che Dio non intervenisse in soccorso degli uomini] Quindi nella storia si può scoprire cosa Dio vuole dall'uomo: il suo progetto per l'umanità anche se nella storia ci sono cose incredibili che portano a pensare come può essere che nel progetto di Dio ci sia anche questo. Manzoni non è però uno storico ma un poeta che scrive di fatti realmente accaduti. Ma allora, che rapporto c'è tra poesia e storia? Tra poeta e storico? Per Manzoni esiste un differenza: lo storico si occupa dei fatti, della sequenza degli avvenimenti e di come questi si sono svolti stabilendone cause e conseguenze; il poeta non si distacca dalla storia ma cerca di capire come questa è stata influenzata ed ha influenzato l'animo umano, degli uomini che sono stati i protagonisti della storia: quali sono i sentimenti e le passioni che li hanno portati ad agire in quel modo. Quindi il Manzoni indaga nell'animo di chi ha fatto la storia per ottenere un quadro di come agiscono gli uomini e di cosa (passioni e sentimenti) li spinge a comportarsi in un certo modo. Ma un poeta come fa a capire ciò? Se usa alcuni documenti, quali sono? Grazie all'immaginazione e alla simpatia. Simpatia sta per patire insieme: provare le stesse passioni di un'altra persona = il poeta ha questa capacità

    T 104 A TESTO DI POETICA = testo che spiega cosa l'autore intende per poesia e quale è il suo ruolo nello scrivere, che senso ha scrivere, quale è l'utilità di quello che fa.

    UNITA' DEL TEMPO E DEI LUOGHI

    Nel 1500 gli studiosi scoprono un libro di Aristotele che si credeva perso, in cui si parlava della tragedia: precisamente il filosofo greco dettava gli scopi ma soprattutto tre regole fondamentali dello scrivere tragedie. 3 REGOLE o Unità: di azione (raccontare un solo fatto), di tempo (un fatto accaduto in un giorno), di luogo (un fatto accaduto in un solo luogo); se le tre unità non vengono rispettate la tragedia perde di intensità. Queste regole in pieno clima Neoclassico diventano quasi sacre. Ma il Conte di Carmagnola non rispetta l'unità di tempo e di luogo, allontanandosi quindi dalle regole sacre. Monsieur Chovet critica in un suo articolo questa "mancanza". Manzoni gli risponde che non ha rispettato le due unità perché vuole rimanere fedele alla storia: le tragedie per essere capite, devono essere spiegate dall'inizio. La tragedia di un popolo non si svolge in un solo giorno, in un solo luogo.

    Il Manzoni spiega quindi l'importanza che la storia ha per lui, svincolandosi così definitivamente dalla poetica neoclassica e dal canone dell'imitazione: aderisce completamente alle idee neoclassiche.

    I° Paragrafo = la poesia deve occuparsi degli eventi storici. II ° Paragrafo = il Manzoni parla della differenza tra poeta e storico sottolineando che il primo analizza soprattutto ciò che è avvenuto nell'animo degli uomini di storia: il poeta è lo Sherlock Holmes dell'animo umano = gli storici non hanno mai provato a capire cosa pensava e provava l'Adelchi morente. Il poeta è invece capace di ciò se ha sufficiente fantasia: "Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo." (rigo 23)

    Manzoni riafferma la convinzione che in ogni sventura c'è qualcosa di religioso e di profondo: nel senso che la gente sventurata è più religiosa e meno superficiale = applicato ad un Re (Adelchi) ciò significa che egli inizia a pensare non nel senso di "Come gli altri lo hanno ridotto" ma di come "Lui ha ridotto gli altri" e addirittura lo spinge ad odiare la sua precedente posizione di monarca = lo storico non recepisce queste sensazioni.

    T 104 B (dal rigo 34) Manzoni dà la prima regola di condotta che lo scrittore deve rispettare: uno scrittore non deve scatenare nel lettore le passioni, soprattutto quelle peccaminose, distruttive: è necessario insegnare al lettore a non immedesimarsi nel protagonista e di evitare di farsi prendere dalle passioni dello stesso perché se lo facesse avrebbe la tentazione di provare la situazione narrata: invece l'arte ha lo scopo di educare il lettore a rispettare le regole dell'etica (dominare le passioni) e della morale = l'arte deve insegnare come si possono evitare e dominare le passioni. [si nota dalla lettura come il Manzoni abbia ricevuto un insegnamento di tipo cristiano nonostante le basi illuministiche] Per questo l'artista non deve dunque indugiare nelle passioni peccaminose, quali che esse siano. E' significativo in merito a ciò come i Promessi Sposi inizino da un momento temporale posteriore al "Fatto" = questo è stato fatto per evitare la descrizione dei pensieri osceni e peccaminosi e delle avances di Don Rodrigo, che poi sarebbero stati raccontati da Lucia con un dono decente, ma soprattutto con molto riguardo; oppure in merito alla tresca della Monaca di Monza troviamo solo la frase: "e la sventurata rispose". RIGO 51 = non si deve mai rinunciare alla ragione a favore della passione per quanto questa possa essere attraente, poiché le passioni discendono dalla nostra debolezza e dai nostri pregiudizi = Manzoni pur essendo Romantico per molti aspetti, non accetta il valore supremo del Romanticismo: "sentimento e passione - immaginazione e fantasia".

    IL CINQUE MAGGIO

    Il Manzoni dedica a Napoleone questa poesia dopo avere appreso della sua morte: Napoleone era stato il dominatore, l'eroe del tempo che nonostante la grande sconfitta di Waterloo aveva infiammato tutti gli europei. Prima di allora il Manzoni non aveva scritto niente su di lui Manzoni apprende la notizia della morte dalla Gazzetta di Milano di un giorno di Luglio: apprende non solo il fatto del decesso ma anche che Napoleone prima di morire aveva chiesto di ricevere i Sacramenti, volendo morire così da cristiano = questo aspetto della morte di napoleone infiamma il Genio di Manzoni che scrive un'ode Religiosa (che passerà alla storia come un'ode civile) in quanto parla di una conversione come molte altre nel Manzoni: la sua e di altri suoi personaggi (Innominato). SCHEMA METRICO: è come quello di Ermengarda = questo significa che la morte di Napoleone deve portare alla memoria quella di Ermengarda. I due decessi hanno in comune la sventura e la riacquistata fede, ma soprattutto la Provvida Sventura. Leggendo l'ode si capisce come Napoleone voleva essere come Dio, come era megalomane, in eterna ricerca del successo terreno: l'intervento della Provvida Sventura lo confina nella solitudine e nella disgrazia, portandolo a capire la vita e più vicino a Dio.

    I° - II° Strofa Ei fu Ei = egli, il Fu = passato remoto, azione finita Manzoni ci vuole far capire due cose: 1) come l'epopea di Napoleone non esista più: Napoleone appartiene al passato; 2) le due parole molti brevi sia da scrivere che da pronunciare sono in corrispondenza con la vita di Napoleone a confronto con l'eternità di Dio.

    Immobile L'aggettivo indica lo stato di shock che colpì l'umanità intera alla notizia della morte di Napoleone = le persone rimasero immobili come il cadavere di Napoleone. [Il cadavere viene definito spoglia secondo il concetto cristiano: è la parte della nostra persona che imprigiona l'anima e che resta abbandonata quando l'anima se ne va]

    Nel seguito dell'ode verrà esaltata la vita mobile, frenetica che Napoleone ha condotto, mai fermo nello stesso posto per troppo tempo, sempre in movimento per dominare il Mondo = in contrasto con l'immobilità del cadavere.

    Immemore La spoglia è di opinione comune che possa essere fredda o immobile ma immemore è difficile = il Manzoni con questo termine ha voluto sottolineare che quando interviene la Provvida Sventura, nasce un dramma dei ricordi (verrà esplicitato meglio questo fatto nei versi successivi dove Manzoni narrerà dei pensieri di Napoleone in esilio).

    Uomo Fatale Il termine secondo un significato passivo (che non ha senso in un'ode religiosa) indica il fatto che Napoleone sia stato mandato dal fato; secondo quello attivo (e giusto) il Manzoni ha voluto dire che Napoleone ha tenuto nelle sue mani il destino dell'Europa.

    III° - IV° STROFA Folgorante "Che scaglia le folgori": se guardiamo alla mitologia greca il Dio che scagliava le folgori ai sudditi che non ubbidivano agli ordini era Giove il sommo degli Dei = Napoleone viene visto come una somma divinità.

    Uno scrittore romantico come Manzoni pensa che la sua forza stia nell'ispirazione che lo spinge a scrivere, nel suo GENIO (che deriva da generare, creare come se l'opera fosse un figlio). Questo Genio non ha mai spinto Manzoni a scrivere qualcosa su Napoleone sino al momento della sua morte: il Manzoni parla dunque in queste strofe della sua ispirazione.

    "Il mio genio non mi ha spinto a scrivere di Napoleone né quando vinceva, né quando perdeva come invece hanno fatto molti altri; ma ora la morte di Napoleone lo ha ispirato" e dunque il Manzoni scrive l'ode. L'autore scioglie dunque alla tomba un cantico (poesia religiosa) ispirato dal suo Genio.

    V° STROFA Il Manzoni nomina le imprese di Napoleone attraverso un ritmo binario per comunicare l'idea di velocità: che viene espressa subito dopo con le parole Baleno (rapidità con cui Napoleone prendeva le decisioni) e Fulmine (rapidità con cui Napoleone eseguiva le decisioni). Le imprese di Napoleone sono tanto grandi e vaste da essere in netto contrasto con la piccola e sperduta isola di S. Elena.

    VI° STROFA "Fu vera gloria?" Questa è la questione fondamentale dell'ode: infatti rispecchia il mito fondamentale del Romanticismo: la GLORIA. Manzoni si pone questa domanda: i contemporanei pensavano forse di sì perché non si aspettavano che dopo grandi come Carlo Magno ce ne sarebbero potuti essere altri. Infatti altri personaggi famosi dell'epoca se lo chiesero: Foscolo (è passato dall'ammirazione all'odio per il tradimento) e Beethoven (scrisse addirittura un'opera, "Eroica", dedicandola a Napoleone ma togliendo successivamente questa dedica per aver notato in lui un carattere di tiranno). Manzoni non risponde direttamente ma lo fa capire dai versi che seguono: noi contemporanei chiniamo la fronte davanti a Dio che volle stampare in Napoleone una delle più grandi tracce della sua capacità creativa = Napoleone non dimostra la gloria dell'uomo ma quella di Dio creatore. Più avanti il Manzoni dirà che quella di Napoleone non può essere vera gloria perché è stata conquistata sulla pelle di migliaia di persone uccise.

    VII° - VIII° STROFA Manzoni passa dunque da buon poeta all'analisi psicologica di Napoleone e della sua figura. Verso 43 = tutto egli provò: la più grande gloria mai pensata dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia ed il triste esilio, due sconfitte (Lipsia e Waterloo) e due trionfi (incoronazione ad Imperatore e 100 Giorni). Per indicare la sconfitta è significativo che il Manzoni abbia usato la parola polvere: (lo stesso termine lo aveva usato per descrivere la terra (v.11)) la parola fa venire in mente un soldato ferito a morte sul campo di battaglia che cade a terra privo di vita alzando la polvere depositatasi per la confusione [metafora] = Napoleone viene accostato ai soldati che sono morti per la ricerca della gloria di un oppressore che morirà da oppresso. Invece per indicare il trionfo il Manzoni ha usato la parola altare, per creare una corrispondenza con il sacrilegio di Napoleone che con le vittorie sul campo di guerra voleva diventare come Dio.

    Verso 37 = Napoleone ha provato la gloria tempestosa e colma di trepidazione di chi ha in mente un grande disegno, un mega progetto: diventare, da umile e sconosciuto soldato di Corsica, il padrone del mondo. Provò per questo l'impazienza di un cuore che indocile deve ubbidire, consapevole e pensante al futuro che verrà: per esempio quando il Direttorio lo costrinse alla campagna d'Italia. Napoleone poi realizzò anche il suo desiderio: divenne imperatore, un sogno che per molti se non tutti è folle. FOLLIA = la parola in questo contesto ha due significati: 1) impossibile; 2) in senso religioso/biblico la follia corrisponde al peccato di orgoglio (quello della creatura che vuole essere superiore al suo stesso creatore).

    IX° STROFA Egli pronunciò il suo nome: 2 secoli ('700 e '800) in lotta l'uno contro l'altro si rivolsero a lui sottomessi, aspettando il destino della loro controversia: lui doveva decidere il vincitore. Egli impose dunque il silenzio e si sedette, arbitro, in mezzo a loro. '700 = Antico Regime
    '800 = rappresenta il nuovo, ciò che è figlio della Rivoluzione, il secolo borghese.
    Napoleone fu il mediatore tra le esigenze conservatrici ed esigenze rivoluzionarie, tra quelle della borghesia e quelle dell'aristocrazia.

    X° STROFA Eppure, benché egli fosse così grande, scomparve dalla scena politica e terminò nell'ozio la sua vita, confinato in una piccola isola, fatto oggetto di immensa invidia, pietà profonda, odio che neppure l'esilio poteva estinguere e d'indomato amore (dei generali e dei soldati che lo seguirono fino in esilio)

    FINO ALLA FINE Manzoni immagina la sofferenza di Napoleone che trascorre come Ermengarda il DRAMMA DEI RICORDI. L'autore introduce quindi una similitudine come quella di Ermengarda, in cui i due termini centrali sono la tempesta del mare ed il naufragio

    COME l'onda si abbatte sulla testa del naufrago; COSI' il cumulo dei ricordi schiaccia l'animo di Napoleone. Oh quante volte si mise a narrare le sue venture, le sue memorie ai posteri (verso 31) attraverso un libro (forse questa è l'unica funzione utile dei ricordi) ma Napoleone non ci riuscì perché i ricordi che sembravano interminabili (= eterne: 1) atte a sfidare la fama del tempo, ma nulla sulla terra è eterno = assurdo per il Manzoni; 2) contestazione alla poesia eternatrice del Foscolo Neoclassico) e che stancarono eccessivamente la mano di un uomo d'armi e non abituato allo scrivere.

    STETTE = quando Napoleone è assalito dai ricordi rimane come un cadavere: immobile ed inerte senza poter fare più nulla

    POLISINDETO = accostamento di tante frasi o espressioni unite dalla congiunzione "E". I ricordi di Napoleone sono soprattutto quelli di tipo militare e non quelli di tipo politico: perché la vita militare è caratterizzata da mobilità ed azione in contrasto con l'inerzia dell'esilio. Inoltre Manzoni ha sempre avuto stima per le virtù militari e non per quelle politiche.

    AIUTO = ora che Napoleone è sconfitto (oppresso) il Cielo0 gli da' un aiuto: la Fede che pietosa lo trasportò in un'aria più serena. La fede lo condusse, per i fioriti sentieri della speranza, ai campi eterni (= Paradiso, in contrapposizione con i campi di Battaglia) (in contrapposizione con eterne pagine verso 71). Inoltre lo avviò al premio (Paradiso) al cui confronto la gloria passata, terrena, non è nulla, comunque finirà.

    GLORIA = (verso 31) il Manzoni risponde: la vera gloria è quella che non passa mai, quella che si conquista con la santità e non con le imprese militari e terrene.

    BELLA IMMORTAL = Fede, abituata a trionfare, scrivi anche questo perché più superba altezza mai si chinò dinanzi al Signore, al Mistero della Crocifissione. Tu, Fede, dal cadavere di un uomo stanco disperdi ogni malvagia parola; il Dio che abbatte ed innalza, che fa soffrire, ma sa anche consolare, si posò al fianco di Napoleone, seduto sul suo letto.

    I PROMESSI SPOSI

    Nella primavera del 1821 Manzoni si ritira nella sua casa di Brusuglio dove, tra la quiete del posto, matura l'idea del romanzo grazie ad alcune lettere sulle vicende storiche di Milano del 1630. Manzoni inizia a scrivere i primi due capitoli e l'introduzione il 24 Aprile 1821, ma la prima stesura completa si ha nel Settembre 1823 = la copia di quest'anno non fu mai pubblicata e rimase come manoscritto con il nome di "Fermo e Lucia". La critica considera il Fermo e Lucia non come un abbozzo del Capolavoro ma come un romanzo diverso ed autonomo. La sua struttura è l'insieme di blocchi narrativi autosufficienti. Il lavoro è diviso in toni: primo tono che narra le peripezie dei due promessi che scappano per sottrarsi alle prepotenze feudali di Don Rodrigo; poi tutto il secondo e parte del terzo ("Romanzo Campagnolo di Lucia e "Romanzo cittadino di Fermo")

    FERMO = è colui che non sta mai fermo, ma il suo muoversi non produce alcun effetto; la storia finisce bene non grazie a lui ma per la conversione dell'Innominato.

    Il Fermo e Lucia si differenzia tantissimo dai Promessi Sposi per: 1) l'impronta saggistica = dovuta al dichiarato intento pedagogico della poetica manzoniana. Gli excursus storici e il giudizio morale hanno un peso maggiore della linearità del racconto (Romanzo Saggio), storia vera e propria in favore della cronaca di costume e del quadro sociale;

    2) Antitesi Manichea (contrappone i personaggi a coppie: uno buono, l'altro malvagio) - Manicheismo = religione orientale che distingue il mondo in Bene ed in Male. Nel Fermo e Lucia i personaggi sono o solo buoni o solo cattivi = figure manica di Monza: nasce un contrasto violento tra vizio e virtù che nei Promessi Sposi è più sfumato.

    3) ha il carattere di un Romanzo Nero (rappresenta violentemente il contrasto tra vizio e virtù: ci sono personaggi satanici, atmosfere tenebrose, delitti mostruosi) = tra la fine del 700 e i primi dell'800 andava di moda raccontare storie angoscianti di cui il Manzoni era un avido lettore. Nel Romanzo nero c'è uno scontro pazzesco tra vizio e virtù e c'è la presenza di personaggi bestiali e diabolici che si accaniscono contro vittime innocenti. Questo stile era stato iniziato dal marchese de Sad (da cui deriva sadismo) che scrisse la storia di Sodoma e Gomorra e che Pasolini tradusse in un film, Salò (in francese = sporcaccione)

    4) l'Innominato nel Fermo e Lucia viene presentato molto più approfonditamente mentre nei Promessi Sposi si parla del disgusto che durante la conversione provò per il suo passato peccaminoso. Nel Fermo e Lucia l'Innominato è il Conte del Sagrato 5) Fermo rispetto a Renzo si muove di più, però senza utilità.

    IL CONTE DEL SAGRATO

    L'innominato viene descritto come un personaggio satanico, che gode a far del male; non c'è giustizia; si muove per capriccio. Si rivolge a lui un debitore per essere protetto dal creditore, il quale non si era mai sottoposto alle angherie del Conte; il quale lo attende sul Sagrato della Chiesa col fucile puntatogli addosso e quando lo ha sotto mira lo uccide. 1) Il conte è un personaggio ispirato dal Manzoni da un vero uomo, un feudatario crudele di nome Bernardino Visconti poi convertitosi = si ispira alla storia. 2) Nei Promessi Sposi (pubblicati definitivamente nel 1827 e poi riscritto in lingua più colta nel 1840) scompare questo delitto, come anche altri avvenimenti troppo cruenti: il Manzoni ha eliminato questa parte della storia perché colui che la leggesse non crederebbe alla conversione di un uomo tanto crudele. Nei Promessi Sposi si tacerà sui suoi delitti, si dice che li ha commessi senza descriverli

    3) La folla è vera protagonista dei Promessi Sposi = assalto ai forni delle Grucce e protesta del pane. Manzoni non ama la folla = infatti viene descritta con giudizi negativi = è una massa amorfa, senz'anima, mossa dall'istinto della conservazione; è un cosa. La folla non è capace di compiere scelte razionali; è capace solo di atti violenti, vogliosa di sangue, è meschina e non conosce valori nobili.

    La folla scappa senza proteggere il creditore = non prova pietà. la folla è poi in grado di far perdere la ragione anche a un uomo che la possiede = è una forza bruta, nella folla si perde la responsabilità morale dell'individuo = uomo calmo allo stadio violento. Ma chi non ama la folla non può amare la Rivoluzione = Manzoni dà giudizio negativo alla Rivoluzione Francese ma non fu un sostenitore della Restaurazione = è un patriota = oppositore alla Restaurazione che appartiene però alle sette segrete moderate = dare potere al popolo è per il Manzoni sbagliato, è contrario, scrive anche un'ode (23 Marzo 1821 a sostegno dei moti carbonari poi falliti). Manzoni è contro i privilegi aristocratici = solo un aristocratico può essere favorevole alla Restaurazione. Promessi sposi è un'enunciazione di questi soprusi. Per Manzoni la folla è l'ambiente del demonio. Nel Fermo e Lucia la storia di Gertrude occupava ben 6 capitoli, nei Promessi Sposi solo 2; Manzoni sostenitore della moralità dell'arte ritiene sbagliato descrivere ampiamente e dettagliatamente i personaggi negativi: con i loro crimini si rischia di contagiare il lettore facendolo diventare anche egli un personaggio negativo; l'artista oltre che divertire deve educare.

    Manzoni scrive nel 1827 quando l'Italia non esisteva, non esisteva neanche una lingua comune (Perché adesso?!!!) ma numerosi dialetti = Manzoni vuole che i Promessi Sposi sia un romanzo che aiuti l'unità d'Italia = un Romanzo che possa essere letto da tutti gli italiani; lui trova questa lingua nel fiorentino = lingua viva già parlata e no solo scritta = il fiorentino parlato dalla persone colte, non del popolino. Firenze è la capitale letterale e culturale dell'Italia = tutti hanno letto Manzoni, Petrarca, cioè il fiorentino.

    Franco Fido = crea il SISTEMA DEI PERSONAGGI = saggio del critico ancora vivo. alla domanda se si poteva fare un riassunto dei Promessi Sposi lui aveva risposto affermativamente creando il sistema dei personaggi. Franco Fido divide il Romanzo in due parti = Manzoni ha voluto fare un primo e un secondo tempo. Dal primo al 19° corre la prima metà, del 20° al 38° corre la seconda. Leggendo ci si rende conto che nei primi 19 capitoli la storia ha date caratteristiche con storia e personaggi, nella seconda parte altre caratteristiche.

    1) La prima metà ha come tema principale la giustizia = è stata commessa un'ingiustizia da Don Rodrigo e le sue vittime con l'aiuto di Fra Cristoforo cercano di porvi rimedio = ripristinare la giustizia, il matrimonio deve celebrarsi. Divide i personaggi in:
    a) Vittime: Renzo = fantastica di uccidere
    b) Oppressori: Don Rodrigo
    c) Mediatori:
    1) protettori della vittima = Fra Cristoforo
    2) strumenti = Don Abbondio che non celebrando il matrimonio diventa uno strumento di Don Rodrigo. Il romanzo inizia da Don Rodrigo il quale rompe l'equilibrio senza il quale il matrimonio si sarebbe normalmente fatto = non si potea fare Romanzo. Don Rodrigo va da Don Abbondio il quale cerca di convincere Renzo ad aspettare ancora a sposarsi (non tutte le carte sono a posto); Renzo chiede aiuto a Fra Cristoforo che non riuscendo a convincere Don Rodrigo finisce con una minaccia = Verrà un giorno...... Tutti gli espedienti attuati dalle vittime e dai mediatori (protettori della vittima) per ripristinare la giustizia son falliti. Agnese manda Lucia in convento.

    2) La seconda parte presenta il tema principale della Misericordia di Dio = prima c'era stato un sopruso; ora abbiamo una grazia; Dio tocca l'innominato e lo converte.

    a) L'Innominato anche se ormai stanco di commettere soprusi per abitudine convince Egidio suo amico, amante della Monaca di Monza (strumento dell'Innominato) la quale la consegna all'Innominato; costui non la consegna però a Don Rodrigo ma al Cardinale Borromeo perché intanto si è convertito; il quale la riconsegnerà al legittimo sposo Renzo. Si è dovuti però scendere nella seconda parte dove c'è l'intervento di Dio, della Provvidenza che convertendo l'Innominato rende possibile la riconciliazione tra Renzo e Lucia; nella prima metà invece, dove tutto è fatto da uomini non si arriva a nessuna soluzione del problema, Fra Cristoforo che pensava di risolvere tutto fallisce nell'intento.

    Nella prima parte le frecce hanno un andamento antiorario, in parte della seconda parte del romanzo, il movimento diventa orario solo dopo la conversione dell'Innominato; l'andamento antiorario indica che tutto avviene contro natura; l'uomo che sostituisce la sua volontà a quella di Dio è una cosa innaturale. Le frecce tratteggiate rappresentano rapporti potenziali che si sarebbero potuti verificare; di fatto questi personaggi non si sono mai trovati l'uno di fronte all'altro. Renzo ..... Don Rodrigo = Renzo sarebbe morto. Lucia ..... Don Rodrigo = l'avrebbe rapita = cose che Manzoni non vuole.

    IL NARRATORE DEI PROMESSI SPOSI

    Il narratore non è colui che scrive le vicende (scrittore) ma bensì colui che le racconta : può essere interno (se è uno dei personaggi coinvolti nel racconto, spesso il protagonista) oppure esterno (quando non è una persona che entra a far parte dei personaggi dell'intreccio). I Promessi Sposi hanno un narratore esterno che oltretutto è onnisciente, cioè che sa tutto dei personaggi (chi sono , il loro passato, le loro intenzioni e persino i loro pensieri più nascosti), che interviene commentando l'operato dei protagonisti delle vicende (= ad esempio il Manzoni descrive Don Rodrigo "Un uomo fuori di sé non sa quel che dice") e a volte interrompendo la narrazione dei fatti per effettuare quelle che nei Promessi Sposi si definiscono "digressioni storiche". Inoltre il Manzoni disponendo di un criterio oggettivo quale la fede può giudicare i suoi personaggi in quanto la Fede stessa gli da' delle certezze e dei valori certi.

    - Illuminismo e Cristianesimo

    Manzoni è diventato uno scrittore molto vicino al Romanticismo pur avendo ricevuto un'educazione illuminista ed anticonformista (che non fu rifiutata) ; è significativo quindi che i Promessi Sposi siano un Romanzo centrato sul tema del rischio che corre la Famiglia a causa della passione peccaminosa esterna (Don Rodrigo) = è quindi un Romanzo scritto in difesa del Santo vincolo del Matrimonio. Manzoni continua quindi a essere illuminista conservando il principio base per il quale la ragione è fondamentale e che condanna il vizio, la passione, il pregiudizio e la superstizione (es. : la peste è causa degli untori). Manzoni sembra dunque avvicinarsi alle idee di Voltaire : punto di raccordo è il terremoto di Lisbona a cui la gente attribuisce una causa dettata dalla superstizione. Nonostante questa affinità nella disgrazia della pesta manzoniana vediamo, oltre a similitudine, anche alcune importanti differenze : le cause naturali e fisiche se le chiedono entrambi, ma Manzoni non si ferma a questo perché crede in Dio : infatti si inoltra nelle indagini pensando a come Dio stesso possa avere a che fare con la peste, se Lui l'abbia permessa senza motivo, se Lui ne sia rimasto indifferente, se la peste stessa non sia parte dei suoi progetti. Voltaire non si spinse così in là perché non credeva in Dio. Manzoni si trasforma in Metafisico (colui che studia le cause sovrannaturali dei fenomeni) che Voltaire definiva Cosmoscemologia (Pangloss).

    Le domande che si pone il Manzoni vanno dunque al di là della ragione, rientrano nel campo del sovrannaturale, non scientifico, delle cause naturali che sono soggettive : ognuno dà la risposta che vuole senza poterla dimostrare. Ma infatti il Manzoni non commenta direttamente : lascia che ad esprimere le sue idee siano i personaggi del romanzo (Don Abbondio :"La peste è una scopa di Dio usata per cacciare via i malvagi" ; Fra Cristoforo :"Può essere misericordia (= provvida sventura) o castigo"). La peste però non può che indurre il Manzoni a ricordare i flagelli biblici che Dio ha scatenato contro l'uomo che si allontanava dalla retta via. Ma in realtà nessuno può dire se la peste è bene o male o darle un scopo ; questo è possibile solo nella finzione letteraria : la peste conduce al lieto fine causando la morte di Don Rodrigo. Nella rivolta di Milano ad esempio Manzoni vede il Demonio, simbolo di ribellione (Lucifero).

    - I PROMESSI SPOSI COME ROMANZO BORGHESE - Lettura socio - economica

    Concentrandoci sulla figura di Renzo notiamo che le sue avventure non sono necessarie per il risultato finale della storia ma per notare il cambiamento che in lui avviene. All'inizio del romanzo egli è figlio di contadini che gli hanno lasciato un pezzetto di terra la cui rendita è integrata dai proventi del lavoro di tessitore. Alla fine si ritrova nella serenissima Repubblica di S. Marco dove i tessitori venivano pagati bene anche per l'assenza delle tasse e per le molte esenzioni fiscali : questi operai potevano poi quindi diventare piccoli imprenditori tessili. Se fosse rimasto a Milano la sua vita socio-lavorativa non sarebbe assolutamente cambiata. Sotto questo punto di vista bisogna sottolineare che il Manzoni era favorevole al Liberismo Economico e contro il sistema economico feudale contrario alla libertà di scambio e alla libera iniziativa economica. Si può dire quindi che il Manzoni scrive un romanzo in cui Renzo da contadino diventa imprenditore tessile grazie alle sue capacità ed alla sua intraprendenza.

    Sul piano economico si vede nelle rivolte di Milano come il Manzoni critichi il prezzo calmierato del pane imposto dagli spagnoli ad un punto troppo basso. Il Manzoni giudica invece il prezzo di mercato di qualsiasi prodotto doloroso ma salutare : doloroso perché tende ad essere più alto ma nel frattempo porta al massimo sfruttamento delle risorse ristabilendo l'equilibrio di mercato tra Domanda e Offerta. I Promessi Sposi sono dunque un romanzo borghese, anti-aristocratico, contro il vecchio sistema economico feudale e a favore del Liberismo.

    Ma la ribellione è lecita per abbattere una società nemica del progresso e della libertà ? No, perché è qualcosa di demoniaco ed irrazionale che ricorda la ribellione di Lucifero. Non è un caso che Renzo diventi imprenditore quando è maturato anche interiormente = BildungsRoman : il giovane contadino attraverso errori, peripezie, riflessioni e pericoli diventa uomo imprenditore più saggio e più prudente ("Ho imparato a non cacciarmi nei guai, a farmi i fatti miei, ecc. .......") ; ma soprattutto ha imparato che non si fa giustizia con la rivoluzione perché se c'è qualcosa di pericoloso è l'estremismo rivoluzionario = Renzo abbandona la violenza rivoluzionaria rifiutandola.

    Crescita ECONOMICA = imprenditore
    Crescita MORALE = uomo più prudente e più saggio
    Crescita SOCIALE = rifiuto della rivoluzione

    A questo punto Renzo introduce la funzione politico sociale della Chiesa : Manzoni, cattolico, pensa che la Chiesa non deve insegnare solo a conquistare il Paradiso ma che ha anche un compito terreno : educare civicamente le classi lavoratrici che non esercitano il potere politico a rifiutare la violenza rivoluzionaria facendo proprio il rispetto delle istituzioni e delle autorità = si vede il Manzoni cattolico-moderato molto vicino alla Restaurazione.

    Renzo alla fine è un imprenditore saggio, timorato di Dio e rispettoso delle autorità, mentre era impetuoso ed impulsivo (matrimonio a sorpresa, fantasia di uccidere Don Rodrigo, rivoluzione di Milano). Renzo nato in una società feudale, aristocratica e oppressiva, da semplice popolano impara a non contare sulla violenza per risolvere le questioni ma nell'aiuto di Dio e nelle proprie capacità lavorative


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  2. [S]™
     
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    Tema sulla personalità del Conte Attilio

    Il conte Attilio che il Manzoni ci presenta definendolo “un certo conte Attilio”, è collega di soverchierie e in libertinaggio, di don Rodrigo. Ha tuttavia alcune qualità per le quali emerge; ha qualcosa di inconfondibilmente suo: un’aria scanzonata e una superbia esclusivista, ignota a don Rodrigo. Questa superbia che lo porta a guardare tutti dall’alto in basso, come da un posto di privilegio, gli consente di farsi valere con astuzia sopraffina e talvolta con volgare banalità. Quello che importa è riuscire: giusto o malvagio lo scopo, non importa. Cinico e freddo, egli è al di fuori di ogni legge morale. Lo si può osservare in tre momenti distinti: alla tavola di don Rodrigo; in un colloquio confidenziale col cugino; in colloquio con il conte zio. Già prima lo incontriamo a fianco del cugino, quando questi pone gli occhi cupidi su Lucia, ed egli lo incoraggia, stuzzicando il suo amor proprio ed accollandosi poi la non lieve responsabilità di sostenerlo e di spingerlo nello “sporco impegno”.
    Alla tavola di don Rodrigo, dove siede col podestà di Lecco, con il dotto azzeccagarbugli e due sconosciuti, fa il saputo ed il superbo; ma il podestà con un’insistenza tenace gli tiene testa. Si battono per uno stupido prestigio, quello di mostrare chi ne sa di più in merito alla guerra che si sta combattendo: Attilio è forte per il più solo della presunzione che gli viene dalla nascita, che per il sapere. Egli crede d’avere ragione e di poter urlare perché è un signore: ed i signori per lui hanno sempre ragione.
    Nonostante tutto, Attilio, appena la mattina di san martino saprà dei fatti della notte, “da lui ascoltati, come ci dice il Manzoni, con più serietà che non ci si sarebbe aspettati da un cervello così balzano”, si fa solidale con don Rodrigo e pensa subito che il frate abbia messo lo zampino nell’accaduto. Udito del colloquio avuto col padre Cristoforo, rimprovera il cugino di averlo lasciato andare così come era venuto e, dice, “lo prendo subito sotto la mia protezione e voglio aver la consolazione di insegnargli come si parla coi nostri pari”. Manterrà la promessa: lo sostiene in questo non tanto l’amore e la solidarietà per il cugino, quanto lo spirito di casta al quale è tenacemente attaccato, e l’orgoglio del nome. Il superbo e lo scanzonato del banchetto compirà egregiamente l’impresa alla quale s’impegna, E don Rodrigo sarà servito.
    L’arte di far apparire le cose false come vere, è in lui sopraffina; incassa, disinvolto, ma tira dritto; gira la posizione e si permette la calunnia iniqua contro il povero frate; un frate cui preme troppo una ragazza, che voleva farla meritare assolutamente. E poi a chi? Ed ecco che il conte attilio scopre le sue migliori carte puntando prima su Renzo, che con quella sua scappata a Milano ha ormai la fama di malandrino e di sobillatore; e poi sul prestigio del casato: questo frate, dice, cozza continuamente con don Rodrigo il quale è così stufo delle sue villanie, che ha più voglia di farsi giustizia da sé.
    Il vecchio e conquistato, e Attilio, canaglia consumata, può lanciare l’idea che aveva in mente fin da principio: ora tocca allo zio metter apposto tale situazione paesana per non complicare e allargare ancora le cose. E forse il miglior ripiego è quello di allontanare il frate. Lo zio respinge il suggerimento, ma poi inviterà il padre provinciale a pranzo e il povero frate sarà mandato a Rimini.
     
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  3. Angelo1993
     
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    Qualcuno mi puo aiutare? mi serve l analisi sulla personalita di perpetua
     
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  4. ||max||
     
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    PERPETUA

    E' la domestica di Don Abbondio . Era ritratta come una donna affezionata e fedele al suo padrone che sapeva ubbidire e comandare a seconda delle circostanze ed inoltre era anche una buona confidente per Don Abbondio.

    Manzoni la descrive come una donna molto paziente infatti convivere con un uomo che frequentemente brontolava non era affatto cosa facile.
     
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  5. Antonio92cz
     
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    mi servirebbe la divisione in sequenze del 4 capitolo..Grazie.
     
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  6. uno
     
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    - Padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per raggiungere la casa di Lucia
    - Manzoni traccia il profilo biografico e morale del frate:
    a) origini di fra Cristoforo
    b) narrazione/evento del duello che porta Ludovico ossia fra Cristoforo a farsi frate cappuccino
    c) narrazione/evento delle ragioni del duello
    d) meditazioni di fra Cristoforo sul suo gesto
    e) le scuse di fra Cristoforo al fratello dell'ucciso



    Riassunto quarto capitolo Promessi sposi

    La mattina seguente, piuttosto presto, padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per raggiungere la casa di Lucia: attraversando la serena campagna, che ha i toni e i colori limpidi e dolci del mattino, il padre osserva con dolore i segni dell'incipiente carestia. A questo punto il Manzoni avverte il bisogno di interrompere la trama narrativa dei due promessi per dare un profilo biografico e morale del frate. Era figlio di un grosso mercante che, dopo aver faticato, s'era conquistata una grossa fortuna: lo turbava la sua origine modesta di popolano: voleva essere accettato dai nobili ed essere eguale a loro. La parola "mercante" in sua presenza era motivo di turbamento. Aveva un solo figlio, Ludovico, cui volle impartire l'educazione che era degli aristocratici. Ludovico era cresciuto fra l'opulenza, la servitù, con gli agi propri dei nobili. Dai quali, nonostante i tentativi di essere accettato, era stato sempre snobbato e lasciato da parte. Aveva però indole buona che lo portava a proteggere i poveri, e a respingere gli atti di ingiustizia e di sopraffazione. Tanto che a volte, disgustato della società, aveva meditato di farsi frate. Viveva però in una grande contraddizione: voleva essere dei nobili, ma intanto ne respingeva la mentalità e i pregiudizi. Voleva un mondo regolato da giustizia e non s'avvedeva che la vita dell'aristocrazia, cui voleva partecipare, era quella della sopraffazione. Voleva essere uomo di pace ma andava armato come i signorotti e si circondava di un corpo di guardia armata. Il fatto che diede una svolta a tutta la sua vita fu il duello che dovette sostenere in pubblica strada, lui e i suoi servi, tra cui uno che gli era molto caro e si chiamava Cristoforo, contro un signorotto prepotente ed aggressivo, circondato anche questo da alcuni bravi. Lo scontro ebbe ragion futili: il prepotente voleva che Ludovico gli cedesse il passo lungo il muro: come nobile presumeva di averne diritto. Ma questo privilegio non gli venne riconosciuto da Ludovico che nel duello, quando vide cadere il suo Cristoforo, persa la luce della ragione, infilzò l'avversario tra l'approvazione della gente che col vinto per le sue maniere brutali ce l'aveva. Come fuor di sé, Ludovico viene spinto nel vicino convento dei cappuccini: come ogni convento anche questo gode del diritto d'asilo, che concede l'immunità a tutti coloro che vi si rifugiano: non possono però uscirne. Ma in convento Ludovico medita su di sé, sui grandi temi del destino dell'uomo si converte e si fa frate. Da allora fu frate e dentro sempre lo accompagnò il desiderio di giustizia con la energica opposizione ai soprusi. Prima di iniziare la nuova vita, volle chiedere perdono al fratello dell'ucciso: lo ottenne ma la cerimonia che doveva essere di umiliazione, si risolse in un trionfo per lui.

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    Riassunto capitolo IV promessi sposi: Entra in scena padre Cristoforo, mentre si sta dirigendo verso casa di Lucia. Non molto alto, sulla sessantina, porta una lunga barba bianca e il tipico taglio dei capelli del frate. Il suo vero nome di battesimo è Ludovico. Figlio di un mercante, vive sempre circondato dalla ricchezza, ma nonostante ciò la felicità non fu mai la benvenuta in casa sua: suo padre infatti si vergognava del suo passato da mercante a tal punto di trascorrere gli ultimi anni della sua vita a preservarsi da possibili prese in giro. Morto il padre Ludovico si ritrova giovane e ricco, ma nonostante tutto riesce a rendersi ben presto conto che non è facile occupare una buona posizione sociale senza combattere e allora opta per dedicarsi alla difesa dei deboli, cosa inoltre ritenuta più giusta. Si può dire in un certo senso che egli si accolla le parti di un vendicatore di torti. Un giorno però, dopo un diverbio con un prepotente signore del luogo passa al duello e, benché non voglia, finisce costretto ad uccidere il prepotente. Purtroppo nel duello muore, per essersi messo in sua difesa, anche un suo servo, a lui affezionato. Accaduto ciò Ludovico decide di farsi frate e decide di cambiare il suo nome in Cristoforo, in onore del suo valoroso servitore. Prima però dà in omaggio tutti i suoi averi e chiede, ottenendolo, il perdono alla famiglia dell’ucciso.
    Come emergerà poi fra Cristoforo è un uomo modesto e saggio, posato e generoso, sempre disposto ad aiutare il prossimo e se una poverella come Lucia avesse implorato il suo aiuto egli non poteva fare altro che offrirglielo .

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    Il IV capitolo dei Promessi Sposi presenta alcuni aspetti del Manzoni che si allontanano dalla visione degli altri scrittori romantici .
    L’eroe romantico si trova al di sopra del bene e del male , mentre l’eroe manzoniano , rappresentato da Fra Cristoforo , è colui che è umile , si impegna per gli altri e rinuncia al proprio orgoglio .
    La natura , infine , nelle opere romantiche riflette lo stato d’animo del protagonista , mentre la natura nel Manzoni si trova in un mondo a parte dovuto al fatto che è una creazione di Dio , quindi inviolabile da qualsiasi uomo .

     
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  7. uno
     
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    Riassunto del capitolo I

    Il racconto della vicenda da cui prende le mosse il romanzo prende l'avvio con un'ampia, minuta, realistica, visione del paesaggio in cui si colloca il paese brianzolo dove abitano Renzo e Lucia, i due promessi sposi. Lui è un filatore di seta, orfano di padre e di madre; lei è filatrice in una filanda ma senza continuità di lavoro: vive con la madre vedova. Si dovevano sposare e il matrimonio era fissato per l'otto novembre 1628. Tutto sarebbe andato liscio, se il signorotto locale, doti Rodrigo, non si fosse incapricciato di Lucia e non avesse scommesso col cugino, don Attilio, che in tempi brevi, se ne sarebbe impadronito e l'avrebbe portata al castello. Per questa violenza egli poteva sperare nell'immunità dovuta sia al suo grado sociale sia alla connivenza del potere giudiziario e politico, alleato dei potenti. Bisognava impedire intanto la celebrazione del matrimonio. Per questo il pomeriggio del 7 manda due bravi ad ordinare al curato don Abbondio che quel matrimonio non si deve celebrare. I due bravi si appostano all'angolo di una strada di campagna, percorsa d'abitudine dal curato. Il quale, intimidito, si dichiara pronto ad obbedire. Lo fa perché per temperamento è un pauroso; non era nato con un cuor di leone; ma obbedisce e si rassegna e si fa complice di un gesto di violenza anche perché la società nella quale viveva era violenta, ingiusta e non offriva adeguata protezione contro i soprusi dei potenti ai poveri, ai disarmati, ai miti. A casa dove giunge affannato ed agitato confida ogni cosa alla sua serva Perpetua: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione. L'ordine impartito a lei è di non fiatare della cosa con nessuno. Lei dà qualche suggerimento, tra cui quello di avvertire il cardinale. Ma don Abbondio è troppo dominato dalla paura procuratagli da quei bravi e crede che la disobbedienza gli costerà una fucilata. La notte, che trascorre agitatissima, è difatti popolata di bravi e di archibugiate.

    Riassunto primo capitolo promessi sposi : Inizialmente viene descritta la selvaggia natura del luogo in cui la storia viene ambientata: il lago di Como e, più specificatamene, Lecco. Durante la narrazione vengono anche introdotti i soprusi della società seicentesca verso i poveri. Ad un certo punto entra in scena Don Abbondio, curato descritto inizialmente come un uomo molto ripetitivo. Ma la sua vita già pianificata viene interrotta dall’incontro con due bravi, uomini d’armi al servizio di persone potenti come guardia del corpo o esecutori di violenze qualsiasi, che lo intimidiscono a non congiungere in matrimonio Renzo e Lucia, due giovani del paese, poiché il loro signore, don Rodrigo, non lo ritiene una cosa fattibile. Dalla conversazione emerge parecchio il carattere di don Abbondio, sempre disposto a asservirsi le persone più potenti di lui a discapito delle persone più deboli, che dovrebbe invece difendere. In un’ampia digressione storica, viene spiegato il perché della scelta di don Abbondio di entrare a far parte del clero: egli infatti la considerava una classe potente nella quale non avrebbe rinunciato ai suoi privilegi e nella quale poteva rimanere quasi sempre neutrale nelle litigate tra più compaesani e asservirsi ai più potenti per ottenere la loro protezione; questo suo comportamento lo porta però ad esercitare sui più deboli di lui una sorta di “sfogo”, ovvero si permette di maltrattarli e calpestarli anche senza una precisa motivazione, poiché intanto non se ne sarebbero lamentati.
    Il capitolo termina con l’arrivo a casa di don Abbondio, la sua casa, dove tutto è sempre in ordine e dove si sente al sicuro, e anche con l’incontro con Perpetua, la sua domestica, alla quale, forse perché troppo desolato dell’incontro con i bravi o forse a causa della curiosità della donna, racconta l’accaduto disperandosi.

    Riassunto del capitolo II

    La notte per don Abbondio trascorre agitata, tumultuosa, ma gli dà il tempo di preparare un piano per obbedire a don Rodrigo: quel matrimonio deve essere rinviato a tempo indeterminato. Poi si vedrà: intanto bisogna sostenere e respingere il primo attacco, quello di Renzo che viene di buon mattino a prendere accordi col curato sull'ora del matrimonio. La data era stata fissata da tempo dallo stesso curato: il quale, ora al vedersi di fronte Renzo, dapprima si finge sorpreso, poi adduce una serie di scuse di carattere amministrativo: non aveva (e se ne assume la colpa) preparato in tempo tutti gli atti prescritti dalla Chiesa. Non è la fine del mondo, se si sposta il matrimonio di qualche giorno. Dolente e intristito e quasi arrabbiato Renzo esce dalla casa del curato, ma fuori è ad aspettarlo Perpetua, la quale ha una voglia matta di parlare e dire tutto a Renzo. Abilmente solleticata Perpetua dice a Renzo la vera ragione del rinvio delle nozze. E Renzo si precipita nella stanza del curato e con le buone o le cattive (ad un certo momento inavvertitamente mette mano al coltello) riesce a sapere da don Abbondio il nome del manigoldo che si oppone al matrimonio. Mogio mogio Renzo si reca a casa da Lucia che intanto si agghindava per le nozze. A lei e alla suocera, Agnese, comunica il fatto: gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del curato. Ed effettivamente don Abbondio, pressato prima dai bravi poi da Renzo, è caduto in preda alla febbre. La casa del curato sembra un fortilizio: tutto vi è sbarrato come se si temesse un imminente attacco. Alle comari che, indotte da spirito pettegolo, erano andate a bussare per trovare conferma della malattia del curato, Perpetua affacciatasi ad una finestra conferma la notizia con insolita fretta e secchezza.

    Riassunto secondo capitolo promessi sposi: Don Abbondio, dopo una notte quasi totalmente insonne passata a meditare su possibili soluzioni, decide di rinviare momentaneamente la data del matrimonio. Quando arriva lo sposo, Renzo Tramaglino, giovane dotato di molte qualità e, nonostante non ricco, sistemato economi-camente, don Abbondio comunica senza troppi indugi il rinvio delle nozze.. A questo succede un dialogo nel quale il povero e sicuramente ignorante Renzo viene estenuato dall’apparente bontà e formazione di don Abbondio. Quest’ultimo infatti riesce a far credere al ragazzo di non essere riuscito a compiere tutti i preparativi necessari in tempo, nonostante poco tempo prima avesse sostenuto il contrario, e che, causa la sua bontà, aveva cercato di sorpassare alcune leggi, tra l’altro espresse in latino per disorientare Renzo, che non dovevano invece essere trascurate. Allora Renzo si rassegna al rinvio e si dirige verso la casa dell’amata, ma grazie all’incontro con Perpetua capisce dal tono della voce e dal viso grave della donna che la verità non è esattamente come il curato gliel’ha esposta. Allora, furibondo si dirige verso la casa del curato, invade il territorio tanto considerato invalicabile da quest’ultimo e, aggredendolo con le parole, riesce a farsi rivelare la verità. Incamminandosi desolato verso casa di Lucia, lasciandosi inoltre dietro un intimorito e terrorizzato don Abbondio, prova una forte rabbia, calmata poi soltanto dall’angelica bontà di Lucia. Arrivato a casa egli vede la promessa nel fiore della sua modesta bellezza e piena di gioia subito dopo spazzata via dalla tristezza e dal terrore.

    Riassunto del capitolo III

    Il capitolo si apre con il racconto di Lucia ad Agnese e a Renzo dei suoi involontari incontri con don Rodrigo (questi, infatti, aveva avvicinato Lucia lungo la strada e aveva scommesso con un altro nobile, il conte Attilio, suo cugino, che la ragazza sarebbe stata sua). Lucia rivela poi di aver narrato l'accaduto a fra Cristoforo. Renzo e Agnese, l'uno come fidanzato, l'altra come madre, sono amareggiati dal fatto che Lucia non si sia confidata a loro. Al sentire gli episodi descritti da Lucia, Renzo viene colto da un nuovo attacco d'ira e da propositi di vendetta, ma Lucia riesce a placare le sue nuove ire.
    Agnese consiglia poi al giovane di recarsi a Lecco, da un avvocato soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna quattro capponi da portare in dono al dottore. Renzo si mette dunque in cammino verso Lecco. Lungo la strada, agitato e incollerito, dà continui strattoni ai capponi che ha in mano: le povere bestie, pur accomunate da un triste destino, si beccano tra loro. Ciò dà l'occasione all'Autore per riflettere sulla mancanza di solidarietà tra gli uomini, anche quando questi sono accomunati dalle sventure ("i quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura").
    Giunto alla casa dell'Azzecca-garbugli e consegnati i capponi a una serva, Renzo viene fatto accomodare nello studio: uno stanzone disordinato, polveroso e un po' decadente in cui spiccano, alle pareti, i ritratti degli imperatori romani, simbolo del potere assoluto. Il dottore lo accoglie indossando una toga consunta che lo fa apparire decrepito quanto i mobili della stanza. Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e, per intimorirlo, legge confusamente una grida che annuncia pene severissime per chi impedisce un matrimonio. Ha qui inizio il tragicomico equivoco tra Renzo e l'Azzecca-garbugli che, credendo che il giovane si sia camuffato tagliandosi il ciuffo che contraddistingue i bravi, si complimenta con lui per la sua astuzia. A questo proposito, l'Autore non perde l'occasione per sottolineare ancora una volta l'ottusità della macchina burocratica spagnola, e ci propone frammenti di gride in cui si vieta addirittura di portare il ciuffo. Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede e lo invita a fidarsi di lui, prospettando poi una linea di difesa. Scoperto l'equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto, mettendolo infine alla porta, poiché colpevole di un crimine all'epoca gravissimo: essere vittima, e per di più senza appoggi nobiliari. Intanto Lucia e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo. In quel momento giunge fra Galdino, un umile frate laico, in cerca di noci per il convento di Pescarenico, lo stesso dove vive il padre Cristoforo.
    Per eludere le domande del fraticello circa il mancato matrimonio si porta il discorso sulla carestia; Galdino racconta allora un aneddoto riguardante un miracolo avvenuto in Romagna. Lucia dona a fra Galdino una gran quantità di noci affinché egli, non dovendo continuare la questua, possa recarsi subito al convento ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra Cristoforo. A questo punto il Manzoni ci tiene a precisare che, nonostante fra Cristoforo avesse a che fare con la gente umile, era un personaggio "di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno" e approfitta dell'occasione per un excursus sulla condizione dei frati cappuccini nel Seicento. Renzo fa quindi ritorno alla casa di Lucia e racconta il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli. Tra Renzo e Agnese si accende una piccola discussione, subito placata da Lucia, circa la validità del consiglio di rivolgersi all'avvocato. Dopo alcuni sfoghi di Renzo ed altrettanti inviti alla calma da parte delle donne, il giovane torna a casa propria.

    Riassunto terzo capitolo promessi sposi: Lucia rivela alla madre Agnese e a Renzo le recenti molestie ricevute da don Rodrigo in vari momenti del suo lavoro e l’essersi confessata con padre Cristoforo, che le aveva consigliato di non raccontare niente a nessuno ma anzi di cercare di sposare Renzo il più presto possibile. Dopo un violento e doloroso pianto di Lucia, Agnese comunica una che una possibile soluzione è quella di recarsi dal dottor Azzecca-Garbugli, chiamato così per la sua capacità di tirare la gente fuori dai guai in cambio di modeste ricompense, ma l’incontro purtroppo si rivela un fraintendimento e quindi un fallimento: infatti il dottore non è la brava persona che Renzo si aspettava, disposto ad aiutare i deboli, anzi all’inizio si mostra interessato alla storia di Renzo poiché lo scambia per un bravo, quindi per una persona abbastanza potente (quindi dalla parte dei “cattivi”) e quando capisce che è invece lui l’offeso, la persona perbene, lo manda via senza farsi tanti scrupoli. Renzo allora torna più che mai disperato dalla fidanzata e, dopo aver annunziatole il fallimento del colloquio si congeda. Intanto, mentre Renzo era dal dottor A-G. le due donne avevano incontrato fra Galdino, il frate che si occupa della cerca delle noci e Lucia, grazie alla sua generosità nell’offrire le noci, riesce ad ottenere il favore da parte del frate di convocarle padre Cristoforo.

    Capitolo III promessi sposi

    Il capitolo III dei Promessi Sposi analizza in modo dettagliato e minuzioso l’aspetto della giustizia . La figura dell’avvocato Azzecca-garbugli è emblematica . Costui si presenta come un uomo egoista e ipocrita , che protegge solo i potenti e le persone celebri ed importanti . Quest’ultimo è in antitesi con Fra Galdino , uno strumento di bene , che ha anche una figura narrativa molto importante : anticipa il cap. IV riguardante Fra Cristoforo .


    Riassunto del capitolo IV

    La mattina seguente, piuttosto presto, padre Cristoforo esce dal convento di Pescarenico per raggiungere la casa di Lucia: attraversando la serena campagna, che ha i toni e i colori limpidi e dolci del mattino, il padre osserva con dolore i segni dell'incipiente carestia. A questo punto il Manzoni avverte il bisogno di interrompere la trama narrativa dei due promessi per dare un profilo biografico e morale del frate. Era figlio di un grosso mercante che, dopo aver faticato, s'era conquistata una grossa fortuna: lo turbava la sua origine modesta di popolano: voleva essere accettato dai nobili ed essere eguale a loro. La parola "mercante" in sua presenza era motivo di turbamento. Aveva un solo figlio, Ludovico, cui volle impartire l'educazione che era degli aristocratici. Ludovico era cresciuto fra l'opulenza, la servitù, con gli agi propri dei nobili. Dai quali, nonostante i tentativi di essere accettato, era stato sempre snobbato e lasciato da parte. Aveva però indole buona che lo portava a proteggere i poveri, e a respingere gli atti di ingiustizia e di sopraffazione. Tanto che a volte, disgustato della società, aveva meditato di farsi frate. Viveva però in una grande contraddizione: voleva essere dei nobili, ma intanto ne respingeva la mentalità e i pregiudizi. Voleva un mondo regolato da giustizia e non s'avvedeva che la vita dell'aristocrazia, cui voleva partecipare, era quella della sopraffazione. Voleva essere uomo di pace ma andava armato come i signorotti e si circondava di un corpo di guardia armata. Il fatto che diede una svolta a tutta la sua vita fu il duello che dovette sostenere in pubblica strada, lui e i suoi servi, tra cui uno che gli era molto caro e si chiamava Cristoforo, contro un signorotto prepotente ed aggressivo, circondato anche questo da alcuni bravi. Lo scontro ebbe ragion futili: il prepotente voleva che Ludovico gli cedesse il passo lungo il muro: come nobile presumeva di averne diritto. Ma questo privilegio non gli venne riconosciuto da Ludovico che nel duello, quando vide cadere il suo Cristoforo, persa la luce della ragione, infilzò l'avversario tra l'approvazione della gente che col vinto per le sue maniere brutali ce l'aveva. Come fuor di sé, Ludovico viene spinto nel vicino convento dei cappuccini: come ogni convento anche questo gode del diritto d'asilo, che concede l'immunità a tutti coloro che vi si rifugiano: non possono però uscirne. Ma in convento Ludovico medita su di sé, sui grandi temi del destino dell'uomo si converte e si fa frate. Da allora fu frate e dentro sempre lo accompagnò il desiderio di giustizia con la energica opposizione ai soprusi. Prima di iniziare la nuova vita, volle chiedere perdono al fratello dell'ucciso: lo ottenne ma la cerimonia che doveva essere di umiliazione, si risolse in un trionfo per lui.

    Riassunto del capitolo V

    Dalle informazioni ottenute da Agnese sul pesante intervento intimidatorio di don Rodrigo, padre Cristoforo sa tutto ormai; ma non avendo altre armi che quelle della religione, decide di affrontare il prepotente nel tentativo di dissuaderlo in nome dei principi morali e religiosi dal proposito di rapire Lucia. Dalla casa di Lucia il tratto di campagna che attraversa è per il frate motivo di costernazione: dappertutto i segni della carestia, il palazzotto del signorotto, segno di forza e di potenza, sorge tetro sulla cima di un poggio quasi come minaccioso custode della gente disseminata nei paesi sottostanti. Per il formale (anche i prepotenti sono ipocritamente pronti a rendere omaggio agli uomini di religione) ossequio che gli si deve in quanto cappuccino, padre Cristoforo non solo è introdotto nel palazzo, ma addirittura ammesso alla sala da pranzo dove don Rodrigo banchetta con alcuni ospiti: c'è il cugino Attilio, più vivace che mai, il podestà di Lecco, l'Azzeccagarbugli e altri uomini di minore rilievo. Si discute in modi frivoli di un argomento violento: dei duelli, sui quali si chiede, dato il contrasto di opinioni tra gli ospiti, il parere del frate. Questi riconferma come inalienabile la legge evangelica della non violenza. Altro argomento, questa volta politico, è quello della guerra tra Francia e Spagna scatenata in conseguenza della mancanza di un erede diretto nel ducato dì Mantova. La Francia sostiene un Gonzaga da tempo trasferitosi al di là delle Alpi e fattosi francese: altro è il candidato della Spagna. La guerra da quei loro discorsi appare come una partita di scacchi ingaggiata da due abili giocatori: da un lato il cardinale Richelieu, dall'altro il conte duca, che i commensali servilmente dicono grande ministro del re di Spagna. Alla fine si sfiora anche l'argomento della carestia. Per loro non esiste: è solo il risultato malefico dell'intervento dei fornai che imboscano la farina per ottenerne prezzi più alti. Se si dovesse giudicare della nobiltà lombarda del Seicento da questi rappresentanti accolti intorno ad una tavola, li si dovrebbe dire non solo cinici e perversi, ma insensibili e intelligenti. Ad un certo momento don Rodrigo che mal sopporta la vista di quel frate concentrato e silenzioso si decide a dargli udienza.

    Riassunto del capitolo VI

    Piantato in mezzo alla sala con atteggiamento di prepotente altezzosità, il più adatto a scatenare l'opposizione e la condanna del frate, don Rodrigo si degna di ascoltare la preghiera: quella di lasciare in pace Lucia e di consentire al matrimonio. Non si può dire che il frate conosca le vie tortuose e sapienti della diplomazia: le parole che adopera sono più che di preghiera, di condanna. Quando don Rodrigo esce nella battuta: Lucia, se si senta da qualcuno minacciata, venga a mettersi sotto la mia protezione, il frate scatta in toni profetistici e pronuncia un solenne "Verrà un giorno...". Non completa la frase: don Rodrigo glielo impedisce, penetrato dentro da un segreto terrore: scaccia il frate con parole in cui si mescolano paure inespresse, volgarità, minacce. La missione di padre Cristoforo si è risolta in un fallimento. Porta con sé i segni della vittoria morale, ma anche la certezza che ormai per don Rodrigo si tratta di un puntiglio, di un punto d'onore, da cui egli non si smuoverà: qualcosa sicuramente tenterà. Gliene dà conferma un vecchio cameriere del signorotto, che in segreto l'informa che si sta macchinando qualcosa di irregolare e di perverso. È un segno della provvidenza per il frate. Intanto a casa di Lucia si mette in moto con la solita fervida immaginazione Agnese. Ha un piano per realizzare il matrimonio. Sa che esiste e che resta valido il matrimonio per sorpresa: se i due promessi in presenza del curato, anche senza il suo consenso, e di due testimoni pronunciano la formula del matrimonio, questo è legittimo anche sul piano religioso. Renzo si attacca con entusiasmo a questa proposta. I testimoni sono subito trovati: i fratelli Tonio e Gervasio. Non c'è in un primo tempo il consenso di Lucia che vorrebbe prima parlarne a padre Cristoforo: se la cosa è lecita, non c'è ragione di non parlarne a lui. Ma Agnese non vuole che la cosa venga detta a lui. La discussione viene interrotta dal ritorno del frate.

    Riassunto del capitolo VII

    Tornato dal palazzotto di don Rodrigo, Fra Cristoforo giunge di nuovo a casa di Lucia e comunica ad Agnese e ai due promessi che, malgrado il suo intervento, don Rodrigo non intende cambiare atteggiamento. Renzo reagisce con rabbia. Uscendo, il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno successivo, per avere nuove informazioni. Renzo, irritato dalle notizie appena ricevute e dall'opposizione di Lucia al progetto di matrimonio di sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende (a malincuore) al piano della madre. Renzo torna infine a casa. Agnese e Renzo stabiliscono insieme i dettagli del piano di matrimonio di sorpresa, mentre Lucia resta in disparte. Seguendo le indicazioni di fra Cristoforo, Agnese invia poi al convento Menico, un ragazzino suo parente. Per tutta la mattinata, dei loschi figuri vestiti da viandanti e da pellegrini si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando anche all'interno dell'abitazione. Dopo lo scontro con padre Cristoforo, don Rodrigo, furibondo per non esser riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel "Verrà un giorno...", cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi, che sembrano rimproverarlo per la sua debolezza. Per dimenticare l'episodio il nobile esce, scortato dai bravi, per una passeggiata trionfale, durante la quale egli viene ossequiato da tutti. Tornato al palazzotto, egli viene però deriso dal conte Attilio; risentito, raddoppia allora la posta dell'infame scommessa. Dopo una notte di sonno tranquillo, don Rodrigo, dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni in casa di Lucia (gli strani figuri visti nella casa sono i bravi travestiti). Tornati al palazzotto, il Griso dà le ultime istruzioni ai suoi compagni. Il vecchio servitore si avvia alla volta del convento per riferire al frate circa il previsto rapimento di Lucia. Nel frattempo alcuni bravi hanno già occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo. Dopo aver preso con Agnese e Lucia gli ultimi accordi per il matrimonio di sorpresa, Renzo, assieme a Tonio e a Gervaso, si reca all'osteria e qui incontra tre individui (sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso. Renzo, durante la cena, chiede all'oste informazioni sui tre, ma l'oste finge di non conoscerli; al contrario, egli fornisce ai bravi diverse notizie su Renzo e i suoi amici. Usciti dall'osteria, Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due bravi, che si arrestano però, vedendo arrivare gente di ritorno dai campi. I tre passano poi a chiamare Agnese e Lucia per dare il via al matrimonio a sorpresa, e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa alla porta dicendo a Perpetua di voler saldare un debito. Ancora una volta, il capitolo si conclude sul momento culminante della scena, e invita a proseguire la lettura.

    Riassunto del capitolo VIII

    Quella sera don Abbondio stava gustando un po' di tranquillità dopo le agitazioni dei due giorni precedenti, era immerso nella lettura di un libro e aveva incespicato nel nome di un filosofo greco di cui nulla sapeva. A questo punto Perpetua annuncia la visita di Tonio e Gervasio: Tonio voleva pagare il debito che aveva col curato e ottenere il pegno da togli. L'ora era tarda, ma era bene profittare dell'occasione: Tonio quei soldi poteva sciuparli nell'osteria. Da questo pensiero indotto don Abbondio, nonostante la diffidenza, lo lascia entrare ed ammette nello studio. Dietro, ma lui non se ne avvede, ci sono Renzo e Lucia: Agnese si è portata via Perpetua attirandola con l'argomento, per Perpetua sempre molto sensibile, del mancato matrimonio con uno dei tanti pretendenti. Quando don Abbondio alza la testa per consegnare la Polizza a Tonio, si vede davanti Renzo e Lucia: Renzo riesce a pronunciare la formula: non vi riesce Lucia travolta dal tappeto del tavolino che il curato le scaglia addosso. La confusione ora è generale: la candela è caduta per terra e s'è spenta: tutto è nel buio e nel buio i due promessi cercano di guadagnare la porta, Tonio di riprendersi la ricevuta, e Gervasio di uscire dal marasma creandone altro. Dalla stanza attigua dove s'è barricato il curato invoca l'aiuto del campana io Ambrogio, il quale improvvisamente destato suona a martello le campane svegliando il paese e sollecitandone l'aiuto contro il misterioso nemico. Intanto Menico torna a casa dal convento e quando si avvicina alla casa di Agnese è bloccato dai bravi di don Rodrigo, che erano penetrati nella casa ma l'avevano trovata vuota. A questo punto comincia il suono delle campane: ritenendosi scoperti i bravi fuggono. Scappano anche Renzo e Lucia: scappa verso il curato Perpetua e dietro le è Agnese. Il paese è in preda ad una grande agitazione: don Abbondio invita tutti a tornare a casa: il pericolo è finito. Menico sfuggito ai bravi informa Agnese, Lucia e Renzo che in casa ci sono i bravi: seguano il consiglio di padre Cristoforo che li attende nella chiesa del convento. Lucia ed Agnese si recheranno con una sua lettera di raccomandazione a Monza: saranno ospitate in un convento; Renzo con altra lettera si recherà a Milano presso il convento dei cappuccini. Comincia così il viaggio di dispersione dei tre.

    Riassunto del capitolo IX

    A Monza dove sono giunti trasportati da un barocciaio i tre si separano: Renzo prosegue solo per Milano. Agnese e Lucia bussano alla porta del convento di suore indicato dal frate a cui li ha presentati padre Cristoforo. Sono presentate non alla badessa ma ad una suora, suor Gertrude, che in convento gode di particolari privilegi, anche perché, figlia di grandi aristocratici, per eredità conserva sul convento dei diritti feudali. E qui il Manzoni si ferma nella presentazione di questa strana suora che già attraverso il primo colloquio con le nostre due donne evidenzia atteggiamenti scontrosi accanto a gesti gentili ed affettuosi. Era figlia di un principe di origine spagnola, stanziatosi a Milano: molto ricco, ma interessato anche, secondo le consuetudini della società, a conservare intatta la proprietà all'erede maschio. in conseguenza della legge non scritta detta del maggiorasco, tutti i beni dovevano passare a questi: per gli altri figli non c'era che il convento, il sacerdozio. Gertrude fin dall'infanzia era stata destinata al convento e vi viene rinchiusa quando è ancora una bambina. Qui tutte le suore collaborano a persuaderla della bontà di una scelta monacale; tutte la servono e la esaltano. Quando torna a casa prima di pronunciare i voti definitivi e manifesta la sua intenzione di non diventare monaca, trova tutto ostile: freddo, anzi gelido ed autoritario il padre; fredda la madre, tutti cospirano a renderle impossibile l'esistenza. Una piccola avventuretta con un paggio gliela presentano come un grave delitto, una macchia, a lavare la quale non giova che il suo assenso a tornare al convento e a farsi suora.

    Riassunto del capitolo X

    Quando Gertrude, cinicamente sottoposta ad un'autentica tortura psicologica, avverte che per lei non c'è posto nella sua casa ed esprime in termini poco chiari il proposito di tornare in convento) la cosa è accolta con grande entusiasmo dalla famiglia. Con estrema rapidità si sfrutta il momento. Portata in convento fa domanda di essere definitivamente accolta nel monastero. C'è una prova da superare: Gertrude deve sostenere un esame con il padre guardiano che deve stabilire che la decisione è autenticamente spontanea e libera e non condizionata da pressioni esterne. Gertrude non ha il coraggio di dire la verità e tra grandi festeggiamenti si trova suora per sempre. Vittima del sopruso, della frode, del ricatto, come non seppe perdonare, così non seppe cercare nella fede le grandi consolazioni che si concedono a tutti gli infelici. Continuò a rammaricarsi con se stessa, ad avvertire le suore come strumenti dell'inganno, a vedere dappertutto una realtà sociale da cui era esclusa e che l'esclusione contribuiva a rendere gradevole, anzi veramente felice. La sua vita di suora conosce l'altalena delle passività e delle ribellioni, l'insoddisfazione e la ricerca di una persona a cui appoggiarsi e in cui trovare fiducia. Non certo le dava se non provvisorie consolazioni il sapersi di grande famiglia, come anche i privilegi di cui godeva nel convento. La sua vita mutò radicalmente, quando cedendo alle pressioni e alla corte di un giovane scellerato, Egidio, che abitava accanto al convento, si lasciò da lui sedurre divenendone l'amante. Per un po' una sorta dì gioia le diede l'illusione di aver trovato ciò che cercava. A volte però cadeva in stati d'animo di prostrazione e di abbattimento. Ma scivolò via via dal peccato al delitto. Un giorno una suora conversa minacciò di rivelare ai superiori la tresca amorosa: poco dopo scomparve. Era stata uccisa da Egidio e sepolta vicino al convento. È passato un anno dopo questi fatti, quando Lucia bussa alla porta del convento, si raccomanda alla generosità della suora cui era dato il titolo distintivo di "signora" e viene accolta nel monastero.

    Riassunto del capitolo XI

    Durante tutta la sera don Rodrigo ha vegliato, più che mai agitato, ha atteso l'arrivo del Griso, la cui missione invece è fallita. Il Griso torna a palazzo insieme coi suoi bravi che si muovono come un branco di segugi con le code ciondoloni. Al padrone che lo rimprovera aspramente e lo accusa di inefficienza il Griso fa una relazione di tutti i fatti. Ora bisogna pensare a mettere un riparo a tutte le conseguenze: le autorità amministrative del paese vengono subito bloccate con una discreta visita ammonitrice dei bravi. Il conte Attilio che ha vinto la scommessa, ma che ormai condivide il punto d'onore di don Rodrigo (in casi come questo, di fallimento, è in gioco tutto l'onore della famiglia) subodora che dietro tutto il fatto ci deve essere la mano di fra Cristoforo: questi è il personaggio da allontanare. Se ne incaricherà lui a Milano, dove si appresta a tornare: lì c'è il loro conte zio, molto potente: da lui otterranno l'aiuto per il trasferimento del frate. Il Griso viene a sapere dalle chiacchiere di paese che Lucia e Agnese si sono rifugiate a Monza e che Renzo si è diretto a Milano, fuga che provoca la rabbia di don Rodrigo ("Fuggiti insieme!"). Al Griso viene ordinato di recarsi a Monza per aver notizie più chiare su Lucia. Renzo, intanto, è giunto a Milano. Le prime impressioni che riceve dalla città sono confuse ma tutte tendono a convincerlo che a Milano è scoppiata una sommossa. Lungo la strada per cui entra, una lunga strada stranamente deserta di gente, vede lunghe strisce bianche di farina; più in là delle bozzette di pane. Intanto vede comparire davanti a sé un uomo quasi schiacciato dal peso di un sacco di farina, dietro gli è la moglie che porta un pancione smisurato colmo di farina, chiude la processione un ragazzetto con un cesto sulla testa, colmo di pani che egli, muovendosi, semina per la strada. L'impressione però non lo distoglie dal suo primo proposito, quello di recarsi nel convento dei cappuccini per chiedere di padre Bonaventura, a cui deve consegnare la lettera di raccomandazione di padre Cristoforo. Non lo trova e perciò decide di andare a vedere cosa succede in città.

    Riassunto del capitolo XII

    Effettivamente Milano era una città in rivolta. Gli animi erano esasperati e dalle lamentele si era passati ai fatti che si erano precisati come assalti ai forni. Non era solo la città, ma tutto il territorio lombardo soggetto agli Spagnoli a soffrire la fame, ad essere investito dalla carestia. C'erano all'origine dei fatti naturali: c'era stata una grande siccità, molte terre poi erano state abbandonate dai signori, la guerra del Monferrato e di Mantova per la successione ai Gonzaga, attraverso lo spreco che è proprio degli eserciti e attraverso le razzie distruttive compiute dai mercenari, procurava perdite e dissennato consumo di un bene fattosi raro: ma erano anche responsabilità degli uomini al potere con la loro insipienza e la loro incapacità di concreti provvedimenti. Questi avevano potenziato e complicato le situazioni imposte dalle avversità naturali. Il governatore don Gonzalo, tutto preso dalla guerra, conduceva l'assedio alla città di Casale e si disinteressava di Milano; il vice governatore Ferrer era un demagogo. Prima pose un calmiere al pane obbedendo alle richieste dei fornai; poi, premuto dalla protesta popolare, abbassò il prezzo del pane. La mattina in cui Renzo giunse a Milano era stato ordinato l'aumento del prezzo del pane. Una folla di proporzioni sempre più vaste si raccolse prima in piazza Duomo. La scintilla della rivolta viene data da un ragazzo di fornaio che porta il pane in casa dei signori: è il primo assalto. Di qui si passa al vicino forno delle grucce. A questo punto interviene la polizia: il capitano di giustizia, affacciatosi ad una finestra per invitare la folla a tornare alla calma e a casa, viene raggiunto da un sasso alla fronte che lo costringe ad una rapida ritirata. Il forno è assaltato e saccheggiato. Dalle parole che sente, Renzo comprende che il responsabile della mancanza di pane è il vicario di provvisione, addetto agli approvvigionamenti della città. Renzo è ormai uno della folla e dalla stessa è trascinato fin in piazza del duomo. A questo punto come obbedendo ad un perentorio ordine la folla si scarica verso la casa del vicario. Renzo vi è in mezzo.

    Riassunto del capitolo XIII

    Il vicario aveva cominciato a sentire le conseguenze della sommossa. sulla sua tavola non era arrivato il pane fresco e lui stava facendo una digestione agra e stentata. D 'un tratto sente venire delle voci, poi la voce possente della folla che si muove con il ritmo di un torrente inarrestabile. I servitori provvedono a chiudere porte e finestre e a barricarsi in casa: il vicario, preso da paura, si raccomanda a tutti e crede di trovare salvezza in soffitta. Renzo che, ormai, è entrato dentro la psicologia della folla e si accorge che questa si muove per una richiesta di giustizia, parteggia per essa, ma non è d'accordo quando sente alzarsi delle voci che chiedono la morte del vicario. E ad alta voce dice la sua disapprovazione: scambiato per un partigiano dei vicario, si sottrae alla folla solo perché l'attenzione generale è attratta dalla voce che dice che sta per arrivare il cancelliere Ferrer, l'amico del popolo: viene, dicono, a portare in carcere il vicario. Ferrer si affaccia agli sportelli della carrozza distribuendo sorrisi e gesti affettuosi di saluto: a tutti dà ragione, al cocchiere in spagnolo consiglia fretta e prudenza. Renzo che, dalla folla, ha saputo che Ferrer è l'uomo della giustizia, un uomo che va bene anche per lui che ha subito da poco una grave ingiustizia, si dà da fare per creare spazio alla carrozza di Ferrer. Si trova a lui vicino, recita la parte del protagonista, fa da battistrada. Ferrer, giunto alla porta del palazzo del vicario, si fa aprire e senza che la gente s'avveda fa entrare nella carrozza il vicario ed inizia il viaggio di ritorno. Stavolta le cose vanno più rapidamente: i sorrisi si sprecano, la folla è più che mai certa che le cose stanno per cambiare. L'angoscia è tutta concentrata nel vicario che, in fondo alla carrozza, dice che vuoi tirarsi via dalla politica per andare a vivere in una montagna, in una grotta, a far l'eremita.

    Riassunto del capitolo XIV

    La folla ora non è più compatta: si dirada e si ricompone in piccoli capannelli a commentare e a prevedere. Si parla dell'accaduto, delle ragioni che vi stanno sotto, si manifestano propositi di ritorno per il giorno seguente. Renzo che per la nuova e straordinaria esperienza vissuta in quelle ore vive come in una sorta di eccitazione, quasi di ubriachezza, al centro di un crocchio prende la parola e dal fatto milanese risale al fatto personale: parla ad alta voce di ingiustizia, di prepotenze di certi tiranni, del tutto dissimili da Ferrer, manifesta propositi di vendetta e di pulizia, avanza la proposta del tutto rivoluzionaria dell'alleanza di tutto il popolo per la restaurazione della giustizia. Tutti applaudono. Ma ormai è buio: la gente si dispone a tornare a casa. Renzo da uno che gli si è messo alle costole e che gli si dimostra premuroso (è un informatore della polizia) si fa accompagnare in una trattoria vicina: li può mangiare e dormire. A tavola lo sbirro cerca di farlo parlare e di fargli dire nome e cognome: non c'era riuscito l'oste. Ma lui lo fa cadere in un tranello, favorito anche dal fatto che Renzo da uno stato di esaltazione passa, per il molto vino che beve, ad uno stato di effettiva ubriachezza. Sproloquia e nelle sue parole in modi oscuri ed incerti torna l'immagine di don Rodrigo, il persecutore, l'ingiusto e prepotente tiranno che lo ha indotto alla fuga dal suo paese. Finalmente l'oste riesce a portarlo in camera e a buttarlo sul letto.

    Riassunto del capitolo XV

    L'oste, uno dei tanti osti del romanzo, quasi tutti furbi e portati alla difesa dei potenti e della Polizia, messo con fatica Renzo a letto, evitato quindi il pericolo che la sua trattoria diventi un covo di rivoltosi, si reca dalla polizia a fare denuncia di ciò che era successo da lui e della presenza di Renzo, descritto come una delle teste più calde, da controllare quindi ed arrestare. La polizia di Renzo aveva già nome e cognome, forniti da un finto spadaio che Renzo nella sua ingenuità aveva eletto a suo confidente. La mattina Renzo destato dal sonno profondo cagionatogli dal vino e dalle fatiche della tumultuosa giornata da un notaio criminale, da una sorta di commissario di polizia, che ha accanto alcuni birri. Arrestato e ammanettato viene avviato verso il carcere. Ma per la strada incontra gruppi di persone che lo guardano con una certa Partecipazione. Furbescamente attira su di sé l'attenzione della gente, che si fa sotto il gruppo, e libera il prigioniero. Gli sbirri davanti al pericolo di essere linciati non oppongono resistenza e se la squagliano. Renzo ormai libero gira a vuoto per la città cercando la persona adatta che gli indichi la strada per Bergamo, dove vorrebbe avviarsi: lì c'è il cugino Bortolo e Bergamo inoltre non fa parte dello Stato di Milano.

    Riassunto del capitolo XVI

    Sfuggito agli sbirri, con incombente la minaccia di finire di nuovo nelle loro mani e con la prospettiva della fine che si riservava ai rivoluzionari, trattati peggio che i delinquenti, Renzo percorre le strade di Milano con animo preoccupato e diviso. Vorrebbe chiedere informazioni sulla via che conduce alla porta che immette sulla strada per Bergamo, ma teme di essere riconosciuto o di imbattersi in un nuovo birro. Alla fine ci riesce: e ottenuta l'informazione giusta, attraversa la porta senza che da parte delle guardie ci sia opposizione. Presa la strada che conduce a Bergamo, cerca di evitare il percorso principale: non si sa mai. Di conseguenza la marcia di avvicinamento a Bergamo o meglio al confine si fa lunga, nervosa, massacrante. Ha bisogno di mangiare e si ferma a Gorgonzola, in un'osteria che gli pare rassicurante. A Milano nello stesso tempo arriva un mercante, uno di quei rappresentanti di commercio che sono pieni di notizie e che frequentano sempre gli stessi posti. L'oste e gli altri commensali che inutilmente avevano cercato di ottenere informazioni da Renzo, ottengono notizie particolarmente minute e colorate dal mercante. C'è un punto del racconto che desta l'attenzione di Renzo: il mercante dice che dietro il tumulto c'era una congiura, che la mattina era stato ancora una volta tentato l'assalto della casa del vicario, che era stato saccheggiato il forno del Cordusio, che parecchi malintenzionati erano stati arrestati, che era stato preso un capo dei rivoltosi, ma che dopo, aiutato dai suoi, era riuscito a scappare. Ricercato Renzo sa che ora, se trovato e preso, non c'è per lui altro che la forca. Sono bocconi amari per lui, cui s'aggiunge la rabbia non solo di non essere stato capito ma di essere descritto come un delinquente, di quelli più colpevoli. Esce e s'avvia verso il confine, segnato dall'Adda: è tanto sconvolto che non chiede informazioni a nessuno. Si affida alla Provvidenza e parte.

    Riassunto del capitolo XVII

    Ora che si sa ricercato, Renzo non se la sente di passare per la via maestra. Il suo timore è che sbirri siano stati disseminati per la strada alla ricerca di presunti delinquenti. Prende una strada di campagna. Cammina anche la mente che riepiloga gli ultimi avvenimenti e si ferma in particolare sul racconto del mercante, dalle cui parole lui usciva dipinto come un congiurato pericoloso, al servizio di potenze straniere. E, intanto, con le tenebre protettive e difensive aumenta l'ansia: Renzo comincia ad avvertire la stanchezza; non può avvicinarsi alle case isolate da cui vede filtrare la luce. Può essere ritenuto un malvivente. Anche i cani gli abbaiano contro. C'è un momento in cui, confuso tra l'intrico della vegetazione, ha un attimo di smarrimento e sta per essere preso dalla disperazione. Ma in quel momento sente la voce delle acque del fiume: è l'Adda. La notte la trascorre in una capanna abbandonata che aveva intravisto prima: vi si accomoda e il suo pensiero corre a padre Cristoforo, ad Agnese ed in particolare a Lucia, la creatura che lo aiuta e lo sorregge nel travaglio. La mattina presto si porta sull'argine: da un barcaiolo si fa traghettare sull'argine opposto. Ormai è nel territorio di Venezia e si sente come liberato dal peso dell'angoscia. A Bergamo cerca e trova il cugino Bortolo che lavora come dirigente in una fabbrica tessile. Bortolo riesce a trovargli un lavoro ed una prima sistemazione.

    Riassunto del capitolo XVIII

    Lo stesso giorno in cui Renzo varcata l'Adda si rifugia a Bergamo, la polizia milanese che ha tutti i dati anagrafici di lui ne fa ricerca nel paese. La casa è messa a soqquadro: tra la meraviglia della gente che di Renzo ha un concetto diverso, si parla di lui come di un capobanda, un eversore, un manigoldo. L'unico fatto consolante è la notizia che si è messo in salvo. Se la gente che lo conosce resta sbalordita ed incredula, gode della notizia don Rodrigo che si vede improvvisamente liberato dell'importuna presenza del fidanzato di Lucia. Ma questa gli appare irraggiungibile: nel monastero dove lei s'è rifugiata non c'è possibilità di azione e di manovra per lui. Forse ci potrebbe riuscire, se facesse ricorso ad un potente feudatario vicino: ma costui è troppo potente ed esigente. Per il momento don Rodrigo soprassiede. Le notizie su Renzo fuggiasco e ricercato dalla polizia sorprendono anche Lucia ed Agnese che si rassicurano, quando da una lettera di padre Cristoforo vengono a sapere che Renzo ha trovato scampo e libertà a Bergamo. A questo punto Agnese decide di tornare a casa: Lucia resterà accanto alla signora di Monza, sotto la protezione della stessa. Agnese, prima di raggiungere il suo paese, passa per Pescarenico: ma nel convento non trova più padre Cristoforo: era stato trasferito a Rimini. A determinare il trasferimento di Padre Cristoforo ha una parte decisiva il conte Attilio, il quale, come ha promesso al cugino, si reca a sollecitare l'intervento politico del potente conte zio. Nel colloquio con lo zio le parti si invertono: non è lo zio a guidare i fatti ma lo spregiudicato e cinico nipote, che con il suo fare e coi suoi abili suggerimenti indica allo zio quali sono le strade che deve percorrere e nello stesso tempo ne rileva la boria, la superficialità, il servilismo. Dal colloquio Attilio ha la certezza che il conte zio riuscirà nel proposito di allontanare da Pescarenico padre Cristoforo.

    Riassunto del capitolo XIX

    Dietro il trasferimento del padre Cristoforo c'è lo zampino astuto del conte Attilio, anche lui attento al prestigio della famiglia messo in pericolo dalla fuga di Lucia e quindi dall'insuccesso del tentativo di sequestro. E poiché nel fallimento della bella impresa avviata da don Rodrigo è coinvolta direttamente o indirettamente tutta la famiglia, il conte Attilio pensa di fare ricorso a colui che della famiglia è il personaggio di maggiore spicco, il conte zio, che fa parte del Consiglio segreto dello Stato, una grande autorità, ma soprattutto un devoto servo del potere spagnolo, ed una testa molto decorata ma sostanzialmente piena di vento. Qualche giorno dopo il colloquio col nipote, il conte zio invita a pranzo a casa sua il padre provinciale dei cappuccini. Il colloquio tra i due è un capolavoro di abilità e di finezza diplomatica: ambedue sono attenti a mollare per qualche parte e a salvare l'essenziale. Cede soprattutto il padre provinciale, il quale capisce che non può mettersi contro la potenza di una famiglia quando è stato offeso il suo onore. Opera quindi con discrezione e accogliendo il suggerimento del conte zio, per sopire e troncare, manda via con urgenza il padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini con l'ordine di non interessarsi più dei fatti del paese da cui parte. È un piccolo trionfo per don Rodrigo che si vede spianata la strada verso Lucia. C'è però l'ostacolo del convento e soprattutto quello dell'essere la giovane donna protetta da una suora che appartiene a potente famiglia milanese. C'è una strada, ma è rischiosa. Può riuscirvi un potente feudatario che ha il suo castello non lontano dal territorio su cui impera don Rodrigo. Era un uomo di non comuni qualità e forza: il suo vangelo era di fare ciò che era vietato dalle leggi senz'altro gusto o interesse che quello di governare, e di essere temuto dagli altri. La sua vita era disseminata di violenze, di morti anche per commissione, di delitti: intorno a lui abitava la paura che di lui aveva anche lo Stato che si guardava bene dal fargli guerra. A costui don Rodrigo decide di rivolgersi anche se la cosa gli costa tanto sul piano del prestigio e anche se, in conseguenza del servizio ottenuto, lui da allora si deve avvertire come un dipendente del potente signore, che il Manzoni chiama Innominato.

    Riassunto del capitolo XX

    Il capitolo si apre con la descrizione del castello dell'Innominato, una sorta di tetra fortezza in cima ad un monte: difficile l'accesso: dall'alto il padrone ne controlla ogni via. Ad esso si accosta don Rodrigo accompagnato dal fedele Griso: i due subiscono l'umiliazione di vedersi disarmare e non fiatano. Questa è la legge del castello. Nel colloquio don Rodrigo esalta le difficoltà dell'impresa, quella del ratto di Lucia, anche per giustificare la propria impotenza fallimentare. L'Innominato accetta l'impresa, quasi internamente stimolato da una voce che lo induce, da un lato, a respingere le abituali forme di vita che caratterizzavano l'esistenza, dall'altro ad accogliere su di sé la responsabilità delle azioni tanto più fervidamente, quanto più apparivano impossibili. Dentro la coscienza dell'Innominato da un certo tempo si svolgeva un conflitto che egli non ancora era riuscito a chiarire nei suoi termini. A dare esecuzione all'impresa è dato incarico al più abile dei suoi bravi, il Nibbio. A Monza il signore ha un punto di appoggio: da lui dipende quell'Egidio che era l'amante di Gertrude. Con autentica sofferenza questa è costretta a dare il suo assenso e con un finto motivo spedisce fuori del convento Lucia. Tre uomini sono accanto ad una carrozza: sono i bravi bell'Innominato. Lucia nonostante la sua resistenza è rapita e messa sulla carrozza. Tutto si è svolto con l'efficienza rapida propria a autentici professionisti del crimine. L'ordine era di portarla al castello, dove l'aspetta l'Innominato, stavolta più turbato ed agitato del solito. A dare per così dire il benvenuto a Lucia viene mandata una vecchia che abitava nel castello; dagli uomini che praticava e dalla vita che faceva era portata alla cieca obbedienza, ad aver paura di coloro che comandavano. A questa donna è dato l'incarico di rincuorare Lucia che, durante il trasporto in carrozza, aveva tanto pianto ed implorato da gettare lo scompiglio anche nell'animo duro e corazzato del Nibbio.

    Riassunto del capitolo XXI

    Al padrone che gli chiede un resoconto dell'impresa il Nibbio, dopo avergli assicurato che tutto si era svolto secondo i piani, riferisce del suo turbamento provocatogli dalle lacrime e dalle implorazioni della donna. Vorrebbe per simili imprese essere sostituito. La cosa ingenera nell'Innominato il desiderio di vedere e di parlare con questa contadina appetita da don Rodrigo e capace di creare turbamenti in un uomo abituato al delitto e alla impietosità come il Nibbio. Forse quella donna, si dice, possiede qualcosa di particolare. Il colloquio con Lucia segna una progressiva ritirata dell'Innominato che non si aspettava non tanto le lacrime e gli inviti alla pietà ma tanta dignità, tanta fermezza e tanta capacità di risposte precise. Ne resta turbato. Ed il turbamento aumenta e progredisce quando ritorna nella sua stanza, per farsi vera ed autentica crisi di coscienza durante la notte. E poiché è uomo intero e non ama occultarsi o prendere le strade comode, affronta fino in fondo il tema del suo dibattito interiore. Risale dall'attuale delitto a tutti i delitti che contrassegnano la sua esistenza, il suo fortissimo desiderio di primeggiare, il suo gusto del potere. E tutto questo gli appare insensato, senza un vero fine. Tutta la vita diventa su questo sfondo una sempre più rapida corsa verso la morte. E dopo la morte c'è il nulla o un altro mondo? E a questo mondo di verità e di giustizia e di pace lui come s'è preparato? Non lo agita e lo preoccupa la paura dell'aldilà, ma il bisogno di dare un senso a tutta la vita. Forse il segreto della vita è nelle parole che su Dio aveva sentito nell'infanzia e in quelle che gli sono state dette sulla sera da Lucia. Fissa tra le molte affermazioni di Lucia la sua attenzione su una: Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia. Anche per lui quindi Dio potrebbe rivelare, se richiesto, il suo volto misericordioso. All'alba, dopo la notte insonne, lo sorprende il lieto rumore prodotto dallo scampanio che giunge dai paesi sottostanti. Vuol saperne la ragione e a questo scopo vi manda uno dei suoi uomini.

    Riassunto del capitolo XXII

    In paese, così riferisce al ritorno il bravo, era giunto in visita pastorale il cardinale Federigo Borromeo: per questo il paese era tutto infesta e per questo vi accorreva tanta gente dalle campagne e dai borghi vicini. Tanta festa per un uomo! E per quali ragioni? Che cosa di non comune possiede quell'uomo che lo fa tanto amare? Al contrario, quando lui, l'Innominato, passa per le strade, intorno si fa il deserto. Dalla gente è sì temuto ma anche escluso. Di qui l'insorgenza in lui del desiderio di vederlo e di parlargli. E, cosa insolita, senza scorta annata si avvia verso il paese e la casa del curato di cui è ospite il cardinale. La gente al vederlo gli fa ala. Il fatto genera dello scompiglio anche nel sacerdote che fa da segretario al cardinale. Questi, nonostante i consigli contrari, decide di accoglierlo. Il cardinale Federigo della grande famiglia milanese dei Borromei, nipote del cardinale Carlo che poi era stato santificato, apparteneva alla categoria di quegli uomini rari che spendono la vita nella ricerca e nell'esercizio non del bene ma del meglio. Uomo di grande carità e modestia, interamente votato al suo dovere di guida religiosa della diocesi dì Milano, con l'opera e con l'esempio era un costante punto di riferimento per tutti ed un modello di sacerdote per i preti della sua diocesi. Era anche uomo di grande dottrina e cultura: proteggeva le arti e le lettere, era anche scrittore lui stesso e aveva fondato una grande biblioteca con annessa una galleria d'arte, tuttora esistenti. Era insomma un esemplare non comune di vita che congiungeva sapientemente intensità morale, eroismo religioso, cultura vasta anche se non esente dai limiti che ad essa giungevano dai tempi. Credette per esempio nelle streghe e negli untori.

    Riassunto del capitolo XXIII

    Superate le perplessità del cappellano crocifero, il cardinale accoglie festosamente, e quasi scusandosi di non aver preso lui l'iniziativa, l'Innominato. Nulla del comportamento del cardinale è meno che composto, c'è in lui il segno di quella superiorità che si fa amare. L'abitudine dei pensieri benevoli e solenni, la pace interiore, la gioia continua d'una speranza ineffabile gli danno bellezza e fascino. Il cardinale vede con prontezza che nel cuore dell'Innominato s'è aperto un conflitto, una grande crisi che non può avere altro punto di arrivo che il riaccostamento alla Chiesa, la conversione. E qui siamo al punto culminante della crisi. L'Innominato sospinto dalle affettuose parole del cardinale piange e ne accetta l'abbraccio. Si trovano così abbracciati l'uomo incontaminato e l'uomo abituato a portare le armi della violenza e del sopruso. La crisi che lo tra vagliava da tempo e che durante la notte insonne stava per indurlo alla disperazione e al suicidio, ora si risolve: l'Innominato manifesta la volontà di liberare Lucia. A rendere più facile e meno la cosa si incarica di ciò una donna, moglie del sarto del paese, accompagnata anche da don Abbondio, il quale certo quel giorno si sarebbe dato malato, ove avesse potuto immaginare verso quali cose rischiose era avviato. In paese era andato per le pressioni della solita Perpetua. E poiché il destino di don Abbondio è quello di dover chinare la testa su cui si abbattono fendenti pesanti, ci va, al castello, ma la mula su cui è fatto salire, nonostante gli si assicuri che è mansueta, fa di tutto per procurargli altre paure. Le più gravi sono quelle che gli vengono dal mutismo concentrato dell'Innominato. Il cardinale gli ha assicurato che ormai il signorotto è pentito e convertito. Ma è proprio certo? E che cosa potranno fare i bravi malcontenti della soluzione? Finalmente si arriva al castello.

    Riassunto del capitolo XXIV

    Lucia s'era destata da poco dal sonno profondo in cui era caduta dopo aver fatto alla Madonna il voto di castità, se fosse stata liberata e restituita a sua madre. Grande è la sua gioia al mattino, quando sente di essere libera. L'Innominato si affretta a chiederle perdono. Con la stessa lettiga con cui la donna era venuta al castello, anche Lucia si avvia in paese. La discesa è tormentosa per don Abbondio, che sembra il centro di attrazione di tutti i guai. La mula, nonostante i tentativi di farla camminare al centro del sentiero, scende lungo l'orlo: sotto c'è il vuoto. Tutto sembra collaborare a fare di lui nolente un missionario, tutto sembra avviano al martirio. E non c'è solo la mula testarda a tormentarlo, ma anche il pensiero di don Rodrigo, che non potendo sfogarsi contro il cardinale, potrà riversare su di lui tutta la sua collera. Quando è in fondo alla valle, decide di tornare subito al suo paese. Decisamente non è uomo nato per le avventure. Ma più cerca di scansarle, più queste vanno in cerca di lui. Lucia è ospitata e rifocillata dalla moglie del sarto. Intanto si manda a chiamare Agnese. Nel pomeriggio, all'improvviso, giunge nella stessa casa del sarto il cardinale: vuole fare una visita a Lucia. Ottiene anche altre informazioni su Renzo e su don Abbondio che non aveva voluto sposare i due promessi. Queste ultime notizie le dà Agnese. Quando si allontana, il sarto che è un po' letterato e aveva sognato da sempre l'incontro con un uomo di cultura, non sa dire altro al cardinale che un banale "Si figuri!". Questa figuraccia lo accompagnerà per tutta la vita. Intanto l'Innominato nel castello riunisce tutti i bravi e ad essi comunica il suo proposito di cambiare vita. Ed il cambiamento doveva avere effetto immediato: ogni ordine scellerato veniva cassato: coloro che se la sentivano di mutare vita e di seguirlo nella nuova dimensione umana, sarebbero stati suoi graditi compagni. Gli altri potevano andarsene dopo aver ciascuno ottenuto ciò che gli spettava. La sera accanto al letto recita una preghiera, quella già detta durante l'infanzia e che si era miracolosamente depositata nella sua memoria.

    Riassunto del capitolo XXV

    Don Rodrigo non aveva ancora interamente gustata la gioia del trasferimento di padre Cristoforo che su di lui si abbatte la notizia della conversione dell'Innominato e della conseguente liberazione di Lucia. La gente presto ricostruisce la trafila che conduce a lui: nulla altro può fare che scappare a Milano, inseguito dalla vergogna dell'insuccesso. Si allontana dal paese la sua ombra minacciosa e vi approda in visita il cardinale, sempre festosamente accolte, tanto più perché nel miracolo da lui compiuto vi è implicata una loro paesana. L'unico uggioso in tanta festa è don Abbondio, che fa i doveri di ospite in modo inappuntabile. Però è sull'attenti; il cardinale sarà stato informato da qualcuno sulle sue responsabilità nella vicenda dei due promessi? Sembra dall'atteggiamento del cardinale di poter dedurre che nulla egli sappia. L'attenzione del vescovo ora si sposta verso Lucia: è affidata alle cure e alla protezione di certa donna Prassede, donna di consistente ricchezza e potenza, che si offre di fare del bene alla giovine. Il cardinale dà il suo assenso. E così Lucia qualche tempo dopo, deve spostarsi ancora una volta: stavolta starà in casa di donna Prassede. Le cose si schiariscono per Lucia che ancora nulla dice alla madre del voto fatto alla Madonna. Ma la tempesta si addensa sul capo di don Abbondio. Il cardinale ha saputo e al curato in un colloquio chiede conto del suo operato. Ma al curato sembra che le cose non potessero andare diversamente: egli era stato minacciato di morte da don Rodrigo e questa era per lui ragione più che mai persuasiva ad indurlo in stato di necessità. Il cardinale oppone che dovere di ogni sacerdote è di affrontare anche la morte per l'attuazione del proprio ideale. Ma don Abbondio oppone che le cose potevano andare nel verso del cardinale, solo se non si doveva fare conto alcuno della vita. Ma cosa ci si può guadagnare a fare il bravo contro gente che ha la forza e che non vuoi sentir ragioni? Ma allora, aggiunge il cardinale, dimenticate di esservi impegnato in un ministero che vi impone di stare in guerra con gli interessi dei potenti, dei peccatori? E per difendere i poveri, i diseredati, i parrocchiani che erano sotto la vostra custodia cosa avete fatto? Li avete amati fino al sacrificio o li avete abbandonati al potente, all'ingiusto, al sopraffattore?

    Riassunto del capitolo XXVI

    Don Abbondio non trova argomenti da opporre alle incalzanti e sempre religiosamente concrete domande del cardinale. C'è un'altra accusa contro di lui: quella di non avere sposato i due promessi ricorrendo a pretesti. È tutto vero e lui, il curato, dentro di sé non ha altro da dire che mandare qualche parola di condanna alle donne che non hanno saputo frenare la loro lingua. Ma insomma, conclude il curato, cosa avrei potuto fare in una situazione come quella? Prima, risponde il cardinale, doveva fare il suo dovere e sposarli, poi avrebbe potuto chiedere l'intervento del suo vescovo (la stessa cosa che aveva a lui suggerito Perpetua). Ma Federigo non vuol fare l'inquisitore: ha capito di quale stoffa sia il curato e pur non perdonando lo comprende e lo conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà. Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi: dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette, ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la metà della somma a Renzo. Del quale Renzo nello Stato di Milano nessuno sa nulla: neanche il cardinale riesce ad avere notizie precise. Il fatto si è che la polizia dì Milano aveva incaricato quella di Venezia di fare ricerca del noto delinquente. Renzo, avvertito, aveva per suggerimento del cugino Bortolo cambiato residenza e cognome: si faceva chiamare Antonio Rivolta.

    Riassunto del capitolo XXVII

    La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.

    Riassunto del capitolo XXVII

    Per tutto l'anno 1629 fino all'autunno la situazione politica generale non subì particolari modificazioni. Dopo il tumulto di S. Martino l'abbondanza sembrò tornata a Milano. Ma fu questione di pochi giorni: tornò il calmiere del pane con un prezzo più alto in rapporto alla rarefazione del grano. La poca farina che doveva essere amministrata con provvedimenti di equa distribuzione fu sprecata e lo Stato non seppe importare dall'estero grano a sufficienza. Si era creduto che con l'impiccagione di quattro uomini ritenuti responsabili del tumulto le cose trovassero sistemazione. Invece le cose peggiorarono: ma non ci fu tumulto, quasi la gente istintivamente avvertisse la impossibilità di radicali miglioramenti e di trasformazioni. La fame fiaccò anche i più generosi. La carestia temuta durante i mesi autunnali ed invernali si presentò con il suo volto devastatore. Dappertutto botteghe chiuse, le strade un corso incessante di miserie, accattoni sempre più numerosi, potenziati dai molti disoccupati, sempre più numerosi coloro che, vestiti di cenci, smagriti, emaciati, a volte incapaci di reggersi in piedi, chiedevano l'elemosina. Anche gente che era stata bene e aveva goduto di un certo agio ora sembrava schiacciata dalla fame. L'aspetto più doloroso era offerto dalla gente di campagna che la fame aveva cacciato di casa: ora accovacciati alle cantonate o in lunghe processioni i contadini provavano l'impossibilità per la città di provvedere a loro. Sempre più numerosi si fecero i morti. Pochi gli aiuti da parte delle anime più attente e generose. Eroica l'azione del cardinale che incarica giovani ed attivi preti a dare assistenza ai più colpiti. Ma si tratta sempre di toppe. Ci voleva l'azione dello Stato che, invece, fu del tutto assente o inadeguata. Contro il parere del Tribunale della Sanità che temeva dall'ammassamento in brevi spazi lo scoppio di un 'epidemia, si decise di aprire il Lazzaretto. Lì la gente trovava un minimo di assistenza alimentare: vi furono condotti a forza anche quelli che si opponevano al ricovero. Ma la morte per contagio assunse proporzioni rilevanti: di qui la decisione di rimandare fuori gli affamati. Finalmente giunse la primavera e qualcosa si cominciò a trovare.
    Ma un'altra e durissima batosta si abbatté sulla popolazione. Dato che gli Spagnoli non riuscivano ad aver ragione dei Gonzaga di Mantova, l'Impero germanico alleato della Spagna mandò un corpo di spedizione di mercenari feroci, che attraversavano i territori anche degli amici e degli alleati con la stessa efficacia distruttiva delle cavallette. All'arrivo dei lanzichenecchi la gente della fascia territoriale investita dal loro passaggio scappò di casa cercando riparo verso le montagne. E le sofferenze non erano finite.

    Riassunto del capitolo XXIX

    All'arrivo devastatore dell'esercito dei lanzichenecchi, alleato degli Spagnoli politicamente e militarmente, ma autentica bufera per la popolazione esposta al saccheggio impunito e a ogni forma di violenza, anche la gente del paese di don Abbondio scappa verso territori ritenuti più sicuri. Deve fuggire anche lui: e Perpetua lo sollecita ad uscire dal torpore e a dare una mano d'aiuto, invece che a riempire la casa di lamenti improduttivi e a dipingersi come da tutti abbandonato. Agnese suggerisce un rifugio sicuro: il castello dell'Innominato. Prima di partire Perpetua ha sepolto sotto un albero le poche ricchezze della casa: si ritiene furba anche lei. Al solito non è d'accordo con il suo gesto don Abbondio. In viaggio si fermano a fare visita al sarto e alla sua famiglia: ne vengono accolti con molta festa. Li accoglie con signorile gentilezza anche l'Innominato. Il quale ha predisposto il castello a difesa contro i lanzichenecchi. non dovrebbero passarci se non gruppi di sbandati o di ritardatari. Nel castello c'è molta gente e questo fatto preoccupa don Abbondio che in questo fatto vede come un invito ai lanzichenecchi. Lo preoccupa anche il fatto che I 'Innominato si metta disarmato a capo dei suoi ex bravi e vada a sconfiggere un gruppo di lanzichenecchi che si era troppo avvicinato al castello. Ma quella che domina dappertutto qui è la figura dell'Innominato ormai convertito e interamente volto ad imprese in difesa dei deboli e di lotta all'ingiustizia. Tutti coloro che ora, spinti dalle forze tedesche, si rifugiavano da lui lo ammiravano e lo guardavano estatici. Lui non stava mai fermo: dentro e fuori del castello era sempre in moto a vedere, a farsi vedere, a mettere ordine e a sorvegliare e a dare coraggio.

    Riassunto del capitolo XXX

    Il tempo che trascorre in sicurezza nel castello, don Abbondio se lo rovina per la paura che lo assedia e lo perseguita: dovunque vede minacce alla sua salvezza. Se non può per prudenza parlare e lamentarsi cogli altri, si sfoga con Perpetua e con Agnese che un po' lo sopportano, un po' lo rimproverano. Non gli manca nulla: l'Innominato lo rispetta. Ma lui ha bisogno di lamentarsi contro le due pettegole che l'hanno trascinato a tanto rischio. Gli sembra di essere tra due fuochi, dato che si è diffusa la voce che anche le truppe veneziane fanno delle scorri bande non meno devastatrici di quelle dei lanzi. Agnese e Perpetua trascorrevano il tempo lavorando per la comunità. Intanto veniva sfilando il grande corteo delle truppe tedesche in marcia verso Mantova. Ultime a passare furono le truppe di Galasso. Torna la sicurezza, e la gente torna alle proprie case. L'ultimo a partire, quasi strappato dal castello che ora gli dava tanta sicurezza, è don Abbondio con le due donne. Ad Agnese l'Innominato regala un mucchietto di scudi. Man mano si avvicinano al proprio paese trovano tutto segnato dalla furia dei soldati. A casa tutto messo a soqquadro, tutto insudiciato, il gruzzolo nascosto è scomparso. E questo fatto dà motivo di nuovo contrasto tra il curato e Perpetua.

    Riassunto del capitolo XXXI

    Si ritira l'esercito ma lascia dietro di sé oltre che le devastazioni un segno negativo di paurosa potenza distruttiva: la peste che allora sembrava essere costantemente presente all'interno degli eserciti. Le prime vittime furono accertate nel territorio di Lecco. Un soldato italiano militante nell'esercito tedesco la porta a Milano. Primo ad accorgersene e a darne l'allarme alle autorità sollecitando interventi precisi e rapidi; fu il protofisico (una sorta di Ministro della Sanità) Ludovico Settala: ne aveva diretta esperienza essendo passato indenne per quella del 1576. La gente sembra mettersi la testa dentro la sabbia e non ci crede: si dice che si tratta di un 'epidemia di varia natura dovuta alla carestia e agli strapazzi provocati dall'invasione dei lanzi. C'è una sorta di fuga dalla realtà. Si ha tanta paura delle parole che, invece di peste, si parla di febbre pestilenziale. Il governatore Ambrogio Spinola (don Gonzalo era stato sostituito), occupato dalla guerra, risponde alle autorità che facessero loro. lui ha cose più importanti cui pensare. Si riapre il lazzaretto che si vede ogni giorno di più colmare di malati: la maggior parte dei quali muore. Il lazzaretto, data l'insipienza e l'inefficienza dei poteri politici, affidato alla direzione ed amministrazione dei padri cappuccini: questi si adoperano eroicamente per i malati, molti prendono la peste, i più di loro muoiono. Ma la peste non è solo un male di per sé, non semina soltanto sofferenze e morte: scompiglia la vita mentale della gente e l'avvia verso le credenze più folli, verso Pirrazionalità. Non trovando la vera causa dell'epidemia, la gente inventa e dà credito ad alcune motivazioni e cause infondate: si pensa e crede che in giro vadano degli untori che, spinti da ragioni politiche o da perverse tendenze assassine, spargano e imbrattino di cose unte le cose e i luoghi pubblici. Chi ne è toccato, si prende la peste. Si credette di averne trovati alcuni che sottoposti a tortura si dissero colpevoli: furono avviati a morte e là dove c'era la casa di uno, fu eretta una colonna col compito di ricordare alle generazioni seguenti l'infamia di così efferato gesto.

    Riassunto del capitolo XXXII

    Le autorità politiche si svegliano e chiedono l'intervento del governatore: almeno le spese per i provvedimenti sanitari le sostenga lo Stato spagnolo. Il governatore risponde che non ci può fare nulla: lui è impegnato nella guerra in modi esclusivi. Ci pensi il vice governatore Ferrer. E questi con tutte le altre autorità non sa altro proporre che il ricorso al soprannaturale: si aspetta il miracolo. E perciò si fanno pressioni sul cardinale perché autorizzi e guidi una solenne processione. Il cardinale non vorrebbe, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi: i malati si attendono soluzione improvvisa e positiva del morbo. Ma il contagio favorito dall'ammassamento scatena in forme ancora più drammatiche la forza della peste: i malati aumentano in modo impressionante. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione. Più esposti alla morte furono i bambini, i vecchi, le donne. Nel lazzaretto è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. Si abbandonano a ruberie, a violenze, a scene orgiastiche. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. E il livello intellettuale si abbassa a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale o il Tadino vi credono.

    Riassunto del capitolo XXXIII

    La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.

    Riassunto del capitolo XXXIV

    Per entrare a Milano Renzo non incontra particolari difficoltà: basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Se fuori di città ciò che intristisce la campagna, parte incolta e tutta arida, dentro la città impressionano il silenzio e i segni desolanti della peste, che come potenza distruttiva travolge ogni cosa lasciando dietro di sé cadaveri e cenci. Proposito principale di Renzo di pervenire alla casa di don Ferrante alla ricerca della sua Lucia. Non ha con sé che indicazioni generiche. Un passante, a cui con buona educazione chiede informazioni, lo allontana con mal garbo con gli occhi stralunati e imbracciando e minacciando con un nodoso bastone: lo aveva ritenuto un unto re. L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna circondata dai suoi bambini e chiusa e sequestrata in casa dall'esterno: ritenendola portatrice di peste, gli amministratori l'avevano chiusa, come si fa per la quarantena e l'avevano dimenticata. Rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone: si incarica di avvertire qualcuno. Poco dopo incontra un prete che finisce di confessare un malato. A lui affida la donna e gli chiede informazioni sull'ubicazione della casa di don Ferrante. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte: dovunque fetore di cadaveri, visioni di solitudine e di abbandono, serrati tutti gli usci di strada, per tutto cenci, e segni di un progressivo imbarbarimento delle menti e dei costumi. quando Renzo arriva in città, questa aveva per la peste perduto i due terzi della popolazione. Le strade erano deserte: i pochi che per necessità le percorrevano prendevano tutte le cautele per evitare il contagio e per scansare incontri con i favoleggiati untori. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Ad un monatto una povera madre consegna il corpo esanime di una sua figliola: l'adagia lei stessa nel carro raccomandando che la si lasci così. Poco dopo si affaccia ad un balcone con in braccio un 'altra bambina, anche lei segnata dalla peste. Vincendo la commozione Renzo si avvia verso la casa cercata: alla finestra si affaccia una donna che gli annuncia che Lucia non c'è, che è stata portata al lazzaretto. E nulla altro risponde a Renzo, che voleva notizie più precise e teneva indeciso la mano sul martello della porta: lo stringeva e lo storceva. Il gesto non sfugge ad una donna che passava, una sorta di strega che lo addita alla folla come untore. Preso in mezzo dalla piccola folla Renzo prima minaccia col coltello, poi salta su un carro di monatti che stava passando. I monatti lo prendono sotto la loro protezione: la folla si dissolve scaricando la propria rabbia impotente in gesti che minacciano ancora il presunto untore. Renzo su quel carro si trova ora dentro le forme più sconvolgenti e turpi della peste: e non sono solo i cadaveri buttati sui carri a dare l'impressione di qualcosa di infernale, ma anche i monatti che si abbandonano ad una sorta di sadico compiacimento per la molta gente che muore e cantano canzonacce e bevono e si danno a forme di diabolica orgia. Ad uno di loro Renzo appare un povero untorello, uno che certamente non può essere un unto re. Non ne possiede secondo il monatto i fieri requisiti. Ormai sono al lazzaretto: Renzo ringrazia e si congeda. Dentro il lazzaretto ciò che colpiva era la folla dei malati, sui quali la peste, anche se sopravvivevano, lasciava a volte segni spaventosi di degradazione. Il gruppo che più impressiona è quello degli alienati mentali, degli istupiditi. Una scena improvvisa è quella di un cavallo non domo con sulla groppa un cavaliere, un appestato impazzito: dietro corrono i monatti: tutto poi si ravvolge in un nuvolo di polvere.

    Riassunto del capitolo XXXV

    L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.

    Riassunto del capitolo XXXVI

    Allontanatosi dal letto di morte di don Rodrigo, con animo molto commosso, con la commozione che ci prende quando pressati dall'impressione dei morti o dei moribondi ci ripieghiamo a pensare a noi e al senso di tutta la vita, Renzo riprende lungo il lazzaretto la sua ricerca di Lucia: come cercare un ago in un pagliaio. Al centro, quasi punto di riferimento e di convergenza, la cappella a pianta centrale, con un portico che girando intorno lascia la vista dell'altare da qualunque posizione ci si volga verso di esso. intanto la processione dei guariti o avviati a guarigione, comincia a riunirsi intorno, guidata dal padre Felice, che si volge ai malati o convalescenti e li saluta prima che essi tornino alle loro case, alle solite occupazioni. Sono i sopravvissuti di una epidemia terribilmente devastatrice: con quali sentimenti i guariti guarderanno ora alla vita? Con la coscienza, dice padre Felice, che essi la vita ottenuta come dono dalla divinità l'impieghino in opere che siano alla stessa accette. Si aiutino tutti e si avvertano fratelli: la sofferenza conceda a tutti i salvati il senso della fugacità dell'esistenza con la congiunta consapevolezza che la legge del mondo dovrebbe essere quella dell'amore. Finita la processione, Renzo si avvia nei reparti riservati alle donne: quando sembra avviato a disperazione, postosi accanto ad una capanna ne sente venire una voce inconfondibile: quella di Lucia. L'ha ritrovata e con la solita generosa impetuosità vorrebbe che le cose tornassero come prima. Il voto, che ancora Lucia insiste di voler rispettare, a lui sembra il frutto di una mente turbata, quindi una cosa sconclusionata. Contro la recisa, fermissima opposizione di Lucia, non c'è altri che possa sciogliere la difficoltà, che padre Cristoforo. il quale, chiamato, ascolta da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di gesto nobile ma viziato all'origine: era stato fatto senza tenere conto che lei s'era promessa a Renzo e in momenti di grande agitazione. Se lei consente, dal voto può essere sciolta. E così padre Cristoforo pronuncia la formula di scioglimento ed insieme dà ad ambedue un avvertimento ed un consiglio: possono tornare come promessi sposi ai pensieri di una volta ma si ricordino che la vita deve essere spesa nella ricerca del bene e che le sofferenze patite devono disporli ad un 'allegrezza raccolta e tranquilla. Così si congeda il frate, ormai con nel volto i segni della morte imminente. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercantessa che le si è affezionata. Renzo decide dì partire subito e di andare alla ricerca di Agnese. il tempo che era prima afoso e nebbioso e percorso da rumori di tuoni, ora sembra voler precipitare in forma di burrasca.

    Riassunto del capitolo XXXVII

    Renzo ha da poco varcato l'ingresso del lazzaretto, che il tempo quasi sciogliendosi dalla gravezza da tempo imperante sulla città si risolve in un forte temporale. L'acqua veniva a secchie. Ma Renzo non si lascia frenare o distogliere: una nuova, fervida, alacre vita sembra essersi ridestata in lui e lo spinge infaticabile verso il proprio paese. Deve ordinare parecchie cose e deve ormai preparare tutto per l'arrivo di Lucia: allora si penserà al matrimonio. Cammina tutta notte e al mattino si trova in casa dell'amico che, quasi avvertendo anche lui la liberazione da un incubo, sorride al vedere Renzo ridotto così malamente. Lo fa mangiare e si fa raccontare per filo e per segno tutte le avventure degli ultimi giorni. Asciugato e riposato il giorno dopo Renzo si reca a Pasturo: vi trova Agnese e anche a lei racconta di Lucia e dello scioglimento del voto. Poi sempre a piedi ed incontenibile va a Bergamo per Bortolo e per cercare casa: sposato intende trasferirvisi. Infine torna al paese e vi trascorre alcuni giorni ora chiacchierando con Agnese ora lavorando il poderetto di lei. Renzo manifesta il proposito di vendere la sua vigna e la sua casa. Lucia, intanto, con la mercantessa ormai guarita, si trasferisce nella casa di questa. Da lei Lucia viene a sapere di Gertrude e della turpe vita che conduceva al monastero. Sa anche della morte dei suoi ospiti, donna Prassede e don Ferrante. Questi era morto come un eroe della scienza: si era convinto che la peste era dovuta ad un influsso, avverso, delle stelle e quindi non prese alcuna precauzione: un giorno si mise a letto e vi morì con un ultimo sguardo alle stelle, della cui dottrina aveva creduto di nutrirsi.

    Riassunto del capitolo XXXVIII

    È la stagione dei ritorni: primo a giungere in paese è stato Renzo; da Pasturo torna Agnese, ora torna anche Lucia accompagnata dalla mercantessa, compagna di capanna dentro il lazzaretto. Grande è la gioia generale. La famiglia Tramaglino ora può costituirsi. E per prendere accordi Renzo si reca da don Abbondio: ritiene di dover trovare porte spalancate ma non ha fatto i conti con la paura del curato che, finché ritiene o induce che don Rodrigo è ancora vivo, sente incombere la minaccia di cui si erano fatti messaggeri i due bravi da lui incontrati durante la passeggiata pomeridiana. Don Abbondio ha ancora delle obiezioni da fare, delle difficoltà da frapporre. Dice che esita per il bene di Renzo. A sciogliere il nodo giunge al castello-palazzotto di don Rodrigo il marchese che ne è l'erede. Il signorotto è morto. Don Abbondio è come liberato; diventa cordiale, generoso, scherza: un grosso peso gli si è tolto dal petto. Il nuovo proprietario dei beni che furono di don Rodrigo è persona dolce, umana, vuol compensare in qualche misura i due promessi acquistando ad un prezzo da lui maggiorato i loro pochi beni. Finalmente si celebra il matrimonio e il marchese invita gli sposi a pranzo nel suo palazzo: lui si pone in una stanza con don Abbondio, in un'altra gli sposi. Buono sì, ma sempre marchese! Segue poi il viaggio nel nuovo paese, nel bergamasco, dove Renzo si trasforma in piccolo imprenditore. Ma il suo piacere è attenuato dall'amarezza che gli danno i nuovi compaesani che non trovano di loro gusto Lucia, fatta centro di tante avventure. L'avevano ritenuta una creatura magicamente bella: ed invece è una giovane donna come tante altre. A liberare Renzo dai disgusti c'è un secondo trasferimento in altro paese: dove insieme con Bortolo acquista una piccola filanda. Qui le cose migliorano sotto ogni aspetto. La famiglia è più unita e Renzo più sereno. I bambini che nascono sono la gioia di Agnese. Di tutta questa a volte tumultuosa vicenda quale il sugo? I due coniugi d'accordo conchiudono che i guai ci sono e non si possono evitare: solo la fiducia in Dio li addolcisce e li rende utili per una vita migliore.



    Edited by uno - 28/11/2007, 21:02
     
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  8. )Alice(
     
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    Qualcuno potrebbe darmi la divisione in sequenze del secondo e del terzo capitoo please??
    Grazie...
     
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  9. uno
     
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    capitolo secondo

    - La notte insonne di don Abbondio
    - Incontro di Renzo col curato (don Abbondio)
    don Abbondio riesce a far credere al ragazzo di non essere riuscito a compiere tutti i preparativi necessari in tempo
    - Dialogo Renzo-Perpetua
    Perpetua dice a Renzo la vera ragione del rinvio delle nozze
    - Renzo torna dal curato e, aggredendolo con le parole, riesce a farsi rivelare la verità.
    - Renzo desolato s'incammina verso casa di Lucia
    - Renzo comunica ad Agnese e Lucia la notizia
    - don Abbondio cade in preda alla febbre.
    - Perpetua da una finestra conferma alle comari la notizia della malattia del curato

    capitolo terzo

    - Lucia racconta i suoi involontari incontri con Don Rodrigo a Renzo e Agnese
    - Lucia rivela di aver narrato l'accaduto a fra Cristoforo.
    - Al sentire gli episodi descritti da Lucia, Renzo viene colto da un nuovo attacco d'ira e da propositi di vendetta
    - Lucia riesce a calmare Renzo
    - Agnese consiglia a Renzo di recarsi a Lecco, da un avvocato soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna 4 capponi da portare in dono al dottore.
    - Renzo si mette in cammino verso Lecco.
    - Manzoni riflette sulla mancanza di solidarietà tra gli uomini, anche quando questi sono accomunati dalle sventure
    - Renzo arriva alla casa di Azzecca-garbugli, consegna i 4 capponi a una serva e viene fatto accomodare nello studio
    - Il dottore Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e, per intimorirlo, legge confusamente una grida che annuncia pene severissime per chi impedisce un matrimonio.
    - Inizia il tragicomico equivoco tra Renzo e l'Azzecca-garbugli che lo crede un bravo camuffato
    - Manzoni sottolinea la stupidità delle leggi spagnole (divieto di portare il ciuffo)
    - Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede e lo invita a fidarsi di lui
    - Scoperto l'equivoco Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta ogni aiuto
    - Lucia e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere aiuto anche a fra Cristoforo.
    - Arrivo di Fra Galdino
    - Fra Galdino chiede le motivazioni sul mancato matrimonio, ma il discorso viene eluso
    - Lucia dona a fra Galdino una gran quantità di noci affinchè si convochi fra Cristoforo.
    - Manzoni traccia un profilo sociale di fra Cristoforoe sulla condizione dei frati cappuccini nel Seicento
    - Renzo ritorna alla casa di Lucia e racconta il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli
    - Si accende una piccola discussione tra Renzo e Agnese subito placata da Lucia
    - Renzo rientra a casa propria
     
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  10. emanuele_kr
     
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    nel secono vapitolo cose dice perpetua a renzo
     
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  11. uno
     
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    Perpetua dice a Renzo la vera ragione del rinvio delle nozze.
     
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  12. VaNe ThE BeSt
     
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    Mi serve aiutoooooooooooooo...se qualkuno ha il libro dei promessi sposi non è che potrebbe aiutarmi a rispondere a questa domanda??? pleasee è per domaniiii...

    allora Dopo aver individuato le frasi più salienti della conversazionje, prova a ricostruire nella forma di discorso diretto legato il colloquio fra il cardinale Bonrromeo e don Abbondio!
    PLEASEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE HELP ME!!
     
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  13. badatp260288
     
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    bellissimi i promessi sposi
     
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  14. Randagia
     
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    CITAZIONE (VaNe ThE BeSt @ 18/5/2008, 17:43)
    Mi serve aiutoooooooooooooo...se qualkuno ha il libro dei promessi sposi non è che potrebbe aiutarmi a rispondere a questa domanda??? pleasee è per domaniiii...

    allora Dopo aver individuato le frasi più salienti della conversazionje, prova a ricostruire nella forma di discorso diretto legato il colloquio fra il cardinale Bonrromeo e don Abbondio!
    PLEASEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE HELP ME!!

    di quale capitolo? XXV o XXVI o cosa?
     
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    CITAZIONE (Randagia @ 26/9/2008, 20:40)
    CITAZIONE (VaNe ThE BeSt @ 18/5/2008, 17:43)
    Mi serve aiutoooooooooooooo...se qualkuno ha il libro dei promessi sposi non è che potrebbe aiutarmi a rispondere a questa domanda??? pleasee è per domaniiii...

    allora Dopo aver individuato le frasi più salienti della conversazionje, prova a ricostruire nella forma di discorso diretto legato il colloquio fra il cardinale Bonrromeo e don Abbondio!
    PLEASEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE HELP ME!!

    di quale capitolo? XXV o XXVI o cosa?

    richiesta di 4 mesi fa... lascia perdere :D
     
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