7 anni di guerra

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    Il conflitto Cino-Giapponese

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    28 luglio 1937. L'offensiva giapponese contro le truppe cinesi attestate sul confine settentrionale ebbe inizio all'alba del 28 luglio. Nello stesso, giorno le avanguardie nipponiche raggiungevano i sobborghi di Pechino. L'antica capitale cadeva pochi giorni dopo, 1'8 agosto, mentre la stessa sorte era già, toccata, fin dal 29 luglio, ad un'altra grande città, Tien Tsin e al porto di Taku. Ma la spinta principale dei nipponici non era quella verso sud, almeno in questa prima fase delle operazioni. Il loro comando voleva infatti isolare il più possibile le truppe di Ciang (che avevano ritrovato il vecchio accordo con i comunisti) dal confine sovietico. E così una serie di manovre a vasto raggio in Mongolia e nello Scian-si portarono all'occupazione di Ta-tung, di Calgan e di altre importanti città della Cina settentrionale. Nella foto in alto truppe cinesi al contrattacco a Ping Ti Civan nella Cina centrale. La località fu occupata il 14 ottobre dai nipponici. Al centro guastatori cinesi depongono cariche esplosive su un ponte per proteggere la ritirata dell'esercito di Ciang Kai-scek. In basso soldati cinesi al guado di un fiume nell'estate del 1937.

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    La guerra colpì molto duramente la popolazione civile cinese, che dovette subire senza alcuna protezione per la prima volta nella storia i disastrosi bombardamenti aerei. Nella foto la consorte del generalissimo Ciang Kai-scek visita un quartiere di Nanchino distrutto dai bombardieri nipponici.

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    Una ragazza cinese presta servizio di guardia alle istallazioni militari di una cittadina cinese. Le donne furono presenti nella lotta sia nei servizi ausiliari sia sul fronte. Molte provenivano dal partito comunista.

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    Tutti gli osservatori occidentali del conflitto cino-giapponese affermarono che uno degli aspetti più tristi della guerra fu la sorte dell'infanzia cinese. Migliaia e migliaia di bambini rimasero senza famiglia o senza casa e furono sterminati dalla fame e dalle epidemie. Nello scompiglio generale moltissimi genitori persero la loro prole, mentre frequentissimo era l'abbandono delle femminucce, considerate in Cina come « bocche inutili » per la famiglia. Nella foto due bambini profughi.

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    Sciangai, settembre 1937: una spia giapponese è stata scoperta dai nazionalisti e viene portata (con la testa coperta) al luogo del supplizio. A Shangai i giapponesi disponevano di un perfetto servizio
    di spionaggio che aveva le sue radici
    nelle concessioni internazionali.

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    La durezza dei nipponici, ingigantita dalla propaganda nazionalista, determinò anche in Cina la fuga delle popolazioni civili. Si calcola che durante il conflitto circa quindici milioni di persone si trasferirono verso il sud, ove aggravarono con la loro presenza le già drammatiche condizioni della popolazione.

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    Nel settembre del 1937 i giapponesi accentuarono la loro pressione verso il sud. Lo scopo di questa offensiva era evidente: conquistare uno dopo l'altro i porti principali della Cina e isolare così il paese dal mare per impedire o rintuzzare l'afflusso dei rifornimenti che, in misura sempre maggiore, giungevano dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Il 25 agosto, anzi, proprio a questo scopo, il vice ammiraglio Hasegava aveva proclamato il blocco delle coste cinesi per un'estensione di mille miglia. Così, mentre nel nord si andavano costituendo vari governi filo nipponici in Manciuria, nella Mongolia e nel Ciupei, continua la spinta verso le ricche regioni meridionali. Nella foto truppe nipponiche guadano un fiume.

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    La meta principale dell'attacco nipponico era questa volta Sciangai. Sulla grande metropoli, popolata da circa tre milioni di abitanti, in parte stranieri, si scatenò così la furia dei bombardamenti aerei prima e dei cannoneggiamenti poi. Nella foto una apocalittica visone di Sciangai sotto il martellamento dell'aviazione giapponese che operò senza alcun contrasto da parte nemica.

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    9 novembre 1937. Dopo una resistenza lunga e tenace, che aveva lasciato le sue tracce sanguinose sulla grande città, Sciangai fu occupata dai nipponici. Il successo era notevole: quella che da quasi mezzo secolo era stata la grande porta dell'occidente aperta sulla Cina, era ormai saldamente nelle mani del Tenno. Nella foto a sinistra il gen. cinese Ku Chu-tung sfortunato difensore di Sciangai. Nella foto a destra i nipponici entrano a bandiere spiegate nella città conquistata, salutati dai connazionali residenti nella metropoli e usciti dalla clausura bellica nelle concessioni straniere.

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    13 dicembre 1937. A Pechino si costituisce il governo provvisorio cinese filonipponico, che succede al cosiddetto governo « del mantenimento della pace », insediandosi nella vecchia capitale all'indomani della conquista giapponese. Lo compongono (da sinistra a destra): Kao Ling-wei, il Maresciallo Chi Hsieh-huan, Wang Keh-min, Kieng Chao-tsung, Tung K'ang, il presidente del consiglio T'ang Erh-ho, Wang Yi-t'ang, Chu Shen.

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    Nella Mongolia esterna, sull'esempio di quanto avevano fatto nel Manciukuo, nipponici insediarono un governo che proclamò l'indipendenza del paese dalla dominazione cinese. Capo della Mongolia esterna fu il principe Teh, filogiapponese.

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    L'offensiva giapponese non conosceva soste. Nello stesso giorno in cui a Pechino s'era formato il governo « collaborazionista », i soldati del Mikado entrarono infatti nella capitale di Ciang Kai-scek, Nanchino, nella Cina centrale. Era un altro duro colpo alle speranze cinesi. Ma il generalissimo nazionalista non cedette. E dopo aver perso, nel febbraio 1938, la grande battaglia dell'Hoang-ho, raccolse le sue forze e tentò una disperata controffensiva. Venne battuto nuovamente, dopo un effimero successo iniziale. Nuovo scacco sanguinoso, in maggio, a Su-ciou. Non restava che un mezzo, per rallentare la spinta irresistibile dei giapponesi: la rottura delle dighe del Gran Canale. Ciang non ebbe un attimo di esitazione. Ma l'espediente non ottenne il successo sperato e aggravò senza vantaggio alcuno le già tragiche condizioni della popolazione. Nella foto dopo la conquista di Nanchino i comandanti dell'esercito vittorioso passano in rassegna le truppe.

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    21 ottobre 1938. I giapponesi occupano Canton. Con la conquista del grande porto della Cina, i nipponici iniziano una serie di operazioni sulla costa meridionale del continente. La conquista non è importante soltanto per i suoi effetti militari nel quadro del conflitto nippo-cinese, ma soprattutto per i suoi riflessi economici e politici all'estero. Essa completa il blocco delle coste nemiche, esclude dal commercio cinese gli occidentali, i quali malgrado la dichiarazione di blocco avevano intensificato il contrabbando, e prelude alla occupazione di una serie di basi aero-navali che da Hainan e dalle Spratley (poi dall'Indocina) miglioreranno la posizione nipponica per le operazioni di guerra contro le Filippine, l'Insulindia e Singapore.

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    11 luglio 1938. A pochi giorni dalla ripresa del conflitto cino-giapponese, il governo di Ciang Kai-Scek aveva stipulato con l'Unione Sovietica un patto quinquennale di non aggressione che aveva portato, tra l'altro, ad una ripresa della collaborazione fra comunisti e nazionalisti sul piano politico-militare. Questo fatto, assieme con i grossi rifornimenti d'armi ai cinesi disposti dai sovietici, aveva provocato un riacutizzarsi della persistente tensione fra nipponici e russi sul confine manciuriano. L'11 luglio 1938 si giunse ad un gravissimo incidente con l'occupazione, da parte sovietica, nelle colline di Ciang Cu-feng e conseguente controffensiva giapponese. I combattimenti durarono parecchi giorni e furono molto accaniti da ambo le le parti. Ma non si giunse alla guerra e sulla pericolosa frontiera si perpetuò la stranissima situazione che vedeva due nemici giurati armati fino ai denti ma decisi a non sparare la prima cartuccia. Nella foto soldati russi prigionieri dei giapponesi.

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    Per l'immensa estensione del territorio cinese, le ferrovie
    avevano per i nipponici un'immensa importanza strategica. I cinesi vi si accanirono contro con ogni mezzo. Ritirandosi distruggevano ponti, viadotti, gallerie, centri di smistamento. Poi, dopo la ricostruzione giapponese, intervenivano i sabotatori disseminati nel territorio occupato. Nella foto a destra la linea distrutta dai cinesi. A sinistra : un treno nipponico passa sul binario rimesso
    in esercizio con mezzi di fortuna.

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    Il 1939 e il 1940-41 vedono accentuarsi la pressione giapponese verso sud. Occupate le principali città sul Mar Giallo, preso saldamente possesso delle foci dei fiumi, approfondita la loro penetrazione nel'interno, i nipponici avevano infatti tutto l'interesse di mettere piede in questo estremo lembo
    del territorio cinese, non soltanto per isolare Ciang Kai-scek dalla Birmania (da dove gli giungevano ancora i rifornimenti occidentali) ma anche
    in vista dell'ormai inevitabile conflitto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. La situazione diplomatica s'era fatta grave, infatti, non soltanto
    per i continui incidenti che avevano irritato l'opinione pubblica americana, ma anche perchè alla teoria dell' « ordine nuovo in Asia » enunciata da
    Tokio dopo l'occupazione di Canton, britannici e americani avevano reagito con veri e propri atti di ostilità. Basti dire che nel luglio 1939 Washington aveva denunciato il trattato commerciale con il Giappone in vigore da 28 anni: un gesto, questo, che aveva pressochè troncato le relazioni
    economiche fra i due paesi con la conseguente rovina di numerose ditte giapponesi. Nella foto a sinistra i giapponesi all'attacco sul confine indocinese. L'Indocina venne occupata dai nipponici nell'agosto del '40, in seguito ad un accordo fra il governo di Tokio e quello di Vichy. Nelle foto a
    destra i due protagonisti del più grave incidente diplomatico della guerra cino-giapponese, l'involontario affondamento della cannoniera americana a
    « Panay » e di alcune navi mercantili da parte delle artiglierie giapponesi. A sinstra l'ammiraglio Hasegawa che presentò le scuse di Tokio al rappresentante statunitense ammiraglio Yarnell (a destra). Nell'incidente perì anche il valoroso corrispondente di guerra italiano Sandro Sandri.

    Gli armamenti nippo-americani

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    Abbiamo visto come nel 1939, con la denuncia del trattato commerciale nippo-americano da parte del governo di Washington, le relazioni fra l'impero
    del Sol Levante e gli Stati Uniti fossero giunte ad un grado estremo di tensione. La decisione di Roosevelt equivaleva infatti ad una vera e propria dichiarazione di guerra economica, anche perchè, mentre tendevano a strangolare il Giappone e a sabotarne con « l'embargo » lo sforzo bellico sul continente asiatico, gli Stati Uniti continuavano a rifornire la Cina di armi e di munizioni, sostenendo Ciang Kai-scek con forti aperture di credito e con l'invio di volontari. Perciò, mentre in Europa s'accendeva il conflitto nel quale, una dopo l'altra, furono coinvolte Germania, Inghilterra, Francia, Olanda, Italia e Unione Sovietica, nel Pacifico la situazione si andava aggravando sempre più, accendendo una vera e propria gara degli armamenti fra Stati Uniti e Giappone. In alto la catena di montaggio degli apparecchi da caccia in una grande fabbrica aeronautica americana. In basso a sinistra uno stabilimento giapponese di costruzioni aeronautiche. A destra una visione dell'arsenale giapponese di Kobe.

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    I dati sull'entità delle forze di terra nipponiche allo scoppio del conflitto sono piuttosto vaghi e contraddittori, per l'estrema riservatezza con la quale si trattava, in Giappone, delle questioni militari. Dopo Pearl Harbour osservatori occidentali dichiararono a questo proposito che solo il Giappone avrebbe potuto compiere un'operazione così complessa e vasta, basata essenzialmente sulla sorpresa, senza che trapelasse la benchè minima indiscrezione. Comunque si sa che malgrado la lunga e dispendiosa campagna di guerra cinese, nel 1941 i giapponesi disponevano di almeno cinque milioni di uomini sotto le armi che avrebbero potuto agevolmente portare a otto milioni in caso di mobilitazione generale. Si trattava, poi, di un esercito di altissima qualità non soltanto per il fanatismo patriottico che animava capi e gregari ma anche per l'ottimo addestramento, lo spirito di disciplina e il buon materiale bellico in dotazione. Nella foto in alto un reparto si appresta a partire per il fronte salutato dall'entusiasmo della popolazione di Tokio. In basso Alla presenza del Tenno, sfilano le formazioni corazzate nipponiche.

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    Per la posizione insulare del loro paese, per la necessità di fronteggiare, in caso di guerra, le due più grandi potenze navali del mondo, i giapponesi avevano dato sempre la massima importanza alla flotta. Si erano quindi battuti a tutte le conferenze navali per ottenere la parità di tonnellaggio con la Gran Bretagna. Alla fine era stato fissato un rapporto di tre a cinque fra il tonnellaggio delle grandi navi giapponesi e quello delle due rivali occidentali. Nella foto in alto la flotta giapponese all'ancora sorvolata da una formazione di apparecchi da bombardamento anfibi. In primo piano sono visibili tre corazzate della classe « Kongo ». In basso a sinistra un reparto della fanteria da sbarco nipponica che, modernamente armata e attrezzata, portò nel conflitto con gli Stati Uniti la lunga esperienza bellica acquistata durante la guerra cino-giapponese. A destra un sommergibile giapponese in navigazione nel Pacifico.

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    Secondo i dati occidentali, il Giappone disponeva, all'inizio del conflitto, di circa duemila apparecchi, equamente divisi fra l'esercito e la Marina. Questi dati, come sempre, vanno presi con molte riserve. Infatti la potenza dimostrata dall'aviazione del Tenno nel 1941 fa ritenere che sull'immenso scacchiere operativo fossero dislocati non meno di quattro-cinquemila apparecchi, di cui circa la metà da bombardamento. Nella foto in alto una formazione di caccia del tipo « O » in volo sul Giappone. In basso un campo d'aviazione nipponico in Cina. Gli apparecchi, bimotori da bombardamento, potevano trovare posto anche sulle navi portaerei.

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    Generalmente si ritiene che gli Stati Uniti siano entrati nel conflitto mondiale impreparati e pressochè dìsarmati. E ciò, appunto, spiegherebbe le strepitose vittorie iniziali dei nipponici, progressivamente contenuti, contrattaccati e sconfitti quando il grande potenziale industriale americano riuscì a far pendere la bilancia degli armamenti dalla propria parte. Si tratta di un luogo comune che va sfatato e che risponde alla realtà delle cose soltanto per quanto riguarda le unità dell'esercito americano, le quali erano veramente al di sotto dei loro compiti e la cui preparazione non era adeguata a quella dell'avversario. Ma il semplice computo degli stanziamenti militari americani dimostra che ben prima dell'attacco nipponico di Pearl Harbour Roosevelt aveva progettato la costituzione di un grande esercito, modernamente armato e attrezzato. 16 maggio 1940, primo stanziamento straordinario di 1.182 milioni di dollari per armamenti dell'esercito; 31 maggio 1940 nuovo stanziamento di 1.268 milioni di dollari per raggiungere una produzione di 50 mila aerei all'anno; 18 giugno 1940: 4.000 milioni di dollari stanziati per la « flotta dei due oceani »; 16 settembre 1940, legge sulla coscrizione militare obbligatoria e nuovo stanziamento straordinario di 16 miliardi; 5 agosto 1941: tassazioni speciali per gli armamenti per un totale di 3 miliardi e 200 milioni di dollari. Finalmente il 25 agosto 1941, nuova assegnazione di fondi all'esercito e alla marina per una somma senza precedenti: 7 miliardi e 587 milioni di dollari. Nella foto in alto una divisione americana sfila in parata. Si tratta di una delle prime unità costituite dopo la legge sulla coscrizione militare obbligatoria che aveva sostituito il sistema del volontariato in uso negli Stati Uniti fino al 1940. In basso carri armati americani. Il programma di Roosevelt prevedeva la costruzione, entro il 1941, di 9.200 carri armati.

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    La marina da guerra americana era costituita, nel 1939, da 15 navi di linea, di tonnellaggio variante fra le 35 mila e le 26 mila tonnellate. Due corazzate da 35 mila tonnellate risultavano in costruzione all'inizio dell'anno. Le portaerei in servizio erano tre, quelle in allestimento cinque. Completavano la flotta numerosi incrociatori, 203 caccia e 86 sommergibili. Ma già nel 1938 il Congresso aveva approvato l'aumento del 20 per cento sulla consistenza della flotta, mentre un ulteriore aumento era stato deciso nel giugno del 1940. Nel luglio, dopo il crollo della Francia, fu però varato un nuovo piano che prevedeva il raddoppio delle navi da battaglia, ed un aumento di quasi il 200 per cento per gli incrociatori e le portaerei. Tale programma era in fase di completamento un anno dopo, nel dicembre 1941, al momento dell'attacco giapponese. Nella foto in alto corazzate americane in navigazione nel Pacifico. Sono visibili in secondo piano le caratteristiche torri a traliccio delle corazzate antiquate. In basso una squadra di grosse e moderne portaerei americane. La unità capofila è la « Lexinton », seguita dalla « Ranger ».

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    I programmi aerei americani dopo il 1939 non furono meno vasti e ambiziosi di quelli terrestri e navali. Alla grande industria aeronautica erano stati infatti commissionati ben 50 mila aerei da caccia, da ricognizione e da bombardamento. L'attuazione di un simile piano costruttivo avrebbe portato gli Stati Uniti al primo posto nel mondo come potenzialità aerea. Il riarmo americano preoccupò i giapponesi che, dopo aver tentato con l'ambasciatore amm. Nomura e con il plenipotenziario Kurusu un estremo accordo con gli Stati Uniti per la divisione del Pacifico in zone d'influenza, dichiarandosi anche disposti a gravi sacrifici, decisero la guerra. Era infatti loro persuasione che gli americani attendessero soltanto il completamento dei loro piani industriali e militari per sferrare un attacco al Giappone. Tale impressione è confermata dalle rivelazioni del figlio di Roosevelt, Elliot, il quale scrisse: « Stiamo calmando il Giappone e approfittiamo del tempo che guadagnamo per costruire una flotta e un esercito di primo ordine ». Nella foto in alto apparecchi da caccia americani in volo sulla California. In basso « B29 » in una base aerea del Texas.

    Pearl Harbour 7 Dicembre 1941

    7 dicembre 1941. Dopo l'applicazione della legge « affitti e prestiti » alla Cina, dopo le sanzioni del petrolio applicate da Stati Uniti, Gran Bretagna
    e Olanda, dopo il congelamento dei crediti giapponesi, dopo la chiusura del Canale di Panama al naviglio nipponico, non restava altra via al Giappone che cercare una soluzione di compromesso con gli USA o rompere il cerchio con la guerra. Con l'avvento del ministero Tojo la politica nipponica si fece più risoluta e mentre Nomura e Kurusu trattavano a Washington cozzando contro l'intransigenza rooseveltiana, lo stato maggiore della flotta giapponese preparava in gran segreto i suoi piani di attacco. Così, all'alba del 7 dicembre, dopo una grave risposta negativa degli Stati Uniti alle proposte di compromesso giapponesi, una grossa squadra nipponica, al comando dell'ammiraglio Nagumo, partita il 26 novembre da un ancoraggio delle isole Kurili, fu in grado di sferrare, completamente di sorpresa, il primo attacco alla più grande base americana del Pacifico: Pearl Harbour. Non si trattò di un'azione navale classica, basata sul tiro navale ma di un colpo sferrato dagli aerei siluranti e da bombardamento dislocati sulle sei portaerei della squadra. Nella cartina la rotta della squadra di Nagumo fino al punto in cui, a circa 150 miglia dall'isola di Oahu, lanciò le due ondate di aerei che distrussero la squadra americana del Pacifico.

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    Pearl Harbour era considerata una delle più munite basi aero-navali del mondo. I suoi tre aeroporti, le numerose batterie costiere, l'ancoraggio sicuro
    delle corazzate nell'interno di un vastissimo porto naturale, la mettevano, secondo l'opinione dei tecnici militari, al sicuro da ogni sorpresa. Una rete di avvistamento radar, le ricognizioni degli aerei, le crociere protettive delle torpediniere dovevano bastare a segnalare un'eventuale incursione e a mettere tempestivamente la base in condizione di neutralizzare l'attacco. Se ciò non accadde il giorno della sorpresa giapponese, la causa va ricercata nell'estrema accuratezza con la quale Yamamoto e Nagumo avevano preparato l'impresa, nella fortuna che li protesse e nella trascuratezza dei comandi americani i quali, pur essendo in stato di emergenza per quanto riguardava i sabotaggi (temuti da parte dei trentamila giapponesi che risiedevano sull'isola), non avevano preventivato un attacco della flotta nipponica cosi lontano dalle basi metropolitane. Anzi le misure anti-sabotaggio (apparecchi ala contro ala sui campi) aggravarono i danni dello spezzonamento giapponese. In quanto alle usuali crociere di ricognizione degli aerei americani, va notato che quel giorno, essendo domenica, erano state sospese. E i giapponesi, a quanto sembra, avevano prescelto il giorno dell'attacco anche tenendo conto di questo fatto, del quale erano informati tramite il loro perfetto servizio di spionaggio nell'isola. Cosi, esattamente alle ore 7,55 del 7 dicembre 1941 gli aerei giapponesi della prima ondata sorvolarono Pearl Harbour seminando distruzione e morte. Nell'eccezionale fotografia, di fronte nipponica la prima ondata giapponese. Sono visibili le unità. statunitensi sotto il tiro di due aerei nipponici in azione.
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    Pearl Harbour 7 Dicembre 1941

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    Oltre alle corazzate affondate, le altre navi da battaglia presenti nel porto subirono tutte danni più o meno gravi. La « Tennessee » si incendiò per
    la vicinanza dell'« Arizona » che era saltata in aria. Meno gravemente colpite la « Pennsylvania » e la « Maryland ». Fra gli incrociatori risultarono
    danneggiati l'« Helena », l'« Honolulu » e il « Raleigh ». In complesso, diciannove unità, tra affondate e danneggiate potevano considerarsi perdute.
    Ma molte altre avevano subito danni sensibili, tali comunque da diminuirne la capacità bellica per parecchi mesi. Nella foto la corazzata « Tennessee » avvolta dai fumi di un grande incendio. Dinnanzi alla corazzata, semiaffondata è la « Arizona ».

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    Se le perdite di navi e di aerei nell'attacco su Pearl Harbour erano stati gravissimi, non meno dure erano le perdite subite a causa degli attacchi
    aerei giapponesi sulle istallazioni militari, sui depositi e sui magazzini del porto. I morti americani nella terribile giornata furono 3077 per la marina
    e 306 per l'esercito. I feriti ammontarono a circa un migliaio complessivamente. Fra il naviglio minore distrutto o gravemente danneggiato nell'attacco, vanno ricordati tra l'altro i caccia « Bowness », « Cassin » e « Shaw », quest'ultimo addirittura privato della prua da una bomba, il posamine
    oceanico « Ogdala », le navi ausiliarie « Curtiss » e « Vestal », nonchè un grande bacino di carenaggio galleggiante. Nella foto in primo piano una
    unità ausilaria rovesciata; a sinistra un incrociatore tipo « Honolulu» gravemente danneggiato: sullo sfondo, depositi di nafta in fiamme.

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    Durante la prima ondata d'attacco giapponese cento aerei furono lanciati esclusivamente contro gli aeroporti dell'isola, per impedire l'azione di contrasto contro gli aerosiluranti ed i bombardieri che attaccavano la flotta statunitense. Nell'azione furono distrutti al suolo 423 aerei americani. Nella foto in alto a sinistra la base di Hickham Field dopo l'attacco della seconda ondata giapponese. In concorso con le forze aeree operarono nelle Hawai anche 5 sommergibili « tascabili» nipponici. Nel corso della missione 4 di essi furono distrutti ed 1 catturato (nella foto in basso a sinistra). A Pearl Harbour erano presenti ottantasei unità della marina americana. Nove di esse furono affondate ed altre dieci tanto gravemente danneggiate da essere considerate perdute. La corazzata « Arizona » fu distrutta dall'esplosione dei depositi di munizioni; l'« Oklahoma », la « California » e la « Utah » colpite da siluri e da bombe, si capovolsero. Nelle foto in alto a destra le sovrastrutture della corazzata « Arizona.», posata sul fondo. Nella foto al centro due corazzate tipo « California » in fiamme: una di esse, la « West Virginia», colpita da sette siluri e tre grosse bombe, affondò con quasi tutto l'equipaggio. Nella foto in basso tragica sorpresa l'ammiraglio americano fu subito sostituito dall'ammiraglio Nimitz e deferito alla corte marziale.

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    L'attacco, iniziato alle 7,55 del mattino e condotto dagli aerei giapponesi con estrema decisione, termino alle 13,30, dopo cinque ore e mezzo di martellamento quasi ininterrotto. A quell'ora l'ultimo apparecchio prese la via del ritorno, per raggiungere le sei portaerei della squadra che nel frattempo avevano invertito, la rotta e puntavano su Wake, altra base americana del Pacifico, per distruggerne le istallazioni. Le perdite giapponesi, soprattutto se confrontate ai risultati raggiunti, furono irrisorie. Oltre ai cinque sommergibili tascabili cui abbiamo già accennato, i giapponesi persero, ad opera della caccia e della contraerea americana, solo 27 apparecchi dei 424 impiegati. Nella foto in alto la chiglia ed una delle gigantesche eliche della corazzata « Utah », rovesciatasi dopo il siluramento. In basso la terrificante esplosione sul cacciatorpediniere americano « Shaw ».

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    19 novembre 1941. Seconda offensiva inglese in Libia. I britannici, che avevano tentato invano, nel giugno, di sfondare le difese italo-tedesche sulla linea Sollum-Bardia e che erano stati respinti con gravi perdite, tentarono con questa impresa di realizzare un piano più ambizioso di quelli contemplati nelle precedenti offensive: distruggere le forze dell'Asse e realizzare, se possibile, la completa occupazione della Libia. Come l'« Offensiva dei tre Cunningham », pur ottenendo importanti risultati sul piano tattico, non potè raggiungere il successo finale a causa della tenace resistenza delle forze italiane e tedesche e come, alla fine di gennaio, la situazione si rovesciò completamente. Nella cartina la seconda fase dell'offensiva britannica, dopo la battaglia di rottura in Marmarica e la liberazione di Tobruk assediata fin dall'aprile dalle forze italo-tedesche.

    L'OFFENSIVA INGLESE SU TOBRUK E BENGASI

    Dopo la fallita offensiva africana di mezzo giugno, il comando britannico s'era reso conto che la comparsa in Libia dell'Afrika Korps di Rommel e l'afflusso dei rinforzi italiani, tra i quali essenziale la divisione corazzata « Ariete », avevano sostanzialmente modificato il rapporto di forza. Erano cioè passati i tempi in cui alle forze meccanizzate di Wawell si opponevano le masse di fanteria di Graziani, che malgrado prodigi di valore e di tenacia avevano dovuto soccombere dopo una disperata difesa. Ai carri britannici facevano fronte i carri italiani e tedeschi; ad una strategia basata sulla mobilità delle masse d'urto e sul volume di fuoco s'opponeva un identico concetto operativo, moderno, rapido, nuovo. E, per giunta, le forze dell'Asse erano ora comandate da un uomo che si era già rivelato su altri campi di battaglia, un classico manovratore ma che proprio sulle sabbie africane avrebbe colto i suoi allori più fulgidi: Rommel. Perciò, quando da Londra si decise l'offensiva invernale, il comando dell'armata del Nilo volle essere ben sicuro, in base ad un calcolo preventivo delle forze in campo, di essere in grado di sferrare un attacco decisivo tale da risolvere la campagna con l'espulsione degli italo-tedeschi dalla Libia o, quanto meno, di neutralizzarne le velleità offensive per un lungo periodo di tempo. Del resto, per dichiarazione unanime dei comandanti britannici, risulta che quell'offensiva, più che alla liberazione di Tobruk, stretta ormai da più di sei mesi da un tenace assedio (ma ancora in grado di resistere a lungo per i rifornimenti che le giungevano dal mare), più che alla conquista di una fetta grande o piccola della Cirenaica, tendeva alla « distruzione dell'avversario ». Ma la partita che i « tre Cunningham » avevano deciso di giocare in Marmarica avrebbe potuto avere anche importanti contraccolpi in altri scacchieri della guerra. In primo luogo, attirando in Libia forze e mezzi dell'Asse, si sarebbe alleggerita la pressione sul fronte russo, secondo le richieste di Stalin. Poi, con il possesso dei porti di Tobruk, di Bengasi, di Derna (e forse di Tripoli) la migliorata posizione della marina britannica, avrebbe anche potuto determinare un rovesciamento della situazione nell'intero bacino Mediterraneo, specialmente se, come Churchill sperava il tracollo dell'Asse avesse indotto gli incerti generali dell'Africa settentrionale francese, legati a Vichy, a passare con De Gaulle. Quando la mela africana sembrò matura, venne l'ordine di attaccare. La situazione, in cifre, era la seguente: mille apparecchi inglesi (metà da caccia e metà da bombardamento) contro circa trecento apparecchi italiani e tedeschi; dodici divisioni alleate di prima e seconda schiera, con circa un migliaio di mezzi blindati pesanti e medi contro dieci divisioni dell'Asse (tre tedesche e sette italiane) con un totale di appena 557 carri armati (di cui 308 italiani). Se si aggiunge che la marina britannica poteva appoggiare dal mare le operazioni terrestri, mentre ai nostri mancava anche quest'aiuto, in quanto la marina italiana era tutta impegnata nella protezione dei convogli, apparirà evidente che l'offensiva britannica non poteva iniziarsi sotto migliori auspici, tanto da giustificare l'attesa di Churchill di « una pagina di storia pari a quelle di Blenheim e di Waterloo ». Ma fin dal primo giorno, 19 dicembre 1941, gli inglesi s'accorsero che le cose non andavano secondo i piani prestabiliti. La battaglia di rottura fra Sollum, Bardia e l'Halfaya fallì sulle prime linee italiane e tedesche. La mossa avvolgente su Sidi Omar si risolse in un mezzo disastro. Le forze dell'Asse, anzi, malgrado la loro grave inferiorità numerica, poterono permettersi nei primi giorni il lusso di numerose azioni di contrattacco. Ma i « tre Cunningham » insisterono nello sforzo logorante, anche se in poco tempo ben due brigate corazzate, con i loro generali, erano state distrutte o catturate. E, non potendo avere ragione della strenua resistenza del campo trincerato di confine, rafforzato da estesi ed insidiosi campi minati che rendevano difficile e pericolosa la manovra dei carri armati, tentarono nuovamente la carta dell'accerchiamento, fallita una prima volta a Sidi Omar. Ma anche qui non ebbero fortuna: a Bir el Gobi i giovani fascisti della Divisione Volontari li fermarono in una memorabile battaglia di arresto che vide ancora schierati contro le corazze dei carri i petti di un pugno d'eroi. Anche nel cielo, malgrado l'inferiorità numerica, cacciatori e bombardieri seppero dare molto filo da torcere agli attaccanti. Anzi, ad un certo punto, presero decisamente il sopravvento, grazie ai rinforzi tempestivamente giunti dall'Italia. Ma non basta : tutti i tentativi del presidio di Tobruk per ricongiungersi con le forze di Cunningham fallirono: le due estremità della terribile morsa che gli inglesi avevano preparato per il dispositivo italo-tedesco rimasero così aperte, consentendo a Rommel e a Bastico una rapida manovra di sganciamento perfettamente riuscita. Cosi, mentre le forze del settore Sollum, Halfaya, Bardia venivano lasciate sul posto a contrastare il passo all'avversario, a ritardarne la avanzata, ad insidiarne i rifornimenti, il grosso delle truppe motorizzate e corazzate, le truppe e i materiali impiegati nell'assedio di Tobruk e i reparti di copertura del Gebel cirenaico vennero fatti ripiegare, sfuggendo alla morsa britannica, verso la regione della Sirte. Si ripetè insomma, ma con mezzi più adeguati e anche con maggiore fortuna, l'operazione che Graziani aveva tentato l'anno prima e che era in parte fallita per le scarse possibilità di movimento delle sue truppe. Ma, anche con questa decisione (che poi si rivelò saggia e intelligente) dei comandi italo-tedeschi, l'offensiva dei « tre Cunningham » non si sviluppò con una rapidità maggiore di quella delle prime tre settimane di lotta. E difatti, per giungere da Ain el Gazala a Derna, i britannici impiegarono ben sei giorni, dovendo superare la tenace resistenza delle nostre truppe di copertura. Un pò più rapido fu il progresso verso Bengasi, ormai sguarnita di truppe, che fu presa nel giorno di Natale. Ma a Marsa el Brega, pochi giorni dopo, l'offensiva poteva considerarsi ormai finita, per il completo logoramento dell'avversario. Difatti, malgrado uno sforzo supremo, condotto con tutte le forze corazzate disponibili, i britannici non riuscirono a superare el Agheila, anche se gli italo-tedeschi, fra il due e il diciassette gennaio dovettero cessare la lotta nei due cacaposaldi assediati di Bardia e di Sollum-Halfaya, che non potendo contare come Tobruk sui rifornimenti dal mare, furono costretti ad arrendersi dopo due mesi di eroica resistenza. Un colpo duro, questo, sopratutto agli effetti psicologici, al quale però fece riscontro il fiasco di un'azione offensiva britannica a sud est di Agedabia, durante la quale l'avversario perse oltre centotrenta carri armati e più di mille prigionieri. L'offensiva s'era risolta in un completo insuccesso: le forze dell'Asse erano ancora in campo, più forti di prima, anzi, grazie allo sforzo logistico della marina che, superando l'insidia aerea e subacquea inglese, aveva portato in Africa, con perdite minime, numerosi convogli di rifornimenti. I britannici, invece, pur pensando di tentare ancora una volta la strada verso Tripoli, erano giunti sull'orlo del collasso militare: lo avrebbero dimostrato ben presto gli avvenimenti. « I tre Cunningham » avevano dunque pagato troppo duramente lo scotto per un'effimera operazione di conquista territoriale. Quattro giorni dopo la caduta di Sollum comincerà infatti ad Agedabia, come vedremo la fulminea controffensiva italo-tedesca.

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    9 novembre 1941. Le azioni di disturbo delle forze navali inglesi di base a Malta culminarono ai primi di novembre con la distruzione di un intero convoglio italiano, da parte degli incrociatori leggeri inglesi « Aurora » e « Penelope », scortati da 4 cacciatorpediniere. La formazione italiana, composta da 7 piroscafi con 6 cacciatorpediniere, di scorta diretta, era affidata alla divisione di incrociatori pesanti « Trento » e « Trieste », scortati da 4 cacciatorpediniere, al comando dell'ammiraglio Bruno Brivonesi. La divisione britannica tagliò la rotta della formazione italiana, che procedeva a bassissima velocità e senza una scorta a distanza. dal lato sinistro, mentre gli incrociatori dell'ammiraglio Brivonesi pendolavano, anche loro a bassa velocità, sul lato destro. Con 7 minuti di intenso fuoco le unità inglesi incendiarono i trasporti italiani e parte delle unità, della scorta diretta. La reazione italiana mancò del tutto perchè la divisione « Trento » accostò sulla destra allontanandosi dal nemico invece di prevenirlo. Durante l'azione, oltre ad una serie di errori di valutazione si verificò un increscioso incidente, senza precedenti nelle tradizioni di gloria della nostra Marina. Il comandante di una delle squadriglie di cacciatorpediniere, ricevuto l'ordine di attacca re le forze britanniche non lo esegui. L'ufficiale fu destituito al ritorno in porto delle unità. L'insuccesso italiano ebbe, alcuni anni dopo la fine del conflitto, strascichi giudiziari conclusisi con un clamoroso processo. Nella foto la visione del drammatico combattimento ricostruita, tramite le testimonianze dei protagonisti, dal pittore inglese Montagne B. Black.

    L'offensiva Inglese su Tobruk e Bengasi

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    Il mancato arrivo del convoglio distrutto il 9 novembre 1941, fu fortemente risentito dalle truppe dell'Asse durante l'offensiva inglese. Il 20 novembre
    quindi furono inviate in Libia 4 motonavi scortate da 5 incrociatori e numerosi caccia. Purtroppo sommergibili ed aerosiluranti britannici attaccarono
    danneggiandoli, gli incrociatori « Trieste » e « Duca degli Abruzzi », per cui « Supermarina » decise il rientro in porto del convoglio. Il 13 dicembre, due incrociatori italiani, il «Barbiano» e il «Giussano», tentarono di trasportare benzina alle truppe operanti. Attaccati da 4 cacciatorpediniere, furono incendiati col sacrificio completo degli equipaggi. Il 14 dicembre, adibite le navi da battaglia per la scorta ai convogli, fu silurata e danneggiata la corazzata « Vittorio Veneto ». Il 16 dello stesso mese, corazzate ed incrociatori italiani, di scorta ad un convoglio, entrarono in azione contro una formazione britannica adibita allo stesso scopo. Lo scontro, noto sotto il nome di « Battaglia della Sirte », non ebbe conseguenze apprezzabili per noi poichè gli inglesi, more solito, si sottrassero al combattimento. Nella foto a sinistra l'ammiraglio Jachino comandante navale in mare. Al centro le nostre nati aprono il fuoco. A destra l'ammiraglio inglese Vian comandante della formazione inglese al largo della Sirte.

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    L'esito disastroso dell' « Offensiva di mezzo giugno », che aveva visto le forze britanniche ributtate sulle posizioni di partenza con gravi perdite in uomini e materiali, aveva fatto comprendere ai britannici che molte cose erano mutate, nel campo avversario, con l'arrivo sulla sponda africana delle nuove forze corazzate italiane e tedesche. Non si era più alla lotta impari e vana dell'uomo contro il carro armato che aveva contraddistinto l'impresa di Wawell e che aveva frustrato la pur tenace difesa delle truppe di Graziani. Ora si combatteva da pari a pari e le grandi unità meccanizzate e corazzate dell'Asse rappresentavano una forza considerevole che allo Stato Maggiore britannico non era lecito sottovalutare. Poderosi rinforzi furono perciò avviati dagli inglesi in Egitto durante tutta l'estate. Cosi, mentre la perdita di alcuni convogli e il rallentarsi del flusso dei rifornimenti, aveva messo ìn crisi le truppe italo-tedesche, il corpo di spedizione britannico aumentò considerevolmente la sua consistenza. Nella foto lo sbarco nel porto di Suez di una divisione corazzata britannica.

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    Per l'imminente offensiva i britannici fecero affluire rinforzi da tutti i paesi dell'Impero. In particolare fu chiesto l'apporto delle agguerrite truppe
    indiane che, con la caduta degli ultimi centri di resistenza nell'Africa Orientale, si erano rese disponibili in quello scacchiere operativo. All'offensiva
    parteciparono anche forze neozelandesi, sudafricane, di colore ed elementi degaullisti. Nella foto un reparto indiano si avvia agli accantonamenti
    predisposti nella zona di Marsa Matruk, grande base logistica dell'offensiva.

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    Il primo attacco britannico ebbe luogo il 19 novembre lungo un fronte di 150 chilometri a sud-est di Sollum. Il piano di Cunningham era molto semplice e molto ambizioso: attirare il grosso delle forze italo-tedesche sulle posizioni di confine fra Sollum, la Ridotta Capuzzo, Bardia e Sidi Omar, impegnarle con forti puntate offensive e sviluppare nello stesso tempo in direzione di Bir el Gobi un ampio movimento aggirante, tendente a mettere in crisi l'intero schieramento avversario. Lo scontro iniziale ebbe come protagonista, da parte dell'Asse, la divisione corazzata « Ariete » che, sostenuto validamente l'urto delle forze britanniche, riuscì anche a contrattaccare, accerchiando e distruggendo numerosi mezzi avversari. Presso Sidi Omar un analogo successo arrise alle forze corazzate tedesche di Rommel. Nella foto fanterie inglesi all'attacco, il 19 novembre, di fronte alla ridotta Capuzzo. Al centro carri armati pesanti britannici, sostenuti dall'aviazione, impegnano le forze italo-tedesche in Marmarica. In basso i britannici dinanzi ai reticolati difensivi del campo trincerato di Sollum.

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    L'offensiva inglese di novembre fu detta « l'offensiva dei tre Cunningham ». Infatti, per una strana combinazione, i cognomi dei tre comandanti britannici avevano la stessa pronunzia. A sinistra, l'ammiraglio Andrew B. Cunningham comandante della flotta; al centro, il gen. Alan G. Cunningham, comandante delle forze britanniche in Egitto; a destra il generale Coningham comandante delle forze della RAF operanti in Marmarica.

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    Il generale Auchinleck (a sinistra), comandante di tutte le forze britanniche durante la seconda offensiva in Africa settentrionale a colloquio con un altro alto ufficiale britannico, il generale Ritchie.

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    La RAF gettò sulla bilancia, fin dal primo giorno dell'offensiva, tutto il peso della sua formidabile preparazione e della sua consistenza numerica. Pur contrastati dall'aviazione dell'Asse, che riuscì ad assestare al nemico colpi durissimi, scompaginandone spesso l'organizzazione logistica, gli aerei britannici ebbero per parecchi giorni la prevalenza. Ma l'afflusso dí nuove squadriglie dall'Italia ristabilì in breve l'equilibrio delle forze. Nella foto l'azione di un bombardiere britannico in Marmarica.

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    Bloccato dalle forze dell'Asse lo slancio iniziale, i britannici continuarono ad attaccare per realizzare, nel settore centrale del fronte, un successo risolutivo che consentisse almeno di sbloccare la guarnigione di Tobruk. Sulle nostre posizioni di frontiera si accese così, fra il 19 e il 29 novembre, una lotta furibonda nella quale rifulse il valore dei soldati italiani e dei loro alleati tedeschi. Nelle due foto fanterie inglesi all'attacco dei capisaldi italiani nella zona desertica fra la Ridotta Capuzzo e Sidi Omar, epicentro della lotta.

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    27 novembre 1941. Malgrado i reiterati sforzi britannici, la lotta si localizza nel settore Sollum-Ridotta Capuzzo-Sidi Omar: I progressi degli attaccanti sono pressochè nulli: la resistenza italo-tedesca contrasta loro ogni palmo di terreno. Anzi, proprio in quei giorni, due notevoli rovesci mettono in forse la stessa prosecuzione dell'offensiva. La quarta brigata corazzata, che aveva tentato di forzare l'Halfaya, rimane quasi completamente distrutta e il suo comandante, gen. Sperling, cade prigioniero. Più a sud, un altra brigata corazzata, la 22, subisce la stessa sorte ad opera dell'« Ariete » e dei panzer tedeschi, perdendo quasi tutti gli effettivi e lasciando nelle mani dell'Asse oltre cinquemila prigionieri, tra i quali il generale Armstrong. Il generale Cunningham propose, in questa fase dell'offensiva, di interrompere immediatamente lo svolgersi delle operazioni, poiché aveva intuito la grave situazione in cui si sarebbero cacciate le truppe britanniche. Il buon senso della proposta costò « la testa » al generale inglese. Infatti fu istantaneamente sostituito dal generale Auckinleck. Nella foto in alto uno dei tanti vani attacchi britannici alle nostre posizioni nel retroterra marmarico. In basso uno squadrone corazzato inglese attacca a Sidi Omar. Questa località, occupata dall'avversario, venne ripresa da un contrattacco italo-tedesco.
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    1 dicembre 1941. Gli inglesi lanciati all'inseguimento delle forze di Bastico e di Rommel superano finalmente le posizioni tanto a lungo difese sul confine egiziano. Nella foto una veduta aerea della Ridotta Capuzzo, che era stata l'epicentro di tanti furibondi combattimenti. In basso avanguardie britanniche entrano a Derna.

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    Gravi difficoltà all'avanzata britannica furono provocate, specialmente nel settore di Tobruk e nella zona di Bardia-Sollum, dalla presenza di estesissimi campi minati predisposti dagli italiani. Per poter procedere senza il rischio di incappare nelle mine, i britannici dovettero farsi precedere da apposite squadre di sminatori che si valevano di « detectors » magnetici. Nella foto genieri britannici rastrellano le mine scoperte dinnanzi a Tobruk.

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    L'apporto dell'aviazione italiana e dei rincalzi tedeschi provenienti dalle basi del CAT in Sicilia fu notevolissima, in questa fase delle operazioni. Alla costante vigilanza della nostra caccia va infatti il merito di aver consentito di completare una così vasta operazione di ripiegamento senza gravi perdite. Grazie ai cacciatori italiani e tedeschi, che bloccarono il passo ai bombardieri britannici, la via Balbia rimase sempre aperta al nostro traffico, di notte e di giorno. Nella foto un aereo italiano abbattuto in uno degli innumerevoli scontri del novembre-dicembre 1941.

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    22 dicembre 1941. Gli inglesi raggiungono Cirene. Gli italo-tedeschi hanno però rotto il contatto, evitando una pericolosa manovra aggirante nella zona del Gebel cirenaico, particolarmente adatta, per la sua conformazione geografica, ad un simile colpo di mano. Nella foto avanguardie inglesi tra le rovine di Cirene.

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    Uno Stukas dell'aeronautica italiana, catturato a terra dai britannici, in volo di trasferimento sull'Egitto. Da notare sull'ala, vicino ai nostri contrassegni quelli della RAF.

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    25 novembre 1941. Truppe indiane entrano per la seconda volta a Bengasi, abbandonata dalle truppe dell'Asse per evitare distruzioni alla città. Dopo la battuta di arresto di Ain el Gazala, durata dal 15 al 21 novembre, le forze britanniche avevano infranto la resistenza italo-tedesca.

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    La triste sorte, dei villaggi agricoli costruiti dagli italiani
    in Cirenaica è testimoniata da questa fotografia: le truppe indiane entrano al Villaggio Berta, semidistrutto dai bombardamenti. Ma, più che la guerra guerreggiata, sarà il vandalismo dei multicolori occupanti a seminare questa
    plaga, resa fertile dal lavoro italiano, di rovine e di lutti.

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    I britannici, preoccupati della crescente potenza dell'aviazione dell'Asse, che aveva salvato quasi tutte le sue attrezzature e i suoi apparecchi nella ritirata, presero a martellare i nostri campi di aviazione per neutralizzare lo slancio degli aerei italo-tedeschi.
    Nella foto bombardamento della RAF sul campo di fortuna di El Megrum. In alto sono visibili gli effetti delle bombe, neutralizzati dal decentramento degli apparecchi.

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    Abbiamo visto come, in ben tre settimane di battaglia, l'offensiva britannica, malgrado il grande spiegamento di uomini e di mezzi, non riuscisse a
    fiaccare la tenace resistenza italiana e tedesca. Ad un certo punto, anzi, al tredicesimo giorno di lotta, sembrò che il disegno strategico dei britannici
    si fosse definitivamente infranto, spezzettandosi in una serie di combattimenti locali, slegati l'uno dall'altro. Ma, alla fine, la superiorità del numero
    e dei mezzi ebbe ragione del valore e dell'abilità dei difensori e il comando italo-tedesco decise il ripiegamento generale per non compromettere, con
    una difesa rigida, i frutti ottenuti con i successi iniziali. Il ripiegamento avvenne con molto ordine, malgrado la pressione avversaria, e fu reso possibile dal sacrificio delle truppe attestate sulla linea di frontiera, che continuarono a combattere tenacemente, ostacolando l'avanzata avversaria. Perdite dolorose furono tuttavia registrate, anche se il grosso delle armi e degli equipaggiamenti potè essere messo in salvo. Questa pagina presenta alcune fotografie di fonte inglese sulla seconda fase dell'offensiva. In alto a sinistra da un carro dell'« Ariete », immobilizzato dagli anticarro britannici esce l'unico superstite. Al centro un soldato dell'Asse si arrende agli inglesi. La presenza minacciosa del carro armato dice tutto sull'inutilità di una ulteriore resistenza. In basso un gruppo di soldati tedeschi catturati fra le case di un villaggio cirenaico. In alto a destra il generale tedesco von Ravenstein, preso prigioniero a Tobruk a colloquio con un ufficiale inglese. In basso la resa di un soldato dell'Afrika Korps.

    Vinti ma non domi

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    Contrariamente a quanto era accaduto nella precedente offensiva, il numero dei prigionieri catturati dai britannici fu relativamente basso. Il motivo
    va ricercato nella maggiore motorizzazione delle forze italiane, che consenti rapidi spostamenti di truppe e nella tenace resistenza del triangolo Sollum-Halfaya-Bardia che ritardò l'avanzata nemica. Nella foto in alto prigionieri italiani catturati a Bardia e avviati ai campi di concentramento.
    In basso prigionieri tedeschi a Tobruk. Intorno alla piazzaforte le catture furono più numerose che altrove, in quanto le truppe assedianti dovettero
    ripiegare in gran parte a piedi, essendo prive di mezzi meccanizzati.

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    Fotografie di fonte inglese sul bottino catturato durante l'offensiva. In alto un parco di automezzi italiani nella zona di Derna. Al centro, e in basso armi e munizioni catturate ai prigionieri italo - tedeschi nel corso dei combattimenti.

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    L'aviazione italo-tedesca contribuì, ín stretta collaborazione con le unità terrestri, alla resistenza contro le truppe inglesi avanzanti. Alla inferiorità numerica supplì l'alto spirito di sacrificio dei piloti che ostacolarono senza interruzione le forze nemiche. Nella foto un bombardiere tedesco precipita in fiamme dopo un impari scontro.

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    Un ottantotto tedesco catturato dagli inglesi. I serventi
    sono caduti tutti al loro posto di combattimento. Il « Times» commentò così le operazioni militari: « Dobbiamo ammettere che contavamo su una decisione più rapida ».

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    Il rogo di quattro carri armati tedeschi colpiti dai tanks britannici in una furibonda battaglia di fronte ad Agedabia. Nel cono della battaglia i britannici dovettero riconoscere che se dalla loro parte vi era una superiorità quantitativa (circa un migliaio di carri medi e pesanti contro 557 dell'Asse, di cui 308 italiani), l'avversario aveva messo in campo mezzi di eccellente qualità.

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    Il prezzo della vittoria: una visione del cimitero britannico di Tobruk, nel quale furono raccolte le salme dei soldati caduti durante il lungo assedio
    della piazzaforte. Tobruk potè resistere per oltre due mesi ai continui attacchi italiani e tedeschi in quanto venne continuamente rifornita dal mare
    di uomini e di mezzi. Al momento dell'offensiva, il presidio della fortezza assediata era composto dagli effettivi di due divisioni. L'insuccesso italo-tedesco nelle operazioni di assedio di Tobruk si spiega con la scarsità di mezzi corazzati, tutti impegnati sul fronte principale.

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    La fine dì un bimotore britannico in Libia colta da un operatore italiano in tre drammatiche fotografie. In alto l'apparecchio, colpito e incendiato, sta precipitando. Il pilota è riuscito a lanciarsi col paracadute. Al centro l'aereo si infrange su una collinetta mentre l'aviatore è ancora sospeso al paracadute. In basso il rogo del bimotore, mentre sulla sinistra, a poca distanza, il pilota prende terra.

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    L'Afrika Korps sulle sue posizioni a sud di Bengasi. Nella
    foto in alto un centralino telefonico all'aperto. In basso zappatori tedeschi scavano opere difensive.

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    La spinta offensiva inglese in Africa settentrionale, dopo il rapido inseguimento delle truppe dell'Asse in ritirata si va esaurendo. Si combatte, è vero,
    dinnanzi alle posizioni di Marsa el Brega, nei pressi di Agedabia, ma ormai le sorti della battaglia sono decise, per l'esaurimento degli attaccanti, logorati dalla strenua resistenza italo-tedesca, dalle elevate perdite di navi da guerra, che rendono precari i rifornimenti via mare, e dalla quasi totale sconfitta della RAF. Nella foto a sinistra lo stendardo di una delle squadriglie da caccia germaniche impegnate in Cirenaica. Nella foto a destra truppe autocarrate inglesi sotto il tiro dei cannoni tedeschi nei pressi di Agedabia.

    I ragazzi di Bir El Gobi

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    In questa fase delle operazioni in Marmarica va ricordato il fulgido episodio che ebbe a protagonisti i volontari della « Divisione Giovani Fascisti »,
    inquadrata nelle formazioni dell'esercito. La divisione, posta a contrastare l'avanzata delle forze corazzate e motorizzate britanniche che dal deserto
    tentavano di aggirare le posizioni italo-tedesche tenacemente difese sulla linea di Sollum, seppe contenere l'urto avversario, malgrado la grave inferiorità numerica, infliggendo ai britannici durissime perdite. Nella foto giovani fascisti al loro pezzo anticarro di fronte a Bir el Gobi.

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    Armati come truppe di fanteria e col solo appoggio dei pezzi anticarro da 47, i giovani di Bir el Gobi tennero testa impavidamente agli attacchi nemici, senza mai abbandonare il loro posto. Centinaia e centinaia di ragazzi meno che ventenni si sacrificarono così in disperate azioni contro i carri armati britannici, che dovettero segnare il passo ed arretrare. Non fu un sacrificio vano: si può dire infatti che con la battaglia di arresto di Bir el Gobi l'offensiva britannica falli il suo scopo principale, accerchiare e distruggere le forze italo-tedesche per poi continuare la conquista dell'intera Libia. Nella foto a sinistra un anticarro da 47 dei Giovani Fascisti in azione. A destra il gen. Bastico consegna un'alta ricompensa al valor militare ad un giovane reduce da Bir el Gobi. I giovani fascisti, con la loro tenace e vittoriosa resistenza si imposero all'ammirazione dell'avversario

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    28 dicembre 1941. I britannici tentano ad Agedabia l'ultima azione di aggiramento impegnando tutte le loro riserve di carri armati e di artiglierie. E'
    uno scacco cocente: vengono rigettati in disordine, con la perdita di ben 130 carri armati, distrutti dall'e Ariete e dagli « 88 » tedeschi. Nella foto carri,
    della divisione corazzata « Ariete » in azione nella zona di Agedabia.

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    Durante l'azione inglese in Cirenaica, molti prigionieri anglo-britannici rimasero in mano alle truppe dell'Asse, visto il particolare carattere dei combattimenti. Infatti la distruzione della C e della 22a brigata corazzata, costò ai britannici la perdita di circa 6.000 prigionieri e dei generali Armstrong e Sperling. Anche nell'ultima fase offensiva, che vide distrutti 130 carri armati inglesi, furono catturati numerosi uomini. Nella foto il concentramento delle truppe inglesi catturate durante l'offensiva dei « tre Cunningham ».

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    Novembre 1941 in Marmarica: tre aspetti della resistenza italo-tedesca: in alto, i serventi di una batteria antiaerea corrono ai pezzi per contrastare un'incursione della RAF. Al centro un carro leggero italiano munito di lanciafiamme contrattacca la fanteria indiana. In basso da una postazione mimetica, l'artiglieria italiana batte il nemico avanzante.

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    Dalla piazzaforte di Tobruk, ove si erano rinchiusi per
    sfuggire all'annientamento nella prima controffensiva italo-tedesca, i britannici tentarono più volte di Spezzare il cerchio degli assedianti per ricongiungersi alle forze avanzanti da oriente e mettere cosi in crisi lo schieramento dell'Asse. Questi tentativi non riuscirono, malgrado la presenza a Tobruk di ben due divisioni inglesi, alle quali si contrapponeva negli ultimi tempi appena un velo di truppe italo-tedesche. Nella foto in alto un pezzo antiaereo delle truppe italiane assedianti pronto ad entrare in azione. Nella foto in basso l'effetto del nostro tiro sulle postazioni inglesi di Tobruk: un deposito di munizioni salta in aria.

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    12-19 gennaio 1942. Sul fronte libico continua l'afflusso dei rifornimenti it ala-tedeschi. Qualche cosa di grosso va maturando, mentre i britannici, smessa ormai ogni velleità offensiva sul fronte di Agedabia, cercano di eliminare la grave spina nel fianco del loro schieramento rappresentata dal presidio di Sollum-Halfaya che, anche dopo la caduta di Bardia, ha continuato a lottare mettendo in pericolo l'intera organizzazione logistica dell'armata del Nilo. La piazza, tenuta con estremo valore da truppe in gran parte italiane, cede alla fine, il 17 gennaio, non al nemico ma alla fame e alla sete. Nella foto in alto mezzi cingolati e artiglierie tedesche verso il fronte di combattimento, dopo lo sbarco a Tripoli. In basso sinistra una moto-mitragliatrice dell'Afrika Korps nel deserto. In basso a destra una postazione tedesca a Solfum.
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    19 gennaio 1942. La grande offensiva dell'Asse è imminente. Gli italiani, in abili, audaci azioni di pattuglia pongono le premesse per la riconquista
    del territorio perduto nei due mesi precedenti. Ma il grosso colpo a sorpresa lo sferreranno l'« Ariete» e le truppe corazzate tedesche. In pochi giorni
    verrà così annullato il grande, logorante sforzo britannico; anzi le nostre truppe giungeranno fin quasi in vista di Alessandria d'Egitto, in una località che porta il nome fatale e glorioso di El Alamein. Nelle foto guastatori italiani all'attacco delle posizioni britanniche nella Sirte, appoggiati dai lanciafiamme.

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    Dicembre 194. un sommergibile britannico, l' Utmost , ritorna alla base di Gibilterra dopo una riuscita missione di guerra nel Mediterraneo. All'attivo del sommergibile, sta l'affondamento di un incrociatore e di sette trasporti dell'Asse. Nella foto, l'equipaggio presenta la sua bandiera corsara con i segni delle vittorie.

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    Inghilterra, inverno 1941: continua, sia pure su scala ridotta, l'offensiva aerea tedesca. Bombardamenti diurni e notturni colpiscono le città britanniche e soprattutto Londra. Nella foto un apparecchio tedesco abbattuto dalla contraerea londinese. Da notare il caratteristico dispositivo a « V » che i tedeschi applicavano sui loro aerei per impedire che si impigliassero con le ali sulle funi dei palloni di sbarramento e per rendere quindi possibile, senza gravi rischi, il bombardamento a bassa quota.

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    New York : il grande transatlantico francese « Normandie », ancorato dall'inizio della guerra ai docks del grande porto americano, viene distrutto da un furibondo incendio. Sembra che si sia trattato di un incendio doloso, forse provocato da elementi dell'Asse. Nella foto il « Normandie », rovesciato su un fianco, finisce di ardere.

    Nel quadro dell'intensificazione della guerra aerea, la RAF colpì numerosi obbiettivi industriali e militari nei territori dell'Asse e dai paesi occupati. Naturalmente non furono trascurati i centri abitati italiani e tedeschi che furono spesso colpiti con intenti esclusivamente terroristici. La migliore testimonianza di ciò sono le due foto in alto a sinistra, di fonte britannica. Nella prima sono visibili alcuni bombardieri inglesi in azione di guerra su Locri. Nella seconda, la tranquilla cittadina di Porto Empedocle dopo il passaggio degli aerei britannici. Nella foto in basso a sinistra le officine francesi Renault, sotto il bombardamento inglese. In alto a destra il porto belga di Ostenda sotto il tiro inglese. La nota località balneare fu ridotta ad un cumulo di macerie. In basso il campanile della chiesa di Santa Teresa, a Brindisi, colpito durante un'azione che costò la vita a 145 civili. Oltre a Brindisi molte altre città furono massacrate dai bombardamenti della RAF in quello scorcio di tempo.

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    Gennaio 1942. Dopo i colloqui Eden-Molotof, proseguono le conferenze anglo-sovietiche per i rifornimenti di armi e munizioni all'esercito russo. Anche l'offensiva in Africa Settentrionale era stata, nelle intenzioni britanniche, un tentativo di aiutare i nuovi alleati impegnando l'Asse sul fronte libico.
    Nella foto Molotof firma alcune convenzioni. Alla sua destra siede Harrimann, delegato USA. In piedi lord Beaverbrook, delegato britannico.

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    Fra il novembre e il dicembre 1941 si registra, in tutti i cieli d'Europa una intensificata attività aerea britannica. Particolarmente notevoli gli attacchi dei bombardieri quadrimotori « Halifax » sulle città costiere della Manica e dell'Atlantico. Nella foto, di fonte inglese, una visione del porto militare di
    Brest, base navale tedesca, sotto bombardamento. Le frecce indicano le esplosioni delle bombe, due degli aerei attaccanti, le corazzate « Gneisenau » e Scarnhorst e l'incrociatore a Prinz Eugen alla fonda nel porto.

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    Alla fine dell'agosto 1941, dopo due mesi dì continue, vittoriose offensive, l'esercito tedesco era ormai attestato ad oltre cinquecento chilometri dalle sue basi di partenza. Nel settore centrale del fronte, ove si era registrata la massima penetrazione, le armate di von Bock e di von Leeb avevano raggiunto Veliki Luki, Newel, Vitebsk, Smolensk e Mogilev, minacciando ormai da vicino la stessa capitale sovietica. A nord, dopo l'occupazione della Lituania, della Lettonia e dell'Estonia, si combatteva sul Luga, cioè nelle immediate vicinanze di Leningrado, sulla quale puntavano anche le armate finniche provenienti dalla Carelia. A sud, infine, mentre Odessa era ormai praticamente accerchiata e già le truppe tedesche cercavano di tagliare l'istmo di Perekop per investire la Crimea, Kiev, serrata in una ferrea morsa, poteva considerarsi perduta per i sovietici, malgrado la ostinata resistenza del maresciallo Budienny. E fu appunto nel settore meridionale che, nell'autunno del 1941, si svolsero i maggiori combattimenti e si registrarono i principali successi tedeschi, mentre Hitler andava preparando quello che, nelle sue speranze, doveva essere il colpo decisivo al cuore della Russia. Nella cartina il fronte meridionale con la zona petrolifera georgiana principale obiettivo dell'offensiva.

    L'OFFENSIVA DELL'ASSE DALL' ARTICO AL PACIFICO

    Alla fine di agosto, cioè dopo appena due mesi di guerra, i tedeschi erano giunti a poco più di cento chilometri da Mosca. La loro penetrazione in territorio nemico era avvenuta con una rapidità impressionante, superiore perfino a quella che aveva contraddistinto le operazioni in Francia e in Polonia. E, come allora, i tedeschi, avanzando, avevano accerchiato e distrutto intere armate avversarie, fiaccando, come almeno sembrava la forza di resistenza dell'esercito sovietico. Ma quando già il mondo attendeva la notizia dell'attacco risolutivo su Mosca, senza che nessuno si sentisse di pronosticare un successo difensivo dei russi, la gigantesca battaglia assunse un ritmo e un andamento diverso. Infatti i tedeschi, malgrado alcuni successi clamorosi, sul fronte centrale sembravano irretiti da una gigantesca ragnatela e si muovevano con impaccio, quasi i loro riflessi fossero appesantiti dalla stanchezza di sessanta giorni d'avanzata. Questo rallentamento, questo impaccio, apparentemente inspiegabili erano dovuti invece, ad un progressivo irrigidirsi della resistenza sovietica, reso possibile dall'afflusso di forze fresche che andavano sostituendo sul fronte le truppe ormai esaurite dall'interminabile ritirata e dalla perdita di quasi tutti i loro materiali pesanti. Di fronte a questa resistenza imprevista, il comando supremo tedesco, volle risolvere la partita con due grandi operazioni apparentemente slegate fra loro ma rispondenti ad un disegno strategico unitario. Perciò, mentre sul fronte di Smolensk le truppe segnavano il passo e limitavano la loro attività ad un lento miglioramento delle loro posizioni, i tedeschi spostarono il grosso delle forze negli scacchieri settentrionale e meridionale. Nel settore settentrionale del fronte c'era una grossa posta in palio: Leningrado, ex capitale zarista, centro fra i più grandi dell'industria sovietica, popolata da quattro milioni di abitanti, cui si erano aggiunti negli ultimi mesi più di un milione di profughi. Fu dunque contro questa città che si sviluppò la massiccia forza d'urto del gruppo di armate del maresciallo Ritter von Leeb, coadiuvato a nord dalle forze finlandesi del maresciallo Mannerheim. L'attacco sembrava promettente, anche perché la città, per la vicinanza del confine finnico era esposta ad una duplice minaccia: mentre i tedeschi avanzavano dall'Estonia ormai completamente occupata, i finnici potevano sviluppare un'azione di accerchiamento da nord e da oriente. Le operazioni preliminari di investimento della grande metropoli russa si svolsero con pieno successo. Voroscilov, che aveva il comando dello scacchiere, si trovò ben presto dinnanzi allo spettro del totale accerchiamento e quindi della fame e dell'esaurimento. Ma, contro ogni previsione, la città non cadde e l'inutile assedio germanico si protrasse per oltre due anni. Molto meglio si svilupparono le operazioni dell'esercito tedesco, al cui fianco si erano schierati romeni, ungheresi, slovacchi e italiani, sul fronte ucraino. Qui, dopo una testarda ma inutile difesa, il maresciallo Budienny fu costretto a sgomberare Kiev, poi ad abbandonare il bacino del Dnieper, poi a ritirarsi fino a Rostov. Anche Odessa, la grande base navale del Mar Nero, dopo due mesi di assedio dovette capitolare. Le perdite subite dai russi in questo settore, furono gravissime. Ma ancor più grave era la situazione in cui l'avevano messi gli attacchi tedeschi. Infatti, con l'avanzata su Kiev, Poltava, Carcov, Rostov e degli italiani su Stalino e altri centri industriali del bacino del Donez, i tedeschi erano giunti non soltanto in vista della Crimea, che attaccarono attraverso l'istmo di Perekop, occupandola quasi completamente, ma avevano anche raggiunto le foci del Don, dalle quali si profilò una gravissima minaccia alle regioni petrolifere di Batum, obiettivo fra i più ghiotti per la grave crisi dei carburanti che tormentava l'esercito germanico. Senza contare che, con l'imminente caduta di Sebastopoli, si sarebbe trovata in una crisi senza soluzione anche la flotta sovietica del Mar Nero, la quale, priva di basi, avrebbe dovuto scegliere fra l'autoaffondamento e l'internamento nei porti turchi. Questa, in breve, la situazione degli opposti eserciti alla vigilia dell'inverno, mentre già la immensa pianura russa s'andava coprendo di neve e il gelo rallentava l'andamento delle operazioni. E fu a questo punto, cioè alla metà di novembre, che il comando germanico ritenne matura la situazione per tentare, dopo i giganteschi colpi di maglio a nord e a sud, l'attacco verso Mosca. Ma l'offensiva falli ancora una volta di fronte alla difesa manovrata dell'esercito russo. Eppure i sovietici, per ammissione dello stesso Stalin, avevano subito fino al 7 novembre le seguenti, paurose perdite: 350 mila morti, un milione e ventimila feriti. Sul fronte del Pacifico, intanto, i giapponesi stavano dilagando in tutte le direzioni, approfittando del duro colpo inferto a Pearl Harbour alla flotta americana. In poco più di venti giorni, essi passarono infatti all'offensiva in Malesia, nelle Filippine, nel Borneo, a Wake, a Guam, giungendo ad occupare, il 2 gennaio 1942, la stessa Manila e la grande base navale di Cavite. Lo schieramento anglo-americano era dunque in una gravissima crisi. Persa Hong Kong, nulla più si poteva opporre alle operazioni giapponesi nel Mar della Cina. Singapore stessa era ormai in crisi e il baluardo difensivo britannico dell'Estremo Oriente si sarebbe rivelato, al primo attacco nipponico, illusorio come uno scenario di cartapesta. Ancor peggiore, se possibile, la situazione del comandante supremo americano nelle Filippine, che proprio in quei giorni era stato costretto a chiudersi nell'isoletta di Corregidor, dalla quale venne evacuato, per ordine di Washington, dai Mas della Marina. Ma se gli americani avevano dovuto subire il disastro di Pearl Harbour, un durissimo colpo fu inferto poco dopo anche alla marina britannica, che perse, nell'infausta giornata del 9 dicembre 1941, le due corazzate che aveva orgogliosamente inviato a Singapore per ammonire i nipponici e dimostrare loro che la potenza del leone britannico, malgrado i rovesci subiti in Europa, era ancora tale da permettergli la difesa ad oltranza dei suoi possessi asiatici. E l'affondamento della «Repulse» e della «Prince of Wales» era soltanto il preludio a quella battaglia di Giaya che avrebbe segnato la distruzione delle forze inglesi, statunitensi e olandesi nei mari della Sonda.

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    Settembre 1941. Eliminata, con la conquista di Tallin, la grande sacca nella quale era stata serrata l'armata sovietica operante in Estonia, i tedeschi, coadiuvati a nord dai finlandesi del maresciallo Mannerheim, intensificarono le operazioni in direzione di Leningrado. Cadde così l'importante
    centro di Narva, sul Luga, mentre fra il lago Peipus e il lago Ilmen le truppe del maresciallo von Leeb andavano attestandosi solidamente a sud
    della grande metropoli, preparando così l'imminente investimento di Leningrado. Il maresciallo Voroscilov, comandante delle forze sovietiche sul
    fronte settentrionale, annunciò ai cittadini il pericolo con un fiero proclama e mise la vecchia capitale zarista in pieno assetto di guerra, apprestandosi alla difesa ad oltranza. Nella foto in alto una batteria tedesca in azione tra i boschi che circondano il lago Peipus. Nella foto in basso truppe d'assalto germaniche conquistano un villaggio russo nei pressi di Veliki Luki, dove fu annientata la 22° armata sovietica.

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    Settembre 1941. In Russia l'autunno ha portato le prime piogge e il primo fango. I tedeschi si trovano così a dover affrontare una serie di difficoltà logistiche, aggravate dalla mancanza di strade. Nella foto un traino d'artiglieria semisommerso nel fango.

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    La perdita di tutti, i porti baltici ad eccezione di Hanko
    e di Kronstadt, costrinse la flotta sovietica a rifugiarsi
    nell'interno del golfo di Finlandia, rinunciando a disturbare il traffico tedesco via mare. Il comando germanico
    potè così avviare attraverso il Baltico i rifornimenti per
    le truppe del maresciallo von Leeb. Nella foto da una
    nave tedesca è sbarcato un contingente di truppe fresche
    da avviare verso il fronte, mentre in speciali gabbie vengono imbarcati i feriti da sgomberare.

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    Anche in un esercito largamente meccanizzato come quello tedesco i vari reparti dovettero, durante la campagna russa, ricorrere alla vecchia tecnica dell'arrangiarsi. Ecco come un reparto di SS ha risolto il problema dei collegamenti e della corvée per il rancio: ad un'improvvisata «troika» sono stati aggiogati i cani.

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    Nel settore settentrionale del fronte i tedeschi dovettero combattere in mezzo a vastissime foreste, che si dimostrarono particolarmente adatte alla guerriglia partigiana. Stalin in persona, in un suo proclama del 4 luglio, aveva ordinato ai reparti sbandati di scindersi in piccoli nuclei di guerriglieri e di operare alle spalle dello schieramento tedesco. Nella foto un treno tedesco attraversa, con una grossa scorta, una foresta.

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    Settembre 1941. In una chiesa ortodossa dell'Ucraina
    dopo la battaglia riprendono le funzioni religiose.
    Alla cerimonia assistono anche ufficiali e soldati tedeschi.

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    18 settembre 1941. Già negli ultimi giorni di agosto i tedeschi, continuando nella loro offensiva, avevano approfondito la loro penetrazione verso
    oriente, a sud e a nord di Kiev. Il maresciallo Budienny, dopo un'ostinata difesa, era stato costretto a ordinare la ritirata al di là del Dnieper,
    pur tentando di conservare alcune teste di ponte sulla sua sponda occidentale. I tedeschi, però, impedirono che la manovra sovietica fosse compiuta
    con successo e si portarono rapidamente all'inseguimento del nemico in fuga lungo la grande ansa del fiume. Fu investito così uno dei più ricchi
    bacini minerari dell'URSS, ove il governo sovietico aveva fatto sorgere le fabbriche gigantesche del «kombinat» del basso Dnieper. Nel quadro di
    queste operazioni si registrò la conquista di Dniepropetrovsk (l'ex Jekaterinoslav ove venne massacrata la famiglia imperiale russa nel 1917) che i
    sovietici diedero alle fiamme prima dell'abbandono. Si giunse così, alla metà di settembre, ad una nuova gigantesca battaglia di annientamento che
    ebbe per epicentro Kiev, ormai quasi circondata, ma che si sviluppò fra il Bug, il Diepner e la Desna. Alla sua conclusione i tedeschi poterono mettere all'attivo, oltre che la conquista di Kiev, la distruzione di un intero gruppo di armate sovietiche. Nella foto a sinistra le truppe tedesche entrano
    a Kiev. A destra il Feld Maresciallo von Reichenaid. comandante l'armata che, superata la linea Stalin, puntò su Kiev.

    L'avanzata del sud

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    Le operazioni delle truppe tedesco-romene sul litorale del Mar Nero avevano portato, fin dall'inizio dì luglio, all'investimento di Odessa. La formidabile base navale, sulla quale si imperniava la difesa sovietica dell'intero settore, resistè molto a lungo agli attacchi avversari anche quando, col proseguire delle operazioni, intorno ad essa si serrò il cerchio tedesco-romeno. La città era stata infatti disposta a difesa con un anello fortificato modernissimo e fu solo il 16 ottobre che un formidabile attacco della 4a armata romena, comandata dal gen. Jacobici, riuscì a fiaccare la resistenza sovietica. Nella foto in alto la città di Charkov, subito dopo l'evacuazione d elle truppe sovietiche. In basso Odessa poche ore dopo la conquista romena. Nelle strade, abbandonati dai sovietici, mezzi di ogni genere.

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    Fronte finnico: le truppe del maresciallo Mannerheim insistono nei loro attacchi lungo le due sponde del Ladoga. E' già caduta la prima neve di
    quello che sarà un precoce, durissimo e lungo inverno. E, prima della neve, sono cadute incessanti piogge che hanno reso difficoltosa la marcia dei
    finnici e dei tedeschi su Leningrado, difesa oltre che da un gigantesco campo trincerato, da una rete inestricabile di fiumi e di canali. Nella foto
    in alto coperti dalle bianche tute mimetiche i finnici avanzano nella neve, quasi invisibili agli occhi del nemico appostato nei boschi. Nella foto
    in basso tracce sulla neve. Di là è passata una pattuglia sovietica. I finlandesi, però, vigilano.
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    Freddo e fuoco

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    Visioni della lotta intorno a Leningrado. Mentre Mannerheim attacca da nord, avanzando sulle due sponde del Ladoga, i tedeschi vanno stringendo
    da sud l'accerchiamento dell'ex capitale zarista. La situazione degli assediati si fa drammatica, ai quattro milioni di abitanti della grande città s'è
    aggiunto, in conseguenza della guerra, almeno un milione di profughi dai territori occupati. Problemi gravissimi, anche e soprattutto di carattere
    logistico, si trova quindi a dover affrontare il maresciallo Voroscilov e vi provvede imponendo alla popolazione di Leningrado e ai soldati della cinta
    difensiva una disciplina ferrea. Nella foto in alto artiglierie tedesche appostate nei pressi di Narva battono i sobborghi di Leningrado. Nella foto
    in basso il tiro di sbarramento dell'artiglieria sovietica ha bloccato un attacco germanico. I « panzer granadieren », appiattati sulla neve, attendono
    che la bufera passi per riprendere l'offensiva.

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    Fronte di Mosca, ottobre-novembre 1941: Timoscenko ha sferrato la prima controffensiva sovietica ma è stato fermato dai tedeschi dinnanzi a
    Smolensk. Subito dopo i tedeschi riprendono la spinta su Mosca e von Bock lancia un formidabile attacco sulla direttrice Smolensk-Viasma. Il 4
    ottobre viene raggiunta Orel, quattro giorni dopo Viasma. La settimana successiva i tedeschi sono a Kalinin. Quest'ultima città è sulle rive del
    Volga, a non più di cento chilometri dalla capitale sovietica. Il comando germanico si trova quindi ben attestato in una zona vitalissima, dal punto
    di vista economico e militare, per le forze sovietiche. Di qui intende partire per l'attacco decisivo su Mosca. Ma i sovietici gettano nella lotta tutte
    le forze disponibili e bloccano i germanici sulla linea Kalinin-Mojaisk-Tula. Al comando delle armate del settore centrale Timoscenko è stato sostituito da un uomo nuovo, il generale Zukov, che si dimostrerà uno dei più abili strateghi della seconda guerra mondiale. Nella foto in alto guastatori germanici entrano in un villaggio nei pressi di Orel. Fra le isbe, difese una per una dai sovietici, cadaveri e relitti. In basso a sinistra i panzer attaccano nella nebbia. In basso a destra un'allucinante visione dei combattimenti notturni. Mentre un bengala illumina il campo di battaglia, una mitragliatrice tedesca spara sul nemico con proiettili traccianti.

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    La guerra e la satira in due disegni sovietici di Kukriniksky. A sinistra « Sogni d'oriente». Hitler, fumatore di hascisc, sogna battaglie e vittorie,
    mentre Goebbels, in costume da bajadera, fa una macabra contabilità. A destra l'avanzata delle « panzer divisionen » viste dal disegnatore sovietico. Lo scimmione hitleriano ha caricato il suo carro armato di un bottino eterogeneo.

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    Prigionieri sovietici ammassati lungo la linea ferroviaria Sinolensk-Mosca, in attesa di essere avviati ai campi di concentramento. Nel corso dell'offensiva autunnale verso la capitale russa, i tedeschi avevano annunciato la cattura di 500 mila prigionieri e di oltre quattromila cannoni. Queste cifre sembrarono fin da allora esagerate in quanto, nel corso dell'attacco, pur riuscendo ad effettuare una notevole penetrazione, i germanici non poterono serrare come previsto la morsa delle « panzer divisionen» intorno alle armate di Timosceriko e di Zukov.

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    La tattica tedesca si è ancora una volta aggiornata. Le necessita operative sul fronte orientale hanno imposto una iù stretta cooperazione fra la fanteria e i carri armati. Questi, in piccoli nuclei, agiscono come forze di rottura. Le fanterie vi si appoggiano come a fortini mobili e rastrellano passo a passo il terreno dai residui dei nuclei avversari di resistenza.

    La difesa sovietica

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    rima di iniziare il loro attacco da Srnolensk a Viasma, tedeschi effettuarono una grande preparazione aerea, con una serie di incessanti incursioni su tutti i centri di rifornimento sovietici. Furono in particolare colpite le istallazioni ferroviarie, nell'intento di disorganizzare l'intero sistema e di mettere in crisi logistica l'avversario. Malgrado i notevoli successi, l o scopo non fu raggiunto, dato che la configurazione geografica della Russia rendeva facile la riparazione dei danni. L'arma aerea aveva anche tentato un colpo grosso: la distruzione del quartier generale di Timoscenko, individuato in base alle rivelazioni di prigionieri sovietici. A sinistra il maresciallo Timoscenko che, sostituito da Zukov sul fronte centrale, andò a sostituire a sua volta Budienny al comando delle truppe operanti in Ucraina. A destra una veduta del quartier generale di Timoscenko dopo la riuscita incursione aerea. Particolare curioso: il comando del generale Kesserling due anni dopo a Frascati avrebbe dovuto subire un analogo attacco ad opera dell'aviazione anglo-americana.

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    Una singolare stretta di mano, quella fra il commissario degli affari esteri Molotov e il generale Sikorsky, comandante delle forze polacche e capo
    del governo polacco in esilio. Molotov era stato l'artefice di quel patto di non aggressione con Rider che aveva reso possibile la campagna polacca
    e, successivamente, la spartizione dell'infelice nazione fra russi e tedeschi. Ma un conto ancor più grave era aperto, fra Polonia e Unione Sovietica:
    quello delle fosse di Katyn, ove furono massacrate alcune migliaia di ufficiali del dissolto esercito polacco.

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    Fra il novembre e il dicembre del 1941 la resistenza sovietica andò irrigidendosi su tutto il fronte. L'afflusso di forze, fresche, l'inizio degli aiuti
    economici e militari degli anglo-americani, lo stato di esaurimento in cui si trovavano le truppe tedesche, provate da cinque mesi di ininterrotta
    offensiva, alcuni errori psicologici commessi dal comando germanico contribuirono a rendere possibile il miracolo della ripresa quando già il mondo
    considerava l'URSS spacciata. Tuttavia, prima della stasi invernale, i tedeschi continuarono nei loro attacchi, soprattutto sul fronte meridionale.
    Nella foto in alto reparti sovietici di sciatori, montati su slitte trainate dai carri armati attestati nei pressi del fronte. In basso un pezzo anticarro
    sovietico in postazione attende l'attacco dei panzer.

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    La lotta sul fronte meridionale, dopo il forzamento del Dnieper, aveva avuto importanti sviluppi, con il formidabile attacco del gruppo di armate comandato da von Kleist, del quale facevano parte truppe italiane, romene, ungheresi e slovacche, verso il bacino del Donez, i porti del mare d'Azov e la pianura di Rostov. Abbiamo già visto come fosse caduta Charkov e come le truppe italiane avessero raggiunto Stalino, dopo una marcia di 400 chilometri. Ma la lotta più dura si registrò dinnanzi ad un'altra città, ancor più importante dal punto di vista strategico, poichè era la porta del Caspio e del Caucaso: Rostov. La città venne conquistata solo il 21 novembre, dopo giorni e giorni di furibondi combattimenti, fra incessanti attacchi e contrattacchi. Nella foto in alto artiglierie sovietiche attestate nell'interno della città battono le linee tedesche alla periferia. In basso si combatte nelle vie centrali di Rostov, la fanteria sovietica
    contrattacca il nemico avanzante.

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    Si combatte ormai anche in Crimea. Sull'istmo di Perekop von Manstein deve lottare a lungo per vincere la resistenza sovietica ma alla fine ha partita vinta e dilaga nella penisola. Il 15 cade Yalta, cittadina che avrà poi dallo storico incontro dei tre «grandi», maggiore risonanza mondiale. Ma Sebastopoli e Kersc resisteranno a lungo, per salvare la flotta sovietica del Mar Nero. Nella foto una silurante russa nel mar d'Azov.

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    Anche l'aviazione sovietica, che nei primi mesi di guerra
    era rimasta pressochè assente dal campo della lotta, in
    autunno dimostrò una maggiore aggressività. Nuovi apparecchi da caccia erano entrati in linea e contrastavano
    ora efficacemente le incursioni dei bombardieri tedeschi
    sulle città russe e sui nodi ferroviari. Nella foto in alto
    piloti da caccia sovietici a rapporto prima di partire per
    un volo di intercettazione. Nella foto in basso soldati
    sovietici osservano i relitti di un apparecchio tedesco
    abbattuto nei pressi di Mosca.

    Italiani all'attacco

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    Ormai, anche nel settore meridionale del fronte russo il gelo paralizza le operazioni militari. Il CSIR si attesta sulle posizioni raggiunte nel corso
    dell'estate e dell'autunno e si prepara a superare i durissimi mesi invernali. Nella foto in alto un convoglio di slitte porta i rifornimenti alle
    prime linee. Al centro gli aerei dell'aviazione italiana in Russia, sui campi coperti di neve vengono protetti con mezzi di fortuna dal gelo e dalle
    intemperie. In basso in una postazione di prima linea i soldati italiani vigilano contro le insidie del nemico che tenterà tra non molto di sorprendere il nostro schieramento con quella che passerà alla storia col nome di «Battaglia di Natale».

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    Novembre 1941. Le truppe italiane operano con i tedeschi e i romeni nel bacino del Donetz. Dopo i brillanti successi iniziali che avevano portato
    alla conquista di Petrikovca e alla cattura di oltre diecimila prigionieri, il CSIR proseguì nella sua azione nella zona di Gorlowka, incontrando forti
    resistenze avversarie. Ma le divisioni schierate in prima linea, la «Pasubio» e la «Celere», superarono ogni ostacolo, spingendosi ben oltre Stalino.
    In alto a sinistra l'artiglieria divisionale della «Pasubio» batte le posizioni russe. Al centro a sinistra lanciafiamme italiani contro un bunker
    russo. In basso a sinistra una colonna di prigionieri sovietici scortata verso il campo di concentramento. In alto a destra relitti di carri armati
    nemici sulle vie di Gorlowka In basso il cappellano militare don Mazzoni che, già decorato nel 1917 sul Carso di Medaglia d'Oro al Valor Militare, riceveva per la seconda volta l'altissima decorazione per aver soccorso alcuni soldati feriti sotto il fuoco nemico.

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    2 novembre 1941. Il CSIR conquista Gorlowka. Al successo dell'operazione, che avrebbe dato agli italiani il controllo dell'intero bacino del Donetz,
    aveva contribuito in maniera decisiva la rapida marcia della colonna «Chiaramonti», dell'«80°» reggimento fanteria della «Pasubio» e il congiurigimento delle forze della «Pasubio» e della «Celere» di fronte al campo trincerato. In alto elementi dell'« 800 » fanteria combattono nella neve alla periferia di Gorlowka. In basso una pattuglia del CSIR penetra in una delle grandi fabbriche della città, impedendo ai sovietici di incendiarla.

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    Prosegue intanto la vittoriosa avanzata nipponica nel Pacifico. Dopo la grande, tragica sorpresa di Pearl Harbour, i giapponesi puntarono ad un
    rapido, totale sfruttamento della superiorità navale fulmineamente conquistata. Cosi, già ventiquattro ore dopo l'incursione sulle Hawai, cadeva nelle loro mani l'isola di Witke, mentre sbarchi di forze venivano operati a Lubang, nelle Filippine, in Malesia e si iniziava l'investimento della piazzaforte di Hong Kong sulla costa cinese. Il giorno dopo, altri sbarchi, questa volta a Guam e sulla costa del Borneo britannico. Nella foto un gruppo di piloti nipponici a rapporto prima di un'incursione sulle posizioni americane delle Filippine.

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    10 dicembre 1941.Il disastro della flotta britannica culmina, nelle acque malesi, con l'affondamento delle due grandi e moderne corazzate: la « Prince of Wales » e la « Repulse ». Queste due navi da battaglia erano state inviate da Churchill in Estremo Oriente a titolo di monito per i giapponesi quando ancora Tokio stava negoziando un accordo con gli Stati Uniti. Ma le corazzate non solo non ebbero alcun effetto psicologico sui nipponici, ma non riuscirono nemmeno ad entrare in azione. Alla loro prima uscita in mare vennero infatti sorprese da una formazione navale giapponese appoggiata da alcune portaerei e affondate in poche ore di combattimento da aero-siluranti e bombardieri. Su questo episodio, come su molti altri, svoltisi nello stesso periodo nel Pacifico, mancano documenti fotografici, specie di fonte anglo-americana. Il fatto si spiega, poiche la iniziativa delle operazioni fu completamente nelle mani dei giapponesi e per parecchi mesi gli anglo-americani furono costretti a difendersi alla meglio. Presentiamo quindi, sull'affondamento della «Repulse», un disegno dal vero pubblicato dalla rivista britannica «The Sphere».

    Vittorie del Pacifico

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    11 dicembre 1941. I giapponesi, varcato il confine dell'alleata Thailandia, attaccano le forze britanniche della Malesia, nella regione di Punta
    Victoria e iniziano una vittoriosa marcia su Singapore. La grande base navale inglese, chiave di volta dell'intero sistema difensivo imperiale nell'Estremo Oriente si trovò cosi in grave pericolo. Nella foto carri armati giapponesi avanzano fra le risaie malesi.

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    Le portaerei furono, durante tutta la guerra nel Pacifico, il nucleo principale della potenza giapponese. Fu appunto la superiorità iniziale dei nipponici in questo settore, accentuata dopo le distruzioni di Pearl Harbour, a rendere possibile la serie irresistibile di azioni anfibie che portò la bandiera del Sol Levante a sventolare su una miriade di isole grandi e piccole. Nella foto una portaerei nipponica spara con tutte le sue batterie contro gli aerei americani lanciati all'attacco dalle basi delle Filippine.

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    11 dicembre 1941. I giapponesi sbarcano sull'Isola di Luzon, nelle Filippine, iniziando l'investimento di Manila, capitale dell'arcipelago, nonchè della vicina grande base navale di Cavite. Comincia così il dramma delle forze comandate dal generale Mac Arthur che combattono senza speranza di poter avere rinforzi dalla madrepatria. Nella foto un reparto giapponese appena sbarcato a Luzon, precede speditamente nella sua marcia verso l'interno dell'isola, in mezzo alle foreste equatoriali. Si noti portabandiera che precede come sempre le truppe.

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    In ritirata su tutti i fronti, gli alleati debbono subire sconfitte su sconfitte. Invano gli americani raccolgono tutte le forze disponibili per contrastare
    l'offensiva sferrata dai nipponici nelle Filippine, che anzi procede inarrestabile verso le principali basi aero-navali. Invano i britannici combattono
    in Malesia. Il 19 dicembre viene occupata la grande base aerea inglese di Victoria. Il giorno successivo cade l'isola di Penang. Quindi è la volta
    di Trengganu, di Taping e di Kuala Kangsa. Il 26 capitola la stessa Hong Kong, perla orientale della corona britannica. In alto a sinistra soldati
    americani, appoggiati da carri armati, tentano di ricacciare i nipponici verso il mare, nell'isola di Luzon. Al centro Honolulu dopo un'incursione
    giapponese. In basso il quartier generale dì Mac Arthur a Cavite. A destra la bandiera del Tenno sale sulla base navale di Hong-Kong.

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    Banzai! Il grido dì vittoria dei soldati giapponesi echeggia dalla Cina alla Malesia, dalla Birmania alle Filippine, dal Borneo al mare di Giava.
    In soli 23 giorni i figli del Sol Levante hanno conquistato territori immensi, sbaragliando le due flotte più grandi del mondo e spingendosi ad oltre
    cinquemila chilometri dalle basi di partenza. E sembra che nessuno possa resistere al loro impeto, al loro coraggio, alla loro fredda determinazione.

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    2 gennaio 1942. Manila e Cavite vengono raggiunte dalle forze nipponihe dopo una ventina di giorni di incessanti combattimenti con le forze
    americane in ritirata. Mac Arthur e il suo Stato Maggiore si ritirano nella penisola di Bataan e nella piazzaforte di Corregidor, dove resisteranno
    ancora per quattro mesi. Nella foto l'ingresso dei carri armati giapponesi a Manila in una telefoto giunta in Europa in quell'epoca.
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    In questa cartina è tratteggiata la situazione al fronte orientale alla data del 7 novembre 1941,anniversario della rivoluzione russa. Come abbiamo visto
    nei precedenti fascicoli le armate germaniche travolsero ogni resistenza sovietica nelle gigantesche battaglie di annientamento ricordate nella cartina, fino a giungere a trenta chilometri da Mosca. Nella capitale sovietica, come ogni anno, si riunisce il Soviet per la solenne seduta celebrativa. Ma gli accenti sono ben diversi da quelli di un tempo. Non più osanna alle realizzazioni del regime, non più inni alla conquista proletaria del mondo: L'Unione Sovietica è in pericolo e Stalin si presenta ai compagni per fare un bilancio dei primi quattro mesi di guerra. « Il nemico, egli dice, ha occupato la maggior parte dell'Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia la Lituania, la Lettonia, l'Estonia, una serie di altre regioni, è penetrato nel bacino del Donetz, sta come una nube nera su Leningrado, minaccia la nostra gloriosa capitale, Mosca ». E difatti, nella stessa sala del Soviet giunge, dalla linea del fronte, ormai spaventosamente vicina alla periferia di Mosca, come il brontolio del tuono, l'eco delle esplosioni. Ma per Stalin e per tutti i dirigenti sovietici, ancor più delle conquiste territoriali di Hitler sono preoccupanti le perdite subite in uomini e mezzi. « In quattro mesi di guerra, egli afferma al Soviet,abbiamo avuto 350 mila morti, 378 mila dispersi e un milione e ventimila feriti ». Hitler, rispondendo a Stalin qualche giorno dopo, dichiara di no. Il nemico, secondo lui, avrebbe perso non meno di sette milioni di uomini, ventisettemila cannoni, ventiduemila carri armati e quindicimila aeroplani. Certo è che la forza combattiva dell'esercito sovietico sembra fortemente compromessa. E' dunque il momento,ritiene Hitler di lanciare il colpo mortale su Mosca, prima che giunga l'inverno a paralizzare la sua grande macchina di guerra. Ha così inizio, fra Kalinin e Tula, su un fronte di quasi trecento chilometri, quella che passerà alla storia col nome di « Battaglia di Mosca ».

    La battaglia di Mosca

    Molte e vivaci sono ancora oggi le polemiche sulla Battaglia di Mosca, svoltasi fra il novembre e il dicembre del 1941, e conclusasi con il fallimento dell'attacco tedesco e con una controffensiva generale degli eserciti sovietici. In genere, il memorialismo tedesco del dopoguerra rigetta su Hitler la responsabilità di quella battaglia che si afferma fu decisa dal dittatore nel momento meno adatto e senza una chiara visione delle necessità e delle opportunità strategiche, contro il parere di gran parte dello Stato Maggiore. D'altra parte. anche se l'esito della battaglia diede ragione ai pessimisti dell'Oberkommando e torto a Hitler, non bisogna per questo solo affermare che il Capo della Germania gettò allo sbaraglio, dinnanzi all'imprendibile capitale sovietica, il fior fiore del suo esercito semplicemente perchè nel suo smisurato orgoglio, nella sua immensa ambizione, non voleva che la stasi invernale delle operazioni giungesse senza una vittoria di grandi proporzioni. In realtà, invece, se anche vi erano differenze di idee sull'opportunità di scatenare la battaglia proprio in vista dell'inverno e quando già la neve era caduta sulle pianure russe tutti allo Stato Maggiore tedesco, davano ormai per spacciato l'esercito sovietico. Ritenevano, cioè, che le truppe di Stanzi, pur essendo in grado di offrire ancora una tenace resistenza, fossero ormai chiuse ad ogni possibilità di ritorno offensivo. Partendo da questa premessa, che poi si dimostrò errata ma che era generalmente condivisa dai capi tedeschi, l'idea di Hitler, tendente ad attaccare Mosca con tutte le forze disponibili, senza dar tregua al nemico finchè vi fosse la possibilità di combattere, appare tutt'altro che illogica. C'era è vero il precedente napoleonico, ma Hitler pensava di aver vinto già la sua battaglia, perchè a differenza del grande Corso era riuscito ad agganciare gli eserciti nemici in una serie di gigantesche battaglie di annientamento. Ma i fatti dimostrarono errati questi calcoli. A metà di dicembre, il maresciallo sovietico Zukov fu in grado non soltanto di respingere i tedeschi sulle posizioni di partenza, ma addirittura di sviluppare una vigorosa azione controffensiva, riconquistando Kalinin, Tula e rompendo il fronte avversario in un vasto, vitalissimo settore al punto da costringere l'alto comando tedesco ad un sollecito ripiegamento di notevoli proporzioni, su tutta la linea affrettatamente costituita in quelle che appena un mese prima erano le lontane retrovie della Wermacht. Si infranse così il sogno dí Hitler di giungere a Mosca prima dell'inverno e si registrò, dopo cinque mesi di continue ritirate, la prima vittoria sovietica. Una vittoria che allora fu giudicata di non determinante importanza ma che la critica postbellica tedesca considera fondamentale premessa della finale sconfitta del nazismo. Cosa non aveva funzionato nel piano di Hitler? Cosa aveva determinato quell'insuccesso che recentemente il maresciallo Kesselring ha definito uno dei tre errori più grandi della guerra? Nulla si può imputare ai generali tedeschi sul piano operativo. Anche se le forze germaniche erano esaurite da cinque mesi di continue battaglie, anche se i rifornimenti e le manovre dei "panzer" erano impacciate dalla neve cioè da un elemento cui i sovietici erano abituati ma che era nuovo per la Wermacht, l'attacco su Mosca fu portato con la massima determinazione e con la tradizionale sapienza tattica dello Stato Maggiore germanico. Era stata invece sbagliata completamente la valutazione di un altro elemento fondamentale: la resistenza sovietica. I tedeschi, come abbiamo visto, credevano di dover fare i conti con gli ultimi resti di un'armata in disfacimento, provata fino all'usura più estrema. Credevano di poterne determinare il collasso e di rovesciare cosi dalle fondamenta l'impalcatura dello stesso regime sovietico. Invece le forze di Zukov si rivelarono di gran lunga migliori, come armamento, come equipaggiamento, come abilità tecnica dei capi e dei gregari, di quelle battute in Ucraina, in Galizia, nei Paesi baltici, nella Bielorussia. Fu questa, dunque, la grande sorpresa della difesa di Mosca: l'esistenza di ampie riserve russe di uomini e di materiali. A tutto ciò si aggiunga il fatto che queste forze furono gettate nella lotta al momento giusto da uno stratega di eccezionale valore, quale il maresciallo Zukov, e usate sul terreno con una manovra lucidissima che s'impose all'ammirazione degli intenditori dell'Oberkommando. Zukov, infatti, non si ostinò, porne era accaduto a Budjenny in Ucraina, in una difesa rigida e priva di fantasia tattica. Cedette là dove gli sembrava impossibile resistere, ma quando diede l'ordine di ritirata seppe prendere tutte le misure per bloccare il nemico su una serie di linee arretrate di resistenza destinate a fiaccarne la spinta offensiva. Contrattaccò con fulminee puntate quando ritenne di poterlo fare senza esporsi eccessivamente. Reagì alla manovra con la manovra. Approfittò di ogni debolezza, di ogni incertezza, di ogni errore avversario. E quando finalmente, dopo più di un mese di lotta, s'accorse che la spinta nemica s'andava esaurendo e che i tedeschi davano ormai evidentissimi segni di stanchezza, fece scattare le sue truppe in una controffensiva generale che troncò per tutto l'inverno ogni velleità di Hitler e dei suoi generali sul fronte di Mosca al punto da determinare contraccolpi anche in altri settori con la perdita di Rostov, di Tikhvin e di Mariupol. I guadagni territoriali dei sovietici furono, è vero, assai modesti, ma Zukov non s'era certo prefisso un ambizioso piano di riconquista, lanciando all'attacco le sue truppe sul fronte di Mosca. Quel che voleva e che ottenne oltre ogni speranza, fu di bloccare l'attacco tedesco sulla capitale, di spezzare il cerchio mortale che si andava apprestando fra Kalinin e Tula e di dare a Stalin la possibilità di apprestare durante l'inverno gli strumenti della riscossa. Nel suo proclama del 19 ottobre Stalin non invano aveva detto: « Mosca sarà difesa fino all'estremo, casa per casa».

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    L'inverno, un inverno precoce e rigido, ha già steso la sua coltre bianca sulle immense pianure della Russia. Da Berlino giunge egualmente alle truppe del settore centrale l'ordine di attaccare a fondo verso Mosca. Nella foto una postazione di mitragliatrici nella neve sul fronte della capitale sovietica.

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    Il piano tedesco, dopo qualche giorno di inutili attacchi di fronte a Viasma, appare diverso da quello iniziale, che prevedeva una penetrazione verso
    Mosca sulla classica direttrice napoleonica. Ora, con le due puntate su Kalinin a nord e su Tula a sud, sembra che Hitler abbia l'intenzione di
    giungere all'accerchiamento preventivo della capitale nemica, prima di tentarne l'investimento. La mossa, del resto, è giustificata, poiché i sovietici
    si trovano avvantaggiati, nella loro battaglia difensiva di fronte a Mosca, dalla possibilità di far affluire nella zona dei combattimenti rincalzi e
    rifornimenti sia dall'interno dell'URSS sia dagli altri settori del fronte, grazie alla rete di strade e di ferrovie che dalla capitale si irradiano in
    tutte le direzioni. Occorre troncare questi cordoni ombellicali, per mettere in ginocchio la difesa nemica. Nella foto in alto truppe corazzate tedesche
    si schierano in formazione di combattimento di fronte a Kaluga. Nella foto centrale è in vista un contrattacco sovietico. Mentre i panzer vigilano,
    la fanteria scava nella neve degli improvvisati apprestamenti difensivi. In basso di nuovo in marcia.

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    I successi tedeschi non sono più rapidi e facili come qualche mese prima. I sovietici hanno l'ordine di combattere fino all'ultima cartuccia e di
    morire sul posto. E' sempre meno frequente, quindi, lo spettacolo un tempo quotidiano delle grosse torme di prigionieri, avviliti ed esausti, incrocianti
    le ferree colonne tedesche in avanzata. In alto abbarbicati ai carri armati come a dei capisaldi, i soldati di un battaglione sovietico si sono fatti
    massacrare, prima di cedere. In basso la fine di una ridotta sovietica sul fronte di Mosca. I serventi sono caduti al loro posto di combattimento.

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    La lotta è durissima, ma i tedeschi avanzano. Ecco le avanguardie di un reparto d'assalto che entrano in un villaggio russo dopo una, furibonda
    battaglia. Le isbe sono in fiamme. Da notare, nella foto, il mascheramento mimetico dei tedeschi i quali, sull'esempio finlandese, hanno adottato, per
    i combattimenti sulla neve, mantelli bianchi con ampio cappuccio.

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    Anche in Russia, come in Francia e in Polonia, la Flak cioè la
    contraerea, alterna i suoi interventi contro l'aviazione nemica all'appoggio diretto alle operazioni terrestri. La sua arma più micidiale fu la
    mitragliera a quattro canne che si rivelò efficacissima nei combattimenti a distanza ravvicinata contro la fanteria.

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    Una sentinella tedesca nelle retrovie del fronte. Oltre al passamontagna e al pesante pastrano foderato di pelo, la sentinella dispone
    di uno speciale paio di scarpe di cuoio con un'altissima suola di legno,
    foderate di feltro e munite di resistenze elettriche.
    Solo cosi è possibile resistere, nelle lunghe ore di guardia, al morso del gelo.

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    Dopo quasi quindici giorni di cornbattimento, i tedeschi possono annunciare le prime vittorie sul fronte di Mosca. Il 28 novembre, a nord-est della capitale sovietica, vengono conquistate Volokolamsk e Klin. Volokolamsk è sulla strada Leningrado-Kalinin.-Mosca e la sua occupazione mette in crisi l'intero sistema di comunicazioni fra il fronte nord orientale e quello centrale. Klin, invece, apre la strada alla centrale elettrica di Mosca, ghiotta preda cui tendono con tutte le loro forze i tedeschi. Ma sono successi illusori: appare ogni giorno più evidente che lo sforzo offensivo tedesco è ormai vicino al suo completo esaurimento. Nella foto in alto un combattimento notturno fra la neve, nel paesaggio lunare delle colline del Valdai. In basso la fine di un carro armato sovietico che aveva tentato un attacco di sorpresa notturno contro le linee tedesche.

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    Novembre 1941. Kalinin, centro dei furibondi combattimenti svoltisi a nord-ovest di Mosca. La cittadina avrebbe dovuto essere la base di partenza
    per l'avvolgimento di Mosca e per la rottura delle linee sovietiche sul corso superiore del Volga, così come da Tula si sarebbe dovuta sviluppare
    l'azione d'accerchiamento in direzione di Riazan. Fu invece proprio a Kalinin che il maresciallo Zukov iniziò la sua grande controffensiva.

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    Un convoglio di rifornimenti tedesco: il gelo rende ormai
    problematico l'uso dei camion e si deve ricorrere ai
    cavalli e alle slitte. Grave inconveniente per un esercito
    che, come quello tedesco, contava sopratutto sulla sua
    vasta motorizzazione e sulla fulmineità delle sue azioni.

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    Si combatte nelle strade di una cittadina sovietica, e i carri armati debbono intervenire a sostegno della fanteria, impegnata duramente dai difensori sovietici annidati nelle case. Anche i civili partecipano alla lotta con le formazioni partigiane che, favorite dall'inverno, si ingrandiscono e si rafforzano sempre più.

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    Un nuovo mezzo di guerra fa la sua comparsa sul fronte russo. E' il Golia tedesco, cioè un minuscolo carro armato radiocomandato, edizione moderna
    dei « brulotti » usati un tempo nella guerra navale. Il « Golia » reca infatti, sotto una corazzatura che lo rende invulnerabile ai colpi di mitragliera,
    una forte carica esplosiva, capace di smantellare il più grosso carro nemico. Esempio tipico dell'ingegno e della capacità tecnica dei germanici, il
    « Golia » ottenne qualche risultato di rilievo nei primi giorni di impiego ma non fu prodotto in grandi serie perchè si rivelò ben presto facile
    vittima delle artiglierie leggere avversarie. Nella foto il « Golia » diretto contro l'obiettivo: un carro armato sovietico.

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    Ancora una vittoria tedesca : una colonna motorizzata sovietica sorpresa nei pressi là Kaluga e annientata dai panzer prima di poter apprestarsi
    a difesa. Nella foto i relitti, coperti dalla neve, di un grosso bottino in armi e materiali.

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    Alcuni fra i più importanti capi tedeschi nella Battaglia di Mosca. In alto a sinistra il generale Guderian, comandante le formazioni corazzate. In
    alto a destra il generale d'Armata von Kluge. In basso a sinistra il generale Kesselring, comandante l'Armata aerea sul fronte di Mosca. In basso
    a destra il generale d'Armata von Bock.

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    Alcuni fra i più importanti capi sovietici nella «Battaglia di Mosca». A sinistra in alto 11 maresciallo Zukov, comandante delle armate che difesero
    Mosca nell'inverno del 1941. A destra in alto il generale d'Armata Rokossovski. In basso a sinistra il generale d'Armata Govorov, In basso a
    destra il generale Rotmistrov, comandante delle formazioni corazzate.

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    Aspetti della disperata difesa di Mosca. Mentre le provate truppe sovietiche erano costrette ad arretrare, da tutti i territori dell'immensa Unione affluivano nuove armi, nuovi mezzi, nuove truppe. Le fabbriche avevano lavorato a pieno ritmo per apprestare nuovi tipi di carri armati, di cannoni, di aeroplani capaci, di tener testa a quelli, messi in campo dai tedeschi. Nei campi di addestramento

    le nuove leve erano state educate alla tecnica più moderna del combattimento. Insomma, proprio quando il colosso sovietico era giudicato quasi da tutti in ginocchio, dietro il fronte s'andava pre parando la grande sorpresa. La sorpresa che solo a un vasto paese, dotato di mezzi inesauribili e di una gigantesca attrezzatura industriale, poteva realizzare e che, allora, fece gridare al miracolo. Nelle

    foto in alto: un'eccezionale documentazione sulla difesa manovrata sovietica. Mentre (1a in alto) le arti glierie battono le linee tedesche, le fanterie appoggiate da carri armati (2a in alto) contrastano l'azione nemica. In basso la prima comparsa dei giganteschi carri da 52 tonn. armati con cannoni da 152 millimetri. I colossi d'acciaio avanzano come mostri invulnerabili sotto il tiro delle artiglierie germaniche.

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    La famosa cavalleria cosacca ricompare sui campi di battaglia. Il suo apporto è prezioso, per il comando sovietico, sopratutto per i collegamenti e per le azioni di sorpresa che solo questi cavalieri provetti sono in grado di effettuare sul difficilissimo terreno coperto da un manto nevoso di due-tre metri.

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    Una postazione d'artiglieria sovietica di fronte a Mosca, nei giorni della battaglia difensiva. Da notare che il materiale del massiccio muro di
    protezione è costituito da grossi blocchi di ghiaccia A destra il gen. Voronov, comandante l'artiglieria Sovietica.

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    Nuovi mezzi di guerra messi in campo dai sovietici. Nella foto in alto si nota una batteria di « Katiusce », cioè dei micidiali lanciarazzo a canne
    multiple e a tiro rapido che al loro apparire crearono autentico panico fra i tedeschi. I russi usavano le « Katiusce» in grossi nuclei, come quello
    raffigurato nella foto, concentrando il fuoco su limitati settori del fronte, con massicci effetti distruttivi. Notevole anche l'effetto depressivo suscitato
    sulle truppe prese di mira. I tedeschi adottarono successivamente una versione della « Katiuscia » a trentasei canne. Nella foto al centro i sobborghi
    di Mosca e gli apprestamenti difensivi frettolosamente preparati dai sovietici nei giorni in cui i tedeschi si avvicinavano alla capitale. In basso un
    aereo tedesco, abbattuto dalla contraerea sovietica, esposto nella piazza Sverdlov, a Mosca. I sovietici dedicarono molta cura alla preparazione psicologica della popolazione di Mosca, preparandola non soltanto alla resistenza passiva ma anche alla guerriglia. Furono infatti organizzati reparti di
    operai destinati a difendere stabilimenti e quartieri. Lo slogan più frequente era questo: « Hitler farà la fine di Napoleone! ».
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    Due cartelli di propaganda sovietici. A sinistra Hitler cerca di serrare Mosca in una morsa ma il soldato sovietico sventa il suo piano. A destra
    « Difendiamo Mosca! » grida il soldato in armi sullo sfondo della storica torre del Cremlino.

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    Due vedute di Mosca, meta non raggiunta dell'offensiva tedesca nell'autunno-inverno del 1941. La grande città, popolata da oltre quattro milioni di
    abitanti e ospizio provvisorio di almeno un milione di profughi, non era soltanto la sede del governo sovietico e un grande centro industriale, ma
    anche il centro vitale della Russia, il suo cuore pulsante, il suo bastione più ferreo. La perdita della capitale avrebbe avuto per Stalin incalcolabili
    conseguenze; forse avrebbe significato la fine della resistenza organizzata portando al collasso tutto il regime comunista. Ben comprensibile è quindi
    l'ostinazione di Hitler che volle continuare gli attacchi anche quando ormai ogni speranza di un successo risolutivo era spenta. Eguale giustificazione
    trova la tenacia di Stalin nel difendere ad ogni costo la capitale. Ma per l'uno e per l'altro Mosca era soprattutto un simbolo.

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    Decisi a lottare quartiere per quartiere, casa per casa, i sovietici avevano trasformato la capitale in un immense campo trincerato. Nella foto in alto
    a sinistra cittadini di Mosca lavorano nelle strade per creare ostacoli anticarro. Al centro a sinistra un pezzo antiaereo piazzato sul tetto di una
    casa. Le artiglierie contraeree russe si dimostrano efficientissime nella Battaglia di Mosca. In una sola azione, su 187 aerei tedeschi che tentavano di
    bombardare Mosca, 180 furono abbattuti dalle difese sovietiche. In basso a sinistra un reparto motorizzato attraversa le vie centrali, avviandosi al
    fronte ali combattimento. In alto a destra la vita, a Mosca, è quasi normale, ma dai filobus che li portano al lavoro i cittadini possono scorgere le trincee improvvisate nelle strade. In basso a destra una colonna di autoblinde dinanzi alla città.

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    7 novembre 1941. Mentre nell'URSS si celebrava l'anniversario della rivoluzione d'ottobre, la situazione di Mosca era drammatica. Tuttavia Stalin,
    anche contro il parere di alcuni capi militari, decise di distrarre dal fronte molti reparti pur di non rinunciare alla tradizionale parata. Quell'anno,
    quindi, la grande rivista ebbe un aspetto nuovo, drammatico e orgoglioso insieme, per la partecipazione di uomini che portavano ancora sul volto e
    nella divisa i segni della lotta. Sotto la minaccia del cannone che tuonava a trenta chilometri e delle incursioni aeree, la rivista durò esattamente
    sette minuti. Nella foto in alto un disegno sovietico dal vero sulla parata militare. In basso i carri armati dopo la sfilata sulla Piazza Rossa, dinnanzi
    al mausoleo di Lenin, escono nuovamente dalla città, tornando al fronte.

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    Bianchi soldati sovietici all'attacco ad est di Mosca. E' visibile sullo sfondo la mole imponente del monastero di Mojaisk, che in quel giorni subì gravi danni.

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    Uno degli eroi della difesa di Mosca: il generale sovietico
    Panfllov, caduto alla testa delle sue truppe.

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    La controffensiva sovietica dinnanzi a Mosca, fin dai primi giorni di dicembre, ebbe risultati positivi, anche se non risolutivi come forse il comando di Stalin aveva sperato. A nord della capitale i tedeschi erano infatti costretti ben presto ad abbandonare Kalinin. Nella foto in_alto soldati sovietici armati di mitra « Parabellum », all'attacco di una formazione tedesca. Nella foto in basso i sovietici riconquistano Kalinin e snidano dalle case i soldati della retroguardia tedesca.

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    Soldati sovietici avanzano sotto il tiro dei cannoni tedeschi
    nel settore di Yelets. La cittadina venne riconquistata
    dai russi dopo molti giorni di lotta.

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    La difesa di Mosca si avvia alla conclusione vittoriosa per i sovietici. La reazione aumenta di intensità, mentre il tono dell'attacco tedesco cala.
    Entrano in linea i cosacchi, che in travolgenti cariche ricacciano il nemico. Nella foto in alto nonostante l'infernale fuoco tedesco la fanteria sovietica
    si lancia all'assalto. Al centro cavalieri cosacchi riconquistano un villaggio nei pressi di Tula. In basso truppe russe scattano al contrattacco.

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    Zukov insiste nella controffensiva, mentre i tedeschi, rapidamente riorganizzatisi, prendono posizione nei capisaldi frettolosamente apprestati su
    una linea più arretrata. Nella foto in alto la cavalleria cosacca carica il nemico. Al centro assalto alla baionetta, come nella prima guerra mondiale.
    In basso i sovietici avanzano sulle strade ingombre di carri, munizioni, armi, abbandonate dai tedeschi in ritirata.

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    La battaglia di Mosca è ormai vinta, da parte russa, con l'aiuto del Generale Inverno che ha frustrato i piani di Hitler e umiliato per la prima volta
    l'orgoglio germanico. Ma se Stalin sognava una rapida campagna di riconquista, si sarebbe ben presto disilluso. I tedeschi, infatti, si erano prontamente ripresi, dopo il colpo a sorpresa di Zukov, e avevano apprestato una poderosa linea invernale di resistenza. La neve e il gelo del resto impedirono dopo pochi giorni anche ai sovietici ogni movimento in forze. La lotta, quindi, si arrestò su tutto il fronte, nel gelo, in attesa della primavera. Nella foto una colonna di carri armati sovietici riconquista Kozielsk il 30 dicembre, inseguendo i tedeschi in ritirata. Sul ciglio della strada, cadaveri e relitti. E' visibile la salma di un soldato tedesco schiacciato da un carro. Immagine e simbolo di una guerra sempre più spietata e inumana.

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    Nella cartina è riassunta la situazione petrolifera dei paesi in conflitto. Alle immense risorse statunitensi, russe, venezuelane e persiane circa il 97%
    della produzione mondiale le potenze dell'Asse non potevano opporre che lo scarso potenziale di alcuni giacimenti romeni ed austriaci ed, in seguito,
    dalle modeste risorse di Sumatra e del Borneo nel Pacifico, occupate dai giapponesi. In tutto circa il 3% della produzione mondiale. Ben si spiega quindi la guerra ad oltranza condotta particolarmente dai sommergibili dell'Asse, oltre che dall'aviazione e dalle navi di superficie, specialmente contro le petroliere anglo-americane il cui flusso verso i fronti europei fu quasi interrotto con gravissimo danno per le industrie di casa e per le operazioni belliche dell'Africa Settentrionale. A questa critica situazione posero rimedio le formidabili possibilità delle industrie navali statunitensi che, contro le 695 petroliere (per 5.232.758 tonnellate) affondate dalla Marina dell'Asse, ne costruirono 700, oltre le 353 varate dalle altre nazioni alleate.

    LA BATTAGLIA PER IL PETROLIO

    La pubblicazione ufficiale dell'Ammiragliato britannico sulla battaglia dell'Atlantico, al punto riguardante i rifornimenti di petrolio cosi scrive testualmente: « Facendo eccezione per i convogli che passavano da Malta con gravi perdite, il Mediterraneo era virtualmente chiuso al nostro traffico. Col Giappone in guerra e in possesso delle sorgenti di nafta del Borneo e delle Indie Orientali olandesi, e con i corsari di superfice e i sommergibili giapponesi nell'Oceano Indiano, che minacciavano i rifornimenti del Golfo Persico, i rifornimenti di combustibili alla Gran Bretagna da levante per la via del Capo erano estremamente precari e del tutto insufficienti alle nostre necessità,. Dovevano quindi rifornirci dal Venezuela e dal Golfo del Messico: un continuo flusso di navi cisterna doveva svolgersi attraverso l'Atlantico; se questa vitale linea di flusso fosse stata tagliata la guerra sarebbe stata virtualmente vinta dalle potenze dell'Asse ». L'Inghilterra che negli ultimi trent'anni era riuscita progressivamente ad avere o a controllare attraverso sicuri amici, le maggiori fonti petrolifere mondiali, si trovava quindi in una situazione paradossale, molto simile a quella d'un milionario costretto a vivere d'espedienti per il blocco dei suoi fondi all'estero. Persi i pozzi dell'Estremo Oriente, caduti in mano dei giapponesi, la Gran Bretagna poteva infatti contare solo su tre bacini petroliferi. Quelli del Golfo Persico, come abbiamo visto, se potevano alimentare il fronte africano, erano troppo lontani per servire alla madrepatria. Restavano dunque soltanto i pozzi americani : quelli degli Stati Uniti e quelli del Venezuela e delle Indie Occidentali. Ma anche qui la situazione non era molto brillante. Fra i porti d'imbarco e la Gran Bretagna facevano infatti buona guardia i sommergibili dell'Asse i quali, anzi, avevano avuto ordine dai loro comandi di attaccare di preferenza le petroliere. Nella mutata situazione strategica dell'Atlantico, conseguente all'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'Asse scatenò dunque, contro il traffico del petrolio, un'azione a fondo che non fu più limitata alle acque vicine all'Europa ma si estese alle coste americane, cosi degli Stati Unitilcome del Venezuela, del Messico, delle Indie Occidentali. I risultati non si fecero attendere. Già, il 12 gennaio, ad un mese dall'attacco a Pearl Harbur, cominciarono infatti i primi affondamenti nelle acque americane e andarono via via aumentando man mano che i sommergibili dell'Asse raggiungevano il nuovo teatro delle operazioni. Le acque di Curagao, Trinitad, della Florida, Venezuela divennero quindi « il paradiso dei sommergibili », dove i sommergibili tedeschi e italiani poterono affondare numerosissime navi cisterna. Il flusso dei rifornimenti verso la Gran Bretagna cominciò così a diventare insufficente. Nel febbraio del 1942, anzi, le riserve dovettero essere gradatamente intaccate, per far fronte ai bisogni dell'industria, della marina e dell'esercito. Il 23 aprile, Churchill doveva dichiarare perciò ai Comuni che in soli sessanta giorni, sulle coste americane, l'Asse aveva distrutto più tonnellaggio di quanto non fosse riuscito a fare negli ultimi cinque mesi della battaglia dell'Atlantico. E aggiungeva: « Il tonnellaggio colato a picco e il moltiplicarsi dei sommergibili tedeschi costituiscono il maggiore motivo di ansietà, ». Fu solo più tardi che, malgrado l'afflusso di sempre nuove unità subacquee lungo le coste americane, gli alleati poterono trovare un'adeguata protezione per i loro convogli. La marina americana, che era rimasta completamente sorpresa dagli attacchi dei sommergibili si organizzò, anche con l'apporto di corvette e trawlers britannici; i suoi equipaggi presero confidenza con il nemico; nuovi mezzi d'offesa furono trovati. Le perdite cominciarono a diminuire sensibilmente. Aumentarono, di contro, gli affonda.menti di sommergibili da parte delle unità e degli aerei di scorta, che si stabilizzarono sulla media di sei-sette sommergibili ogni mese. Questo stillicidio, tuttavia, non intaccò la consistenza sottomarina dell'Asse che anzi raggiunse, alla fine del '42, il numero di 485 sommergibili, di cui 68 italiani. Contro questa imponente massa d'attacco le marine alleate avrebbero dovuto fare i conti fino alla fine del conflitto, malgrado il rivolgimento capitale della tecnica della guerra contro i sommergibili. Mentre la battaglia per il petrolio si svolgeva accanita su tre oceani, lungo le coste europee si verificavano due episodi di più limitato interesse strategico che non vanno trascurati, il primo è rappresentato dal brillante forzamento della Manica, operato da due corazzate tedesche, partite da Brest e giunte, quasi senza essere contrastate nei porti metropolitani alle foci dell'Elba e della Jade. L'importanza della fortunata impresa ha un valore storico, in quanto dimostra che se con altrettanta audacia, ma con una posta ben più grossa di un semplice trasferimento di navi da un porto all'altro, i tedeschi avessero tentato, dopo Dunkerque, l'invasione dell'Inghilterra, forse il successo avrebbe loro arriso ugualmente. Questa eccezionale azione fu resa possibile dalla completa sorpresa realizzata dalle navi germaniche. A nulla valsero quindi le batterie a lunga gittata poste sulle coste inglesi ed a nulla gli attacchi di ben 1200 aerei britannici, 63 dei quali furono abbattuti. Inoltre furono anche affondati tre cacciatorpediniere ed alcune unità minori. Il cocente scacco subito dalle forze inglesi ebbe uno strascico anche alla Camera dei Comuni dove il Premier britannico Churchill lamentò la mancanza di una efficente collaborazione tra la RAF e la Marina inglese. La seconda impresa, quella dei « commandos » britannici su Saint Nazaire, ebbe invece un valore eminentemente pratico. Dimostrò infatti che, contro le affermazioni della propaganda tedesca e contro la ferma convinzione dell'alto comando di Hitler, era possibile sbarcare, pressochè di sorpresa, sulla costa europea, eludendo la vigilanza dei difensori del cosidetto « Vallo Atlantico ». Nelle e ore in cui rimasero a S. Nazaire, i britannici non poterono danneggiare in alcun modo i bunker sotterranei dei sommergibili tedeschi principale obiettivo della loro azione in rapporto alla battaglia fra i rifornimenti. Malgrado le gravissime, perdite subite, gli inglesi acquisirono una preziosa esperienza, rinnovata poi, a prezzo di molto sangue, anche a Dieppe. Un'esperienza che nel '44 gli strateghi della grande invasione avrebbero vantaggiosamente messo a frutto sulle coste della Normandia.

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    La guerra del petrolio era cominciata, nel mondo, assai prima che fosse sparato il colpo di cannone di Danzica. Tutte la grandi potenze, infatti,
    con maggiore o minore fortuna, avevano partecipato alla lotta per l'accaparramento delle risorse petrolifere. Nel Medio Oriente la vittoria era toccata alla Gran Bretagna, che era riuscita ad escludere la Francia dai ricchissimi giacimenti persiani e arabi. Nel Venezuela si era registrato un successo americano. L'URSS era, per parte sua, riuscita a salvare i grandi campi petroliferi fra il Mar Nero e il Caspio, minacciati dopo la rivoluzione dalle pretese straniere. Gli Stati Uniti, infine, potevano contate sulle immense risorse nazionali del Texas, della Luisiana ecc. Molto grave, invece, la situazione delle potenze dell'Asse, le quali avevano a propria disposizione soltanto le limitate risorse romene, austriache e albanesi, assolutamente insufficienti ai bisogni di una guerra moderna. Nella foto in alto una veduta delle grandi raffinerie persiane di Abadan che rifornivano i teatri di guerra alleati in Europa e Africa. Nella foto in basso i campi petroliferi di Ploesti in Romania bloccati dalla Germania.

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    Gli anglo-americani, in guerra, sfruttarono particolarmente, per i loro rifornimenti, i pozzi e le raffinerie di petrolio del Medio Oriente, che per la
    loro vicinanza ai teatri d'operazione, offrivano il vantaggio di una più facile e meno dispendiosa difesa dei convogli dagli attacchi dei sottomarini
    dell'Asse tuttavia, per i bisogni del territorio metropolitano inglese, fu ritenuto vantaggioso ricorrere ai pozzi petroliferi americani. A causa del
    blocco italiano nel Mediterraneo, infatti, le petroliere avrebbero dovuto compiere, per giungere nei porti britannici, il periplo dell'Africa. Nella foto
    in alto la raffineria inglese di Fawley. Nella foto in basso i giganteschi impianti, di una raffineria statunitense in Pennsylvania.

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    Particolarmente vulnerabili dall'offesa avversaria si dimostrarono, nel secondo anno di guerra, i giacimenti petroliferi sovietici, quasi tutti accentrati
    nell'istmo caucasico, fra il Caspio e il Mar Nero. Nella loro spinta offensiva e tedeschi furono infatti sul punto di conquistare i pozzi e di raggiungere gli oleodotti che annientavano, da Batum e Baku, lo sforzo bellico sovietico. La Russia aveva il terzo posto nella produzione di petrolio nel mondo con il 7,50,% circa pari a 45 milioni di tonnellate annue. In qualche caso i russi dovettero anzi incendiare i pozzi conquistati dai tedeschi per impedirne lo sfruttamento da parte nemica. Nella foto in alto un giacimento di petrolio sovietico sulla costa del Caspio. Nella foto in basso torri petrolifere inalzate dai russi, nei pressi della costa, sul Mar Nero.

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    Le risorse petrolifere del blocco antitedesco erano pressochè inesauribili. Infatti, anche se fossero stati neutralizzati quelli del Medio Oriente, restavano sempre nelle mani degli anglo-americani i giacimenti degli Stati Uniti e dei paesi del Centro America. Questi ultimi, intensamente sfruttati, contribuirono non poco allo sforzo bellico. Particolarmente notevole la produzione venezuelana pari al 16 % con 90 milioni di tonnellate annue, tutta saldamente controllata dagli americani. Anche le Indie occidentali olandesi disponevano di importanti giacimenti, più tardi occupati dai giapponesi., Nella foto in alto i pozzi sottomarini venezuelani, nella laguna di Maracaibo. Nella foto in basso petroliere inglesi della Shell sotto carico.

    Sommergibili contro petroliere

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    Pur potendo contare su gigantesche risorse petrolifere in tutto il mondo, gli anglo-americani avevano anch'essi un « tallone d'Achille », contro il quale
    ben presto si accani l'Asse. Inglesi e americani erano infatti costretti, per avviare i rifornimenti ai teatri d'operazione, a far muovere le loro navi
    petrolifere in mari controllati dai sommergibili italo-tedeschi. Se dunque il nemico fosse riuscito a neutralizzare questo traffico, essi si sarebbero trovati ben presto in crisi, senza nemmeno la possibilità, di tentare la strada dell'autarchia, intrapresa con buoni risultati dagli italo-tedeschi. I sommergibili ebbero quindi l'ordine, nell'inverno del 1941, di dedicarsi, con assoluta precedenza su ogni altro compito, alla caccia delle petroliere. Nelle foto le due fasi drammatiche di un attacco in pieno oceano: emersione e avvistamento del nemico.

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    Una veduta delle grandi raffinerie del New Jersey, negli Stati Uniti. Grazie all'apporto della loro produzione petrolifera, gli Stati Uniti furono il
    solo paese belligerante che, dopo qualche restrizione iniziale, potè lasciare completamente libero il consumo privato di benzina e assegnare alla
    industria civile grossi quantitativi di combustibile. Difatti gli Stati Uniti detengono il primato della produzione mondiale, del petrolio con il 52% circa
    equivalente alla produzione di oltre trecento milioni di tonnellate annue.

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    L'Asse, che, come abbiamo visto, era escluso quasi completamente dal godimento delle riserve mondiali di petrolio, dovette ben presto ricorrere a drastiche misure per impedire la paralisi della sua gigantesca macchina di guerra, giacchè la Germania poteva disporre solo del 0,22 % della produzione mondiale pari ad appena un milione e 300.000 tonnellate annue. I consumi civili furono ridotti a zero, i pozzi petroliferi furono potenziati al massimo, e fu anche iniziata la fabbricazione della benzina sintetica. I tedeschi, infatti, avevano scoperto un procedimento in base al quale era possibile estrarre una forte percentuale di benzina attraverso la distillazione del carbon fossile. In Italia, invece, si ricorse sempre più al metano della Valle Padana e al gassogeno. Nella foto in uno stabilimento chimico tedesco si esperimenta la distillazione della benzina dal carbone.

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    Nella lotta contro i convogli anglo-americani, i sommergibili italo-tedeschi si spinsero, dopo 1'11 dicembre 1941, tiri sulle poste americane dell'Atlantico, dove realizzarono importantissimi successi. Gli americani, infatti, non erano ancora riusciti ad apprestare una difesa efficente nemmeno nelle acque di casa. Quando poi cercarono di raggruppare le loro navi, i danni furono ancor più gravi, in quanto gli agguerriti e allenati sommergibili dell'Asse furono facilitati nella scelta dei bersagli. Avvenne cosi, in poche settimane, una vera ecatombe di piroscafi e in particolare di petroliere., Nelle foto un fumo denso sul mare è quanto resta dell'immane rogo di alcune petroliere silurate.

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    Tutti i mezzi sono buoni per diminuire il numero delle petroliere nemiche, per disseccare la fonte alla quale si abbeverano gli eserciti anglo-americani. Si attacca come si può e dove si può, col cannone e col siluro. Nella foto in alto un sommergibile italiano ha dato alla petroliera sorpresa nell'Atlantico il colpo di grazia. Nella foto in basso un sommergibile italiano spara con i suoi cannoni contro un'unità nemica. La petroliera, già immobilizzata dal tiro, affonderà, in pochi minuti. Da notare, in primo piano, i bossoli dei colpi sparati.
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    L'opera dell'aviazione

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    Anche nel Mediterraneo si sviluppò la guerra del petrolio. Ad ogni tentativo britannico di rifornire del prezioso elemento la base di Malta o di trasferire per mare verso il fronte libico qualche carico di petrolio, l'aviazione e la marina italiana realizzarono brillanti successi. Nella foto in alto una nave britannica, centrata in pieno da un « S 79 » della nostra aeronautica. Nella foto in basso volo di ricognizione dopo l'attacco. Il mare è seminato di relitti. Al centro una petroliera si è trasformata nel cratere di un effimero vulcano sottomarino.

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    I successi della marina italiana nel Mediterraneo: il cimitero di navi inglesi nella baia di Suda, come apparve alle nostre truppe dopo l'occupazione dell'isola. Suda era stata visitata, oltre che dai mezzi d'assalto della Decima Mas, anche dall'aviazione.

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    I risultati dell'offensiva contro le petroliere cominciano a farsi sentire. Il ritmo degli affondamenti ha assottigliato il numero di navi a disposizione
    degli alleati che debbono cominciare ad imbarcare benzina in fusti sui mercantili di ogni tipo. Diventa utile, in simili ristrettezze, anche la grande
    baleniera « Kosmos » della marina norvegese, affondata da un U-Boot nei suoi capaci depositi l'olio minerale prende il posto dell'olio di balena.
    In basso il dramma di un convoglio, ben quattro petroliere sono state centrate dai sommergibili e dagli aerei nei pressi della costa inglese.

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    L'aviazione italiana colpì il traffico petrolifero britannico oltre che con gli aerosiluranti anche con frequenti bombardamenti sulle raffinerie palestinesi, in particolar modo sul centro petrolifero di Caifa. Ma azioni di ben più alto rilievo furono compiute dalle squadriglie di « 8.79 » al comando del famoso pilota Ettore Muti, già distintosi durante il conflitto spagnolo. Infatti Muti, partendo da Rodi, colpi ripetutamente i centri petroliferi del Golfo Persico, tra i quali Aden e le isole Barhein, compiendo lunghissimi voli che, per se stessi, rappresentavano un'impresa di altissimo valore. L'efficacia dei bombardamenti sulle isole Barhein è stata ricordata dagli operai italiani delle raffinerie persiane che, dopo la fine della guerra, dedicarono all'Eroe la loro Cooperativa. Nelle foto in alto le raffinerie di Caifa sotto il tiro degli « 8.79 ». In basso a sinistra un aereo della squadriglia Muti partecipante all'incursione sul Golfo Persico. A destra il maggiore pilota Ettore Muti, decorato di Medaglia d'Oro al V.M., di 11 medaglie d'argento, 4 di bronzo oltre a numerose Croci di Guerra italiane e 2 Croci di Ferro germaniche.

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    Anche la marina nipponica condusse un'aspra guerra di corsa contro le petroliere anglo-americane che dal Golfo Persico e dall'Oceano Indiano rifornivano di combustibili i fronti europei e del Pacifico. Il Giappone che non disponeva di risorse petrolifere, occupò nel 1942 le isole di Sumatra
    e del Borneo che, disponevano di alcuni pozzi, la cui produzione si aggirava all'incirca sull'1,20 % della produzione mondiale. Nella foto in alto il
    sommergibile giapponese « 171 », che affondò numerose petroliere nell'Oceano Indiano. Al centro il piroscafo nipponico « Yamazuki Maru », munito
    di doppifondi per il rifornimento clandestino di nafta. Infatti i trasporti giapponesi avevano ordine di rifornirsi di combustibile nei porti esteri
    di modo che, al ritorno in Patria, la nafta in eccedenza serviva a costituire preziose scorte, essendo il Giappone notoriamente privo, come l'Italia,
    di qualsiasi risorsa petrolifera. In basso gli incrociatori « Aoba » e « Kinugasa » che parteciparono attivamente alla guerra di corsa nell'Oceano Indiano.

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    Tragedia in due tempi sul mare. Le navi tedesche che incrociano nel Mare del Nord hanno intercettato un convoglio alleato di petroliere dirette in
    .Inghilterra. Un breve calcolo al telemetro, un ordine secco. « Fuoco ! ». Nel buio della notte la vampa del colpo in partenza illumina la nave. Pochi
    attimi di attesa e poi, in lontananza, il bagliore allucinante della petroliera nemica che esplode.

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    Il 23 aprile 1942, riferendo sull'andamento della lotta al traffico, Churchill dovette riconoscere alla Camera dei Comuni che il « tonnellaggio colato a picco e il moltiplicarsi dei sommergibili tedeschi costituiscono il maggiore motivo di ansietà ». Solo in marzo, infatti, risultavano affondate in Atlantico ben 118 navi, per un totale di oltre seicentomila tonnellate. La gravità del pericolo indusse gli anglo-americani a dedicare i massimi sforzi alla protezione del traffico. I convogli furono innanzitutto resi obbligatori per tutte le navi, anche nei viaggi costieri lungo la riva americana dell'Atlantico. Successivamente ad essi, oltre ai cacciatorpedinieri (che scarseggiavano) furono assegnati nuclei di naviglio minore, particolarmente armati per la lotta antisommergibile e molti aerei. I sommergibili dovettero rinunciare ai facili successi iniziali sotto le coste americane e tornare sulle rotte atlantiche, particolarmente fra le Azzorre e l'Inghilterra e l'Islanda e lungo la rotta artica. Nella foto in alto a sinistra: un sommergibile oceanico italiano, individuato da un aereo britannico, cerca di sfuggire alle bombe da cui è bersagliato. Nella foto al centro a sinistra un sommergibile tedesco, centrato in pieno, affonda, mentre l'equipaggio cerca di salvarsi. In basso a sinistra un cacciatorpediniere britannico di scorta a un convoglio lancia bombe di profondità contro un sommergibile nemico segnalato dagli idrofoni di bordo. Nelle due foto di destra la fine di un sommergibile individuato da un aereo e fatto oggetto di intenso bombardamento.

    La reazione alleata

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    Malgrado l'accanita controffensiva aero navale anglo-americana contro i sommergibili operanti nell'Atlantico, malgrado le nuove armi e i nuovi mezzi messi in campo (tra breve sarebbe comparso anche il radar), malgrado l'aggiornamento della tecnica dei convogli, la minaccia sottomarina dell'Asse non potè essere neutralizzata. Ciò dipendeva dal grande programma di costruzione dei cantieri tedeschi che misero la marina germanica in condizione di aumentare progressivamente il numero di unità operanti nell'Atlantico. Basti pensare che, solo nel 1942, poterono aggiungersi alla flotta ben 306 sommergibili nuovi. Nella foto in alto un sommergibile tedesco in difficoltà, sotto il mitragliamento nemico. Si scorgono, nei pressi della torretta, i serventi del pezzo prodiero che cercano di guadagnare il boccaporto. Il sommergibile tenterà l'immersione per mettersi fuori tiro, ma non riuscirà nel suo intento. Nella foto in basso una vasta chiazza di olio testimonia della fine dell'audace corsaro.

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    Saint Nazaire, in Francia. In questo porto, situato alla foce della Loira, i tedeschi avevano attrezzato la loro più grande base sottomarina, dotata di rifugi sotterranei, nei quali le unità reduci dall'Atlantico potevano sostare per le riparazioni e i rifornimenti, al sicuro da ogni attacco aereo. Il porto disponeva inoltre dell'unico bacino della costa atlantica francese, capace di accogliere per i lavori la grande corazzata tedesca « Tirpitz », che era diventata in quel periodo, per le sue rapide puntate contro il traffico dei convogli, lo spauracchio dell'Ammiragliato britannico. Ben si comprende quindi il perchè del colpo di mano deciso dagli inglesi contro la base ed effettuato il 28 marzo 1942. Nelle foto di sinistra, dall'alto in basso un U-Boot, reduce da una lunga missione di guerra, entra in uno dei bacini sotterranei a prova di bomba del porto di S. Nazaire, accolto festosamente dal personale della base. In basso l'Ammiraglio Raeder, in visita alle istallazioni portuali. Nella foto di destra un sommergibile ai lavori, nelle ridotte sotterranee.

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    28 marzo 1942. I commandos britannici attaccarono Saint Nazaire, tentando di distruggere di sorpresa le istallazioni della base. Tre cacciatorpediniere camuffati, due motocannoniere e sedici mas, con a bordo trecento uomini da lungo tempo addestrati per quello specifico compito, riuscirono ad avvicinarsi al porto inosservati, durante la notte, mentre un forte bombardamento aereo distraeva l'attenzione delle vedette tedesche. Senonchè nella fase finale, malgrado l'inganno di un falso segnale di riconoscimento lanciato dalle unità britanniche, i tedeschi compresero di trovarsi in presenza di una formazione nemica e aprirono il fuoco, con notevoli effetti. Ciò non impedì ai britannici di sbarcare nuclei di commandos che danneggiarono il bacino del « Normandie » e qualche altro obiettivo portuale. Non fu però raggiunto l'obiettivo principale la base dei sommergibili. Tre ore dopo l'attacco, i supersiti inglesi dovettero lasciare il suolo francese, non potendo reggere al forte contrattacco tedesco. Le loro perdite furono gravissime, solo tre mas poterono infatti riguadagnare la costa britannica, mentre restarono in mano ai tedeschi 225 prigionieri. Nella foto in alto caduti britannici nel bacino portuale di S. Nazaire. Nella foto in basso un gesto cavalleresco dei germanici. I prigionieri britannici sfilano dinanzi alle salme dei loro compagni caduti, avvolte dall'« Union Jack », mentre un picchetto tedesco rende servizio d'onore.
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    Sulle rotte artiche

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    La marina germanica colpì duramente i convogli britannici che, attraverso il Mar Glaciale Artico, trasportavano rifornimenti in Russia. I convogli
    furono attaccati con aerosiluranti ed unità di superficie che partivano dai fiordi della Norvegia settentrionale. Nelle foto è documentata l'asprezza
    del clima in prossimità del Circolo Polare. In alto a sinistra la torretta di un sommergibile tedesco coperta di ghiaccio. In basso a sinistra un
    sommergibile tedesco rientra nel porto di Tromso. A destra due aspetti di un incrociatore germanico in navigazione nel Mare del Nord.

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    La rigidezza del clima nei mari del Nord causò paurose perdite agli equipaggi britannici. Infatti gli uomini delle navi affondate dagli aerei e dai
    sommergibili tedeschi potevano sopravvivere non più di qualche secondo nelle gelide acque polari. La rotta Inghilterra-Murmausk quindi fu considerata, durante tutto il conflitto, come una delle più aspre del mondo. Nella foto in alto un convoglio inglese in navigazione nell'Artico. In basso grossi calibri poppieri di una corazzata germanica alla fonda nel fiord di Trondheims..

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    14 febbraio 1942. Goebbels riunisce al ministero della propaganda i giornalisti stranieri per dar loro una sensazionale notizia: una grossa formazione navale germanica, costituita dalle corazzate « Gneisenau », « Scharnhorst », dall'incrociatore « Prinz Eugen », scortate da diecine di unità minori, avevano potuto lasciare il porto di Brest, ove si trovavano in riparazione, entrare nel canale della Manica in pieno giorno, ed uscirne senza danni di sorta per entrare infine nei loro porti alle foci dell'Elba. Il colpo era veramente grosso, soprattutto per i suoi effetti psicologici. Mai, infatti, prima d'allora, la marina britannica aveva dovuto subire, senza reazione alcuna, una cosi cocente umiliazione nelle sue acque di casa. E mai una così grande formazione navale nemica si era tanto avvicinata al suolo di Albione, attraversando con una sfida temeraria le infide acque della Manica, e uscendone per giunta senza il minino danno. Cos'era accaduto? Le tre corazzate, che fin dal marzo 1941, dopo una crociera nell'Atlantico, avevano approdato a Brest, erano state per parecchio tempo un pericolo incombente sul traffico anglo-americano. Col passar del tempo, però, la loro situazione si era fatta critica. Brest era troppo vicina alle basi britanniche e quindi le navi potevano essere facilmente colpite e immobilizzate. La « Gneisenau », anzi, era stata ripetutamente colpita ed aveva dovuto effettuare lunghe e difficoltose riparazioni. Occorreva dunque riportare le tre unità nel Mare del Nord, per metterle al sicuro in Norvegia. Fra le due vie possibili (quella del periplo attorno alla Gran Bretagna o l'Islanda e quella della Manica) fu scelta la più breve che era anche la più pericolosa. Ma tutto andò nel migliore dei modi. Contro ogni previsione, la formazione navale potè uscire dal porto di Brest senza che nulla trapelasse. Il primo tratto del viaggio fu percorso di notte. Durante tutta la mattinata non fu segnalato alcun aereo britannico. Solo alle undici del mattino, quando già le navi tedesche erano all'altezza di Dover, vi fu il primo avvistamento. Gli aviatori britannici quasi non credevano ai propri occhi. Ma anche allora la fortuna continuò a proteggere i tedeschi. Nessuno dei 1200 apparecchi che per tutta la giornata martellarono la formazione, riuscì a mettere a segno una bomba. E così tre corazzate, otto cacciatorpediniere e sedici motosiluranti poterono orgogliosamente sfilare di fronte alle bianche scogliere di Dover, che anzi fecero segno di qualche simbolico colpo di cannone. Solo più tardi quando già erano nei pressi dei loro porti metropolitani, la « Gneisenau », e la « Scharnhorst » corsero un brutto rischio, incappate in un campo minato urtarono contro due mine che fortunatamente non le danneggiarono seriamente. A mezzogiorno del 13 febbraio anche l'ultima nave aveva raggiunto l'estuario dell'Elba. La « Home Fleet » era mancata all'appuntamento. Nelle foto in alto la formazione navale tedesca in navigazione nella Manica. In testa un caccia, dietro alla capofila le unità maggiori, all'esterno altri caccia e mas della cintura di protezione. Nella foto 2 in alto la « Schamhorst » apre il fuoco. In basso la eccezionale impresa delle navi tedesche in un grafico della propaganda di guerra.

    Fronte interno e antifronte

    Oggi tutti conoscono i motivi più o meno reconditi del crollo doloroso legato all'infausta data dell'8 settembre 1943 e del quale l'Italia sopporta e sopporterà per lungo tempo ancora, le conseguenze morali e materiali. Tutti sanno come la predicazione propagandistica nemica abbia fatto breccia nell'animo degli italiani, come lo spirito pubblico si sia lasciato deprimere a dismisura dall'andamento non felice delle operazioni militari, come traditori e rinnegati abbiano sabotato lo sforzo bellico e la volontà di resistenza della parte migliore del nostro popolo. Sanno, infine, con quanta ingenuità una notevole percentuale della nostra opinione pubblica abbia creduto, magari in perfetta buona fede alle bugiarde promesse delle radio anglo-americane che assicuravano di non combattere contro gli Italiani, loro fratelli ed amici, ma contro la cricca fascista che li opprimeva. Sarebbe tuttavia ingiusto ricordare soltanto queste pagine tristi della nostra storia recente, senza accennare alla eroica fermezza con cui, per tre lunghi e difficili anni, il nostro fronte interno resse all'ardua prova. Se infatti vi sono stati i traditori, i sabotatori, i disfattisti, vi sono stati anche, e in numero ben più grande, italiani degnissimi che hanno lavorato, lottato e sofferto in silenzio, senza mai cedere. Italiani che con il loro comportamento riscattano le miserie morali dei degenerati, sempre pronti a trovare una giustificazione alla loro vigliaccheria e a compiacere un padrone straniero con quella che Vittoria Emanuele Orlando, definì « cupidigia di servilismo ». Del resto, dire come oggi afferma certa propaganda, che gli italiani non sentivano la guerra, significa ripetere uno stupido luogo comune. Nessun popolo, in nessun caso, ha mai voluto la guerra. Gli italiani del '40 non facevano eccezione a questa regola, ma tuttavia erano, nella loro maggioranza intenzionati a farsi onore. Le classi più giovani, nel loro generoso entusiasmo erano decisamente favorevoli al conflitto. Fu, se mai, grave errore della propaganda fascista l'aver parlato di guerra « fascista », cioè di aver politicizzato un conflitto che invece rappresentava un'occasione per risolvere di un colpo i problemi mediterranei del nostro paese e di conquistare il famoso « posto al sole » per la nostra crescente massa demografica. Di questo errore approfittarono gli inglesi quando, attraverso Radio-Londra e i suoi amici Italiani cominciarono la grande operazione che avrebbe dovuto scavare un fosso invalicabile fra la classe dirigente fascista e le masse popolari. Questa propaganda ottenne i suoi primi, importanti risultati fra le classi medie e tra la borghesia. Il suo tono pseudo-intellettualistico, del resto, era fatto proprio per fare breccia tra i rivoluzionari da caffè, tra gli scontenti di professione, tra i « furbi » di tutte le tinte, per sfruttare l'indubbia stanchezza che vi era in determinati strati del popolo per gli aspetti opprimenti e deteriori di certo fascismo. I lavoratori resistevano di più. Il proletariato italiano, che si ama definire privo di radicati sentimenti nazionali, che si ritiene immaturo e incerto, aveva capito quello che le classi dirigenti non avevano voluto intendere. Che cioè, si stava combattendo non una guerra « fascista » ma una guerra italiana. E se i borghesi erano rimasti scandalizzati da una propaganda che parlava brutalmente di petrolio, di carbone, di terra da conquistare, il popolo questo linguaggio lo aveva capito e assimilato. Sapeva infatti che la sua miseria antica era solo in minima parte dovuta alla disarmonia del nostro sistema sociale e in gran parte, invece, all'ingiusta distribuzione delle ricchezze del mondo. Che
    la guerra, in ultima analisi, era un tentativo, anche se arduo e rischioso, per toglierlo da una secolare condizione di inferiorità. A dieci anni dalla fine della guerra e con la dura esperienza che ne è seguita per il popolo italiano, questa è una verità che sarebbe disonesto non ammettere. Così, mentre nei comandi, negli uffici, negli ambulatori ministeriali, nelle direzioni delle aziende, fioriva la mala pianta del disfattismo, dello spionaggio, del sabotaggio e del tradimento, il popolo italiano lavorava, combatteva. Napoli meridionale città proletaria, diede la prova più alta dello spirito popolare, resistendo impavida, senza un lamento, all'offensiva aerea nemica, scatenata anche nella persuasione che i vituperati « mandolinisti » partenopei non avrebbero retto ad una prova che aveva messo in difficoltà gli stessi flemmatici londinesi. Fu solo nel febbraio del '43, quando già il disfattismo aveva guadagnato proseliti nella stessa cerchia dei fedelissimi di Mussolini, che gli operai cominciarono a cedere, invischiati essi stessi dalla propaganda nemica. Si verificarono i primi scioperi di Torino, che se avevano come pretesto la situazione di disagio degli operai per il dilagare dell'accaparramento e della borsa nera, recavano già in se i germi politici che sarebbero esplosi nelle manifestazioni antifasciste e pacifiste dopo il colpo di stato del luglio 1943. Radio-Londra fu elemento determinante del nostro cedimento interno.

    Il fronte dell'industria

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    L'industria italiana contribuì potentemente allo sforzo bellico della Nazione, cercando di ovviare alla relativa limitatezza dei mezzi con un più intenso
    ritmo di produzione e con lo sfruttamento intensivo delle proprie risorse tecniche. I risultati non mancarono, anche se la penuria di alcune materie
    prime creò ai nostri dirigenti problemi di difficile soluzione. Nella foto in alto una veduta delle acciaierie di Cornigliano. Nella foto in basso un lingotto d'acciaio sui laminatoi di Terni.

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    La nostra situazione nel campo delle artiglierie non si presentava molto brillante, nel 1940. Due guerre avevano infatti logorato il materiale dell'esercito che risaliva per giunta, per oltre la metà, al primo conflitto. Gli arsenali furono quindi chiamati ad uno sforzo intensissimo per rinnovare i parchi d'artiglieria. Nel 1941 entrarono in servizio i nuovi pezzi da 75/18, da 149/40 e da 210/22 che si dimostrarono all'altezza dei migliori tipi stranieri. La fabbrica che produsse il maggior numero di cannoni per il nostro esercito fu l'Ansaldo, che già nel 1917 aveva reso possibile la riscossa del Piave, consegnando a Diaz le armi per sostituire quelle perdute nella ritirata. Nella foto in alto una veduta della fabbrica di cannoni Ansaldo. Nella foto in basso il reparto di una grande fabbrica d'armi italiana ove si costruivano armi leggere per la fanteria.

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    La marina da guerra era, fra tutte le armi, quella che s'era presentata nel conflitto nelle migliori condizioni di armamento e di preparazione. Allineavamo infatti sei corazzate, ventinove incrociatori, cinquantanove caccia, centoquindici sommergibili, sessantacinque mas e centocinquantasette navi ausiliarie. Pur tenendo conto della potenza della flotta nemica, avevamo, insomma, la possibilità di farci valere nel Mediterraneo e di proteggere adeguatamente i nostri convogli oltremare. Nel 1940, però, non tutto il programma di armamenti della flotta era stato completato. Erano ancora sugli scali alcuni incrociatori leggeri e le corazzate tipo « Littorio» si trovavano in allestimento. In allestimento era pure la portaerei « Aquila » che però non sarebbe mai entrata in servizio. Nei cantieri di Monfalcone infine, erano in costruzione numerosi sommergibili di tipo oceanico, destinati a rimpiazzare le inevitabili dolorose perdite della guerra. Il programma di costruzioni navali fu dunque portato avanti, pur in mezzo a grandi difficoltà, per il massimo potenziamento della flotta. Nella foto in alto a sinistra un incrociatore del tipo da 5000 ton. prima del varo. In basso a sinistra i transatlantici furono trasformati in trasporti di truppe. In alto a destra al Silurificio Withehead di Fiume si lavora per la messa a punto dei micidiali mezzi di guerra. In basso a destra la corazzata « Impero » sullo scalo nell'imminenza del varo.

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    Nel luglio 1941 il primo aereo a reazione che abbia mai volato nel mondo compi il percorso Milano-Roma. Si trattava di una realizzazione esclusivamente italiana che apriva una nuova era nello sviluppo della navigazione aerea civile e di guerra. Progettista l'ing. Secondo Campini, costruttore l'ing. Caproni nelle sue famose officine, collaudatore e pilota l'asso Mario de Bernardi. Ma come molte altre conquiste del genio italiano anche l'aereo a reazione fini in quel prototipo. Solo l'alleato tedesco capi l'importanza dell'invenzione e realizzò un tipo di aereo da caccia nelle officine Messerschmitt che faceva mirabilia nei cieli della Germania contro l'aviazione americana nell'ultimo periodo della guerra. L'invenzione italiana e l'esperienza tedesca vennero raccolte dagli inglesi prima e successivamente dagli americani con i risultati a tutti noti per cui si può leggittimamente affermare che anche questa nuova conquista dell'aria, cosi come la maggior parte delle conquiste dell'umanità, è frutto del genio italiano.

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    Nel 1940 la nostra aeronautica disponeva di circa tremilacinquecento apparecchi, di tipo ormai sorpassato e di seicento aerei di tipo modernissimo.
    Milletrecento erano gli apparecchi da bombardamento e quasi altrettanti quelli da caccia. I progressi del nemico costrinsero la nostra industria a
    rinnovare rapidamente i tipi in dotazione, soprattutto per quanto riguardava la caccia, mentre le necessità di effettuare bombardamenti a grandi
    distanze consigliò la progettazione e la costruzione di quadrimotori in sostituzione dei trimotori e dei bimotori. La produzione, che era di circa trecento apparecchi al mese nel 1940, fu raddoppiata, ma proprio nel momento più critico della guerra, nel 1943, la nostra industria risenti le conseguenze dei bombardamenti nemici e non potè più nemmeno rimpiazzare le perdite. Nella foto il lavoro in una fabbrica di motori da aviazione. Anche in piena guerra i nostri motori, che erano assai pregiati, furono esportati all'estero in notevoli quantità. Furono esportate anche, incredibile ma vero! alcune centinaia di apparecchi, specialmente da caccia. Acquirenti la Svezia, la Bulgaria, l'Ungheria, la Romania e la Spagna.
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    Gli orti di guerra

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    Gli orti di guerra a Roma. L'Italia, tributaria dell'estero per molti prodotti agricoli, dovette mettere a coltura, tutta la terra disponibile, intensificando
    al massimo la cosidetta « battaglia del grano». Venne quindi deciso di coltivare anche le aree fabbricabili nelle città e di trasformare i giardini in
    orti e campi di frumento. Nella loto in alto i giardini del Foro Romano trasformati in campi di grano. Da notare. sullo sfondo, la Colonna Traiana
    rivestita dall'impalcatura di protezione. In basso il raccolto di un orto di guerra della Capitale.

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    Alla coltivazione degli orti di guerra provvedevano gli stessi cittadini o i giovani delle organizzazioni del P.N.F. Nessun particolare recinto li chiudeva:
    essi erano affidati al rispetto dei cittadini. In alto a sinistra si miete nei pressi dell'Altare della Patria a Roma. Al centro a sinistra la tessera che
    dava diritto alla razione di tabacchi. In Italia, ove nel periodo prebellico si importavano forti quantitativi di tabacco, fu intensificata la coltivazione di
    questa importane pianta. In basso a sinistra cittadini e militi coltivano un campo di patate a Firenze, In alto a destra un orto di guerra a Roma. In
    basso a destra in piazza del Duomo a Milano, si trebbia il grano degli orti di guerra cittadini.

    Fronte dell'autarchia

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    La gravissima penuria di combustibili liquidi costrinse le autorità a ridurre drasticamente, fin dai primissimi mesi di guerra, i consumi civili.
    Il problema dei trasporti venne risolto grazie alle cosiddette « risorse autarchiche », cioè facendo ricorso all'abilità dei tecnici ed anche alla fantasia del popolo. Ad un tecnico di valore, l'ing. Ferraguti, si deve, appunto, l'applicazione del gassogeno alle automobili: un'invenzione che rese possibile la circolazione ad un notevolissimo numero di macchine e un risparmio di benzina e di nafta valutabile a molte centinaia di migliaia di tonnellate. Alla intramontabile arte d'arrangiarsi del nostro popolo, invece, si deve la comparsa nelle grandi città del « ciclotaxi ». Nelle foto in alto il gassogeno a carbonella applicato ad una macchina e ad un trattore. Nella foto in basso un ciclotaxi a tandem.

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    Cominciano le requisizioni. E' la volta delle gomme d'automobile che devono essere consegnate ai comandi del Corpo automobilistico. L'esercito potrà così incrementare la motorizzazione e affrontare con maggiore sicurezza i duri compiti che lo attendono. Anche la nostra industria aveva però iniziato la produzione di gomma sintetica, limitata a quantitativi modesti dalla scarsità di alcune materie prime fondamentali.

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    La requisizione delle cancellate metalliche. Questo drastico provvedimento, reso necessario dal rapido diminuire delle scorte di minerali ferrosi, fu dolorosamente sentito dalla popolazione che assistè in pochi giorni alla demolizione di migliaia di recinti. Furono però risparmiate le cancellate di interesse storico e artistico e quelle delle chiese e dei luoghi sacri. Purtroppo il sacrificio fu inutile, poichè in buona parte il materiale rimase ad arruginire nei depositi senza poter essere utilizzato negli altiforni.
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    L'abnegazione delle donne

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    Le donne sostituiscono gli uomini alle armi. In Italia non venne mai proclamata la mobilitazione generale ma il richiamo di numerose classi ebbe
    notevoli ripercussioni sulla disponibilità di mano d'opera soprattutto nelle industrie. Furono quindi immesse al lavoro le donne che sostituirono
    gli uomini in numerose attività. In alto a destra un gruppo di postine esce per la quotidiana distribuzione. Al centro a destra donne al lavoro in una
    industria di guerra. In basso a destra folle di aspiranti operaie all'ufficio del lavoro. In alto a sinistra il controllore delle ferrovie si è fatto... la permanente. In basso a sinistra anche sui tram per il rituale avanti c'è posto, un dolce sorriso.

    Protezione e...razionamento

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    All'inizio della guerra la protezione delle opere d'arte dagli attacchi aerei diede alla nostra sovrintendenza ai monumenti grossi problemi da risolvere. Le statue e i dipinti delle gallerie furono asportati e messi in luoghi sicuri. I fregi, i mosaici, gli affreschi di maggior valore furono invece protetti con impalcature di legno o sepolti da sacchetti

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    Anche in Italia, come in Inghilterra e in Germania, nei primi mesi di guerra vi fu la psicosi dei gas. Il convincimento che il nemico avrebbe usato quest'arma micidiale era stato istillato nella popolazione dalla propaganda. Le autorità, fra il 1935 e il 1940, s'erano infatti preoccupate di istruire con ogni mezzo i civili sul modo di comportarsi in caso di aggressione chimica. Ma poi le cose andarono diversamente e ben presto le maschere antigas, acquistate a migliaia, finirono in soffitta fra le cianfrusaglie.

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    L'oscuramento anche per le automobili.
    Un decreto governativo, dopo aver obbligato i cittadini ad oscurare le proprie abitazioni, dispose che le automobili dovessero circolare con i fari schermati.
    Vennero quindi applicati ai fanali degli schermi con una piccola apertura.

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    Un ricovero antiaereo a Roma. Somme ingentissime furono spese dal governo per apprestare in ogni città rifugi che consentissero la protezione della popolazione civile dalle incursioni nemiche. Ove era stato possibile, s'era scavato alla base delle colline o si erano utilizzate le gallerie esistenti. Nella maggior parte dei casi, però, si era dovuti ripiegare sugli scantinati dei palazzi più robusti, opportunamente rinforzati con armature di legno o di ferro. Questi ricoveri, quasi sempre, risposero allo scopo. Solo nell'ultimo periodo di guerra l'uso di bombe ad alto potenziale rese drammatica la situazione.

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    La più accanita battaglia del fronte interno fu quella contro gli accaparratori e i profittatori di guerra. Il rigido tesseramento di tutti i generi alimentari aveva provocato infatti il fenomeno del « mercato nero » ove era possibile acquistare, a prezzi sensibilmente maggiorati, ogni genere di provviste. Il mercato nero, che sottraeva i viveri alla parte più povera della popolazione e provocava il rialzo artificiale dei prezzi, fu considerato dal governo alla stessa stregua del tradimento. Per i casi più gravi, in luogo dei tribunali ordinari, venne chiamato a giudicare questo particolare tipo di reato il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che comminò pene severissime. Nella foto un manifesto affisso alle cantonate annuncia la condanna di un gruppo di accaparratori.

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    Per il soccorso alle popolazioni civili colpite dalle incursioni aeree era stata istituita dal governo 1'UNPA, cioè l'Unione Nazionale Protezione Antiaerea. L'UNPA, composta da personale volontario e da mobilitati civili, disponeva di nuclei mobili, facenti capo ai centri provinciali e comunali, che intervenivano per il salvataggio dei sinistrati, per la rimozione delle macerie e per appoggiare l'opera dei Vigili del Fuoco nello spegnimento degli incendi. All'UNPA facevano capo anche i nuclei di vigilanza costituiti in ogni palazzo e in ogni isolato e diretti dai « capofabbricato ». Questi ultimi avevano soprattutto il compito di provvedere alla manutenzione dei ricoveri, all'ordine pubblico negli stessi e al rispetto delle norme preventive. In alto a sinistra un furgoncino dell'UNPA. Al centro a sinistra una squadra dell'UNPA al Giardino Zoologico di Roma durante un allarme. In basso a sinistra l'UNPA durante un'esercitazione. In alto a destra un gruppo di infermiere dell'organizzazione. In basso a destra pronto intervento dopo un'incursione aerea. Il salvataggio di un ferito estratto dalle macerie.

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    Il fronte dell'amore. La sposina ha dovuto rinunciare al tradizionale corteo di automobili e raggiungere la chiesa ove pronuncerà il « si » fatale su
    un prosaico tram. Non ha però rinunciato all'abito bianco e al velo con i fiori d'arancio. Il suo sorriso dimostra che l'amore può filare nel migliore
    dei modi anche sulle rotaie di un carrozzone tramviario.

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    Questo carabiniere di un battaglione mobilitato in Grecia sta per sposarsi. Si tratta di nozze per procura, secondo la moda del tempo, e il fidanzato
    attende dinnanzi alla radio che la sposina, a un migliaio di chilometri di distanza, pronunci il suo « si ».

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    L'assistenza ai feriti a Roma. Un gruppo di soldati convalescenti viene condotto in visita ai monumenti della città a bordo di una delle carrozze del Quirinale.

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    Piazza del Duomo è deserta. Da pochi minuti è suonato
    l'allarme e i passanti, abbandonate precipitosamente biciclette e tricicli, si sono rifugiati nel grande ricovero sotterraneo. Piazza del Duomo sarà gravemente colpita nei furibondi bombardamenti dell'agosto 1943 che danneggeranno anche la chiesa e la galleria.

    La propaganda di guerra italiana nei cartelloni. In alto a sinistra un cartellone antiamericano di Boccasile, che ebbe larga diffusione. Illustrava le conseguenze degli attacchi indiscriminati del « Liberatore » sulle città aperte e le conseguenze del lancio di « matite esplosive » fra i bimbi. In alto a destra un manifesto di propaganda antibritannica. In basso a sinistra in tutti i locali pubblici, sui treni, negli usci e fin sulle scatole dei fiammiferi comparve il monito « Taci, il nemico ti ascolta ». Il popolo lo ascoltò, ma lo stesso non avvenne negli ambienti disfattisti. In basso a destra il grande tabellone innalzato a Piazza Colonna a Roma perchè la popolazione potesse seguire l'andamento delle operazioni militari.
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    Cinema in guerra

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    Anche la cinematografia italiana diede il suo contributo alla propaganda di guerra. Dagli studi di Cinecittà uscirono numerosi film che esaltavano lo sforzo bellico della nazione e l'eroismo dei suoi soldati. Talvolta retorici, i film di guerra italiani raggiunsero in molti casi un elevato valore artistico. Vanno ricordati, tra gli altri, « Alfa Tau », dedicato ai sommergibilisti; «. La nave bianca », illustrante la guerra sul mare; « Un pilota ritorna », di ambiente aeronautico; « Giarabub », dedicato alle imprese coloniali del col. Castagna; « Bengasi », sulla resistenza dei coloni italiani all'occupazione straniera; « Uomini sul fondo », ecc. Nella foto in alto una scena di « Alfa Tau ». Il film fu interpretato da uomini della Marina Militare e rievocava le gesta del famoso sommergibile « Toti ». In uno scontro a distanza ravvicinata, sostenuto in superfice dalla nostra, unità, contro un sommergibile britannico inceppatosi il congegno di sparo dei nostri cannoni, un marinaio del « Toti » aveva lanciato, in un impeto di rabbia, uno dei suoi stivali contro l'unità inglese. Uno dei protagonisti principali, il Capitano di Corvetta Zelich, cadde da Eroe al comando del sommergibile « Scirè », mentre portava l'offesa dei mezzi d'assalto della « X », contro un porto palestinese. Nella foto il comandante Zelich sulla plancia del « Toti ». In basso una scena del film « Giarabub ». L'attore Ninchi, che impersona il colonnello Castagna, interroga alcuni prigionieri indiani.

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    Durante l'intero conflitto si cercò di assistere nel miglior modo possibile i feriti ed i reduci dal fronte, spesso gravemente scossi dagli infernali
    combattimenti sostenuti. A questo nobile compito si dedicarono le infermiere volontarie della C.R.I., molte delle quali affondarono insieme alle loro
    navi ospedale, e molti attori ed artisti. Nella foto in alto una cantante lirica canta per i feriti in un grande ospedale nei pressi di Roma. In basso Beniamino Gigli partecipa ad un concerto per i reduci dai fronti di guerra.

    La guerra delle onde

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    Nel 1941 il commentatore radiofonico Mario Appelius (a sinistra) ebbe un momento di grande popolarità per la singolare vicenda della « voce fantasma ». Durante la sua consueta trasmissione serale, infatti,, una voce misteriosa cominciò ad inserirsi con battute polemiche fra una frase e l'altra del noto giornalista. Questa interferenza nemica fu però sfruttata da Appelius che, parlando con le cuffie alle orecchie, fu in grado di ribattere con efficace immediatezza l'avversario fantasma. Nella foto a destra negli studi dell'EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) tre bimbi leggono ai loro papà al fronte la letterina di Natale.

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    Durante la guerra Radio Roma intensificò al massimo anche le sue trasmissioni propagandistiche. Oltre ad Appelius si alternavano ai microfoni per il « Commento ai fatti del giorno » altri noti giornalisti come Roberto Porges Davanzati e Rino Alessi, Alberto Giannini (1a foto) era titolare della rubrica « Il signor X » e Angelo Plavio Guidi (2a foto) che parlava agli italiani nel mondo polemizzando particolarmente con Piorello La Guardia, di « Voce dell'America ». Particolare importanza fu data alle trasmissioni per i paesi arabi sottoposti al dominio britannico e per l'India ove ebbe grande successo « Radio Imalaya ». (3a foto) parla Moussa, un capo Uollo. (4a foto) è al microfono Mohamed Baed, per la trasmissione araba.

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    Il grande palazzo della BBC a Londra fu, negli anni del conflitto, il quartier generale della guerra psicologica contro l'Italia. Dai microfoni di Radio Londra, specialisti britannici e rinnegati italiani si alternarono senza soluzione di continuità, in quasi tutte le ore della giornata, per diffondere tra la nostra popolazione la convinzione che la Germania avrebbe perso la guerra e che agli italiani sarebbe stato possibile ottenere un migliore trattamento al tavolo della pace se avessero diviso le proprie responsabilità da quelle del regime fascista. « Noi combattiamo contro Hitler e Mussolini », dicevano le voci bugiarde della BBC. « Non vogliamo male al popolo italiano. Sabotate la guerra, rifiutate di combattere per i vostri capi fascisti e noi terremo conto di questo »... La voce di Radio Londra quasi inascoltata nei giorni delle vittorie, acquistò dopo gli insuccessi in Africa una incredibile penetrazione nella nostra opinione pubblica. Primi a cedere furono alcuni ambienti intellettuali, ammalati di anglofilia, che tinsero la propria insensibilità nazionale con i colori dell'antifascismo e, prendendo per buone le affermazioni propagandistiche dei vari « Candidus » e Stevens, cominciarono nel Paese una predicazione disfattista che portò, nell'estate del 1943, al crollo del nostro fronte interno. Nella foto in alto a sinistra il palazzo della BBC a Londra. In alto a destra un manifestino lanciato dagli aerei della RAF su Roma nel 1942. In basso una trasmissione di Radio Londra. Sta parlando la signorina di « Piccola Posta », mentre altri annunciatori attendono il loro turno (il primo a destra è l'italiano Paolo Treves). La BBC durante la guerra irradiava trasmissioni propagandistiche in 45 lingue diverse per un totale di oltre 59 ore quotidiane.

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    A sinistra: la sezione di intercettazione della BBC. Si captano le stazioni radio italiane e tedesche e si sfrutta il materiale cosi ottenuto per le trasmissioni propagandistiche. Dietro agli impiegati un tabellone sul quale sono sunteggiati i bollettini di guerra dell'Asse. A destra riunione redazionale al servizio italiano della BBC. Si studia il materiale di propaganda e, sulla base delle indicazioni degli uffici di spionaggio, si impostano i programmi da mettere in onda. Il direttore del servizio è il quarto da sinistra.

    La guerra delle onde

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    A sinistra: « Candidus », il rinnegato italiano Giovanni Marus, sta leggendo ai colleghi britannici una delle sue deprimenti conversazioni dedicate ai nostri ascoltatori. « Candidus », aveva preferito rimanere in Inghilterra all'inizio del conflitto e s'era ben presto arruolato nella Legione straniera della BBC. A destra i « messaggi speciali ». Per dirigere e controllare gli uomini del servizio segreto in Italia, annidati in molti posti chiave, la radio britannica adottò il sistema dei messaggi speciali, cioè di brevi comunicazioni in codice, inserite fra una notizia e l'altra dei vari notiziari in italiano. « Le pesche sono mature e la zia ha la gotta » poteva significare: « Comunicateci quando la flotta uscirà da Taranto ».

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    A sinistra due annunciatori di Radio Londra attendono il segnale per cominciare. La BBC trasmetteva per gli italiani, oltre a nutriti notiziari e
    commenti, anche brevi scenette che tendevano a ridicolizzare il regime fascista e ad istillare negli ascoltatori la sensazione che Mussolini avesse
    venduto il paese ai tedeschi. A destra l'ufficio dei traduttori della sezione italiana di Radio Londra. Si trattava, in parte, di emigrati antifascisti
    che si erano messi al servizio del nemico e che cooperavano così alla rovina della loro Patria.

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    A sinistra: Churchill agli italiani : « E' troppo tardi per impedire che una fiumana di sangue scorra fra i nostri popoli? ». A destra il famoso Stevens, conosciuto col nomignolo di « Colonnello Buona Sera ». Stevens, che fu per lungo tempo la colonna delle trasmissioni italiane della BBC, era vissuto a lungo nel nostro paese e ne conosceva perfettamente la psicologia. Le sue conversazioni cercavano di fare breccia soprattutto sulle classi più agiate, che egli sapeva particolarmente sensibili alle suggestioni della propaganda pseudo democratica, alle classi popolari erano invece dedicate le scenette antifasciste, spesso di fattura grossolana, le canzonacce offensive e le predicazioni antitedesche.

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    A sinistra prigionieri di guerra italiani dinnanzi ai microfoni della BBC per l'invio di brevi messaggi alle famiglie. Con l'istituzione di questo servizio Radio Londra sfruttò abilmente il desiderio dei parenti dei prigionieri di avere notizie dei loro cari per aumentare il numero degli ascoltatori
    clandestini. A destra un corrispondente di guerra della BBC intervista un italiano in una località occupata della Sicilia.

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    Italiani al servizio della propaganda anglo-americana. Da sinistra a destra Arturo Toscanini, emigrato dopo il noto incidente del Comunale di Bologna,
    non parlò mai alla radio ma si diede anima e corpo a raccogliere fondi per sostenere lo sforzo bellico americano. Diresse anche concerti il cui ricavato era destinato all'acquisto di « fortezze volanti » da bombardamento. Calosso, fu una delle voci italiane della BBC e non perse occasione per incitare gli italiani alla diserzione e al tradimento. Fiorello La Guardia, italiano d'origine e sindaco di New York, partecipò attivamente alle trasmissioni della Voce dell'America. Pur essendo cittadino statunitense, fu meno aspro di molti speackers delle radio nemiche che avevano conservato, almeno formalmente, la cittadinanza italiana. Randolfo Pacciardi, si mise a disposizione degli alleati, parlando dalla radio di Montevideo e promosse la costituzione di una legione italiana da inviare a combattere contro il proprio paese. Da Radio-Mosca parlavano Togliatti e D'Onofrio.
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    Il 7 dicembre 1941, mentre le portaerei che avevano partecipato al riuscito attacco di sorpresa contro Pearl Harbour erano ancora sulla rotta del ritorno, imponenti convogli giapponesi, scortati dalle più superbe unità della marina imperiale e carichi di uomini e di armi s'avviavano verso le Filippine, Borneo, Sumatra, la Malesia. Aveva cosi inizio la più gigantesca offensiva anfibia, della storia: un'operazione che per la vastità della concezione strategica, per l'imponenza dei mezzi impiegati e soprattutto per l'ampiezza della zona di guerra e per la lontananza degli obbiettivi è da considerare superiore agli stessi concentramenti realizzati dagli anglo-americani nella fase finale del conflitto per investire il Vallo Atlantico e il Giappone. Infatti l'attacco sferrato dai giapponesi nell'Oceano Pacifico e nell'Oceano Indiano colpì simultaneamente le basi nemiche da Wak e Guam alle Filippine, da Hong Kong a Singapore, dalla Birmania al Borneo, creando da un giorno all'altro un fronte terrestre e navale di propozioni immense. L'offensiva aveva l'evidente scopo di creare al Giappone una condizione di preminenza strategica privando il nemico di tutte le sue basi avanzate. Di tutte le basi, cioè, dalle quali sarebbe potuta venire, per il territorio metropolitano giapponese, una qualche minaccia potenziale. Sulla spinta, dei successi iniziali, lo Stato Maggiore nipponico pensava poi di poter mettere piede nelle Indie Orientali Olandesi, nella Nuova Guinea ed in Australia.

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    La marina imperiale nipponica era, nel 1941, la terza flotta del mondo. Le sue navi, uscite dai cantieri di Yokoama e di Kobe erano quasi tutte di concezione modernissima, specialmente nelle corazzate della classe « Yamato », che stazzavano circa 60.000 tonnellate ed erano armate di cannoni da 457 millimetri. Oltre ad una squadra di navi da battaglia di ben 10 unità, i nipponici schieravano 13 portaerei, di cui 5 di recentissima costruzione, 40 incrociatori e un numero imponente di unità minori. I sommergibili erano 73. Questa gigantesca forza fu lanciata all'attacco, il 7 dicembre 1941, su tutti gli scacchieri di lotta. E se le portaerei, come abbiamo visto, potevano distruggere senza subire alcun danno, la flotta da battaglia americana nelle Kawai, un'altra squadra, tre giorni dopo, ripeteva il colpo contro le due maggiori corazzate britanniche, affondando il 10 dicembre la « Prince of Wales » e la « Repulse ». Il resto della flotta, o vigilava nelle acque di casa o scortava i numerosi convogli che recavano le forze d'invasione nelle Pilippine, in Indocina, in Thailandia, a Borneo. Nella foto la flotta giapponese schierata prima dell'inizio delle operazioni.

    DALLA BIRMANIA A SINGAPORE

    Quando, nella stessa giornata di Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941, i nipponici si lanciarono all'offensiva in tutte le direzioni, occupando una dopo l'altra le principali basi nemiche, il mondo rimase attonito. Anche se lo stato maggiore giapponese aveva dato, dalla guerra del 1905 in poi, infinite prove delle sue capacità organizzative, della sua previdenza e della sua audacia, nessuno si aspettava una simile, fulminea espansione verso i quattro punti cardinali. Tanto più che il Giappone non aveva questa volta di fronte a se gli stanchi generali cinesi, mille volte battuti, ma le flotte navali ed aeree delle due maggiori potenze mondiali. Il Tenno, poi, doveva battersi anche contro altri nemici: le enormi distanze che le sue navi dovevano percorrere onde colpire, l' avversario nelle sue basi, le difficoltà del terreno, le infinite complicazioni delle operazioni anfibie, il clima particolarmente disadatto alle abitudini e ai bisogni del soldato nipponico, la molteplicità dei fronti che supponeva un pericoloso spezzettamento delle tinse in campo.... Il segreto di questo successo va ricercato nell'esatta valutazione di ogni elemento fatta da parte dello stato maggiore di Tokio, nella lunga e meticolosa preparazione, nella perfetta tempestività di ogni mossa. Infatti lo scatenarsi della potenza navale, terrestre ed aerea nipponica in tanti scacchieri diversi, il susseguirsi ininterrotto degli sbarchi , dei bombardamenti e degli attacchi in direzioni spesso divergenti, la simultaneità apparentemente casuale di certi combattimenti rispondevano ad un piano i cui particolari furono attuati con fredda determinazione e con ammirevole perizia tecnica, senza un errore, senza un'incertezza, senza una sfasatura. E' evidente come tutto fosse legato alla riuscita dell'attacco di Pearl Harbour, che tendeva ad ottenere per le forze nipponiche un periodo piuttosto lungo di superiorità aero-navale. E, mentre laportaerei, girata la poppa alle Hawai, comunicavano a Tokio i risultati clamorosi della sorpresa, già numerosi convogli erano in viaggio per le Filippine, Borneo, Celebes, Thailandia, Melacca. Il fallimento del colpo sferrato a Pearl Hesllgr avrebbe consentito loro di invertire la rotta senza gravi danni. In caso di successo, invece, saebbero stati in grado di sfruttarlo rapidamente, enza dare al nemico il tempo di organizzarsi e di riprendersi. Cosi fu. E quando la superiorità aero-navale venne ribadita dal duplice colpo inferto alla marina britannica con l'affondamento delle sole due corazzate, la « Prince of Wales » e « Repulse » che Churchill era stato in grado di trasferire nel Pacifico, apparve chiaro che nessuno si sarebbe più potuto opporre efficacemente per molto tempo alla spinta offensiva nipponica. Molti mesi, forse anni, sarebbero stati infatti necessari agli anglo-sassoni per rimettere in linea le navi che in quattro giorni, dalle Hawai alla Malesia, i nipponici avevano spazzato via. Il poco naviglio superstite, come risulterà dimostrato negli ultimi giorni di febbraio, non era certo in grado di contrastare le intatte forze da battaglia della marina imperiale nipponica. Fatta questa premessa, apparirà chiaro al lettore che, tutto sommato, i grandiosi successi giapponesi dei primi mesi di guerra furono realizzati in condizioni vantaggiose per gli attaccanti. Tuttavia il governo di Tokio, non si proponeva di compiere una guerra di annientamento del nemico. Non pensava di poter invadere, come spesso si è detto, gli Stati Uniti. Tendeva, invece, a creare nell'Asia Orientale una situazione tale che i suoi tradizionali avversari non potessero contare più sullo « statue quo ». Che non potessero, anzi, pensare ad operazioni di riconquista senza mettere nel conto disagi e disastri cosi gravi da renderne dubbia l'opportunità e la convenienza, prima ancora che la possibilità. Questi risultati, importantissimi agli effetti della soluzione diplomatica del conflitto, non potevano ovviamente essere raggiunti dai nipponici se non approfittando della passeggera superiorità aero-navale, ottenuta sul nemico. Se mai avessero perso quest'occasione, i nipponici avrebbero finito col logorare le loro forze in una inutile strage, senza speranze di vittoria. Sarebbe infatti bastato un qualche successo britannico nel Mediterraneo o anche un rallentamento della guerra sottomarina germanica per consentire agli anglo-americani di trasferire nel Pacifico e nell'Oceano Indiano considerevoli aliquote di navi: una flotta tale, comunque, da costringere i nipponici a rallentare la loro avanzata. Ma c'era anche un'altra validissima ragione che imponeva allo stato maggiore di Tokio di fare presto. Ed era la cronica povertà di materie prime che travagliava il Giappone. L'industria giapponese, pur enormemente sviluppata negli ultimi anni, non avrebbe potuto infatti mantenere il ritmo richiesto dalle necessità belliche se non avesse potuto attingere, oltre che alle risorse mancesi e cinesi, anche ai notevolissimi giacimenti di minerali d'ogni genere di cui sono ricche le grandi isole della Sonda, la Birmania, l'Indocina e la Thailandia. La situazione era particolarmente grave per i carburanti e questo spiega il perché della fulminea puntata su Borneo e la successiva occupazione delle Indie Olandesi ove esistevano numerosi pozzi di petrolio. Esaminando particolarmente le varie operazioni iniziali dei nipponici, conclusesi tutte con un pieno successo, sarà possibile far comprendere i dettagli e i motivi delle singole manovre. Lo sbarco nelle Filippine e a Guam, nonchè gli attacchi alle Midway e a Wake tendevano a neutralizzare le basi americane più vicine al Giappone e quindi più pericolose. Inoltre il possesso sia di Guam che delle Filippine era la premessa necessaria all'allargamento delle operazioni in direzione della Nuova Guinea, antemurale dell'Australia. Gli sbarchi a Borneo, oltre che alla conquista dei pozzi petroliferi della grande isola, erano indispensabili per organizzare l'investimento di Giava, di Sumatra e di Timor, oltre che delle Celebes. In Malesia, nella loro rapida marcia su Singapore, attraverso le jungle impenetrabili, i giapponesi puntavano ad infliggere al nemico un'altra gravissima perdita: quella della « Gibilterra di oriente », vera chiave di volta dell'intero sistema difensivo anglo-americano nel Pacifico. Col possesso di Singapore e dell'intera penisola malese, infatti, il comando giapponese avrebbe praticamente impedito al nemico di operare nelle acque della Sonda e nel Golfo Indocinese, rendendo, nello stesso tempo possibili i raids delle sue navi e dei suoi sommergibili sulle rotte per l'India. Ultimo, importantissimo obbiettivo nipponico, conseguito in collaborazione con l'esercito siamese, la Birmania e la famosa strada che unisce Rango alla Cina. E fu qui che fu sviluppato, dall'una e dall'altra parte, il massimo sforzo. Gli inglesi avevano infatti capito che dalla Birmania poteva essere seriamente minacciata la perla più preziosa della corona imperiale di Londra: l'India.

    Convogli

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    Lo sforzo sostenuto dalla flotta da guerra e dalla marina mercantile nipponica nei primi giorni di guerra fu imponente. Oltre mezzo milione di
    uomini, con un gigantesco corredo di mezzi bellici e di rifornimenti fu trasportato nelle più diverse direzioni e felicemente sbarcato sul territorio
    nemico. E non si trattava di superare brevi tratti di mare, bensì di percorrere duemila e più chilometri, spesso in acque controllate da navi nemiche,
    da sommergibili, da aerei, sempre con la minaccia degli uragani, che sono particolarmente frequenti nei mari della Sonda e della Malesia. Nella
    foto la popolazione di Kobe saluta sventolando bandierine nazionali le truppe in partenza per il fronte.

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    I nipponici, che in tutte le loro guerre, da quella del 1896 contro la Cina a quelle più recenti contro il Kuomintang, avevano dovuto organizzare
    imponenti spedizioni oltremare, erano particolarmente allenati e preparati ai nuovi compiti imposti loro dalla guerra contro gli angloamericani.
    Le truppe da sbarco, scelte fra le migliori disponibili, avevano avuto un lungo allenamento alla guerra anfibia e disponevano di speciali imbarcazioni,
    studiate per renderne facile l'impiego sui bassi fondali delle isole del Pacifico. Nella foto a sinistra soldati nipponici trasbordano da un piroscafo da
    carico sui mezzi destinati a portarli a terra. Nella foto a destra un'ondata di mezzi da sbarco s'avvicina alla costa malese.

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    I giapponesi sbarcano nel golfo del Siam e sulla costa della Malesia. Per l'invasione della Malesia, i nipponici avevano ammassato da parecchie settimane nell'Indocina Francese una forza considerevole, valutata a circa centomila uomini, la maggioranza dei quali era stata dislocata nella parte meridionale, facendo prevedere un'ulteriore spinta verso il sud, cioè in direzione della penisola di Malacca alla cui punta estrema i britannici avevano la loro base più munita: Singapore. Altre truppe (circa ventimila uomini) si trovavano a bordo di navi traghetto nella baia di Cam Ranh pronte per essere impiegate al momento opportuno, mentre altri convogli provenienti dal Giappone erano in arrivo. Le operazioni di transito nella Thailandia si svolsero rapidamente. L'esercito siamese fece alla truppe nipponiche soltanto una resistenza simbolica creando cosi le premesse per una vera e propria alleanza politica e militare. Pochi giorni dopo il loro ingresso a Bancock, i giapponesi erano cosi in grado di pronunciare una grave minaccia in direzione della Birmania. Non meno felicemente procedeva l'avanzata in Malesia, malgrado i gravissimi ostacoli frapposti, più che dalla debole resistenza nemica, dalle difficoltà del terreno e del clima. Nella foto in alto mezzi da sbarco giapponesi s'avvicinano alla costa malese nelle vicinanze di Bang Tapang. Nelle foto al centro ed in basso sbarcati dai mezzi anfibi, reparti nipponici si raggruppano sulla spiaggia prima di inoltrarsi nella jungla.

    Nella jungla Malese

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    Nell'investimento della Malesia i soldati giapponesi conobbero per la prima volta la jungla. Nelle loro precedenti esperienze belliche i nipponici avevano sempre combattuto in paesi civilizzati, a clima temperato o freddo. In Malesia, come in tutte le isole dell'arcipelago delle Indie Orientali, si trovarono invece in una zona tropicale o equatoriale alla quale non erano abituati e che mise a dura prova il loro fisico e creò per i servizi logistici una serie di problemi di difficile soluzione. Contrariamente a quanto comunemente si crede, i giapponesi non gradiscono le alte temperature, che sopportano meno bene degli stessi europei. Nella foto in alto a sinistra un reparto giapponese in marcia verso Kota Baru in Malesia. Al centro a sin. fanteria nipponica al guado di un fiumiciattolo, il Muda, nei pressi della frontiera thailandese. In basso a sin. una pattuglia in avanscoperta nella jungla. Da notare l'accurata mimetizzazione, particolarmente utile nell'intrico della vegetazione tropicale. A destra in alto un carro armato nipponico, nascosto ai margini di una piantagione, batte col suo cannoncino le posizioni britanniche. In basso a destra in un villaggio occupato in Malesia le bandiere del Sol Levante hanno preceduto i soldati nipponici, innalzate dagli uomini della quinta colonna, reclutati fra le fiorenti comunità nipponiche nella penisola.

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    Fanterie nipponiche all'attacco all'arma bianca contro le posizioni britanniche sul fiume Perak, nell'omonimo sultanato. Il loro slancio è irresistibile.
    La linea di difesa apprestata frettolosamente dall'avversario cederà di schianto e consentirà ai giapponesi una rapida avanzata sulla costa occidentale
    malese che li porterà in pochi giorni, a Kuala Lumpur e a Kiantan, cioè a meno di duecento chilometri in linea d'aria da Singapore. Da notare, nella
    foto in alto, la lunga spada dei « Samurai » impugnata dall'ufficiale che guida l'azione. E' il segno simbolico d'una lunga tradizione guerriera che sopravvive anche in mezzo al prevalere tecnicistico del conflitto moderno. Nella foto in basso un tiratore giapponese appostato nella jungla.

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    Contemporaneamente all'investimento delle Filippine, i giapponesi realizzarono numerosi sbarchi di sorpresa in altre due grandi isole : nelle Celebes e
    a Borneo. Sia l'una che l'altra avevano una grande importanza economica e strategica. Al Borneo, specialmente nella parte settentrionale appartenente
    alla Gran Bretagna, i nipponici puntavano soprattutto al controllo degli importanti pozzi petroliferi. Le Celebes, invece, erano considerate come una
    base per ulteriori azioni offensive in direzione della Nuova Guinea e dell'Australia. Nella foto in alto a sinistra inoltratisi nell'interno dell'isola, le
    truppe nipponiche si trovano a dover superare numerosi corsi d'acqua. I battelli pneumatici rappresentano in tali circostanze un prezioso ausilio. In
    basso a sinistra qui non c'è stato bisogno dei battelli, i nipponici hanno trovato intatta una delle caratteristiche passerelle indigene, fabbricate con
    resistentissime liane e sospese agli alberi, dall'una e dall'altra parte del fiume. Siamo nel mondo di Salgari! In alto a destra al Borneo le strade sono
    quasi inesistenti. L'avanzata nipponica a Saravak deve quindi fare i conti con le asperità, del terreno. Come sulle Alpi, i cannoni scomposti nei loro elementi, sono issati sulle alture a forza di braccia. In basso a destra anche la fanteria ha il suo da fare, per superare le aspre catene montuose dell'isola.

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    Nella foto in alto per superare le acque vorticose di un grosso torrente i nipponici hanno costruito una passerella umana. I fucilieri traghettano
    all'asciutto sull'altra sponda passando sopra l'effimero ponte sostenuto dalle spalle dei loro compagni. Nella foto in basso nell'avanzata lungo la penisola di Malacca per la conquista di Singapore, l'ingegnosità nipponica ha tolto le gomme ai mezzi blindati e agli autocarri, sostituendole con le ruote dei treni, allo scopo di sfruttare utilmente la rete delle ferrovie locali.

    Sbarco al Borneo

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    La parte meridionale dell'Isola di Borneo fu il primo possedimento olandese nelle Indie Orientali ad essere investito dall'offensiva giapponese. Il comando nipponico, infatti, dopo aver completato l'occupazione della zona settentrionale di Saravak, continuò la marcia verso sud, affrettando la conquista dell'intera isola con numerosi sbarchi in varie località. Nella foto in alto un'eccezionale fotografia. La corazzata « Nagato » spara con tutte le sue torri contro le posizioni anglo-olandesi di Borneo. Da notare i proiettili appena usciti dalle bocche da fuoco, fermati in aria dal fotografo. Nella foto in basso mezzi da sbarco giapponesi hanno preso terra nei pressi di Kalolokan, sulla costa sud orientale di Borneo.
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    Sbarco al Borneo

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    La rapida avanzata nipponica nella grande isola anglo-olandese. Nella foto in alto le fanterie nipponiche hanno raggiunto il principale obbiettivo
    della loro avanzata, i pozzi petroliferi tornesi. L'avanzata è stata così travolgente che i britannici non sono riusciti ad incendiare o a sabotare i pozzi.
    Fra pochi giorni le attrezzature dei grandi trust petroliferi anglo-olandesi produrranno per conto del Tenno. Nella foto in basso a sinistra dalla jungla emergono, come fantasmi, i soldati inglesi che hanno rinunciato ad una resistenza ormai impossibile e si arrendono ai giapponesi. In basso a destra la curiosità dei nipponici dinnanzi allo strano monumento trovato a Pontianah è pienamente legittima. Essi sono giunti infatti sulla linea dell'equatore, indicata dal grande sestante. La loro avanzata, tra breve, li porterà nell'emisfero australe.

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    Anche i giapponesi, come già i tedeschi per l'impresa di Creta, impiegarono forti reparti di paracadutisti per l'occupazione di numerose isole, tra le
    quali Giava. Nella foto in alto a sinistra paracadutisti nipponici si imbarcano sugli aerei da trasporto. Al centro a sinistra il cielo, sopra l'obbiettivo
    prescelto, si popola di una miriade di punti bianchi. In basso a sinistra i paracadutisti hanno preso terra. Fra qualche secondo dalle loro armi automatiche si sgranerà un mortale rosario. In alto a destra una formazione di bombardieri sorvola i mari della Sonda per bombardare le difese anglo-olandesi di Giava. In basso paracadutisti nipponici con la loro mascotte: una scimmietta catturata a Borneo.

    La difesa Inglese

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    Nell'isola di Borneo si vanno spegnendo le ultime resistenze delle truppe alleate. Olandesi, britannici e australiani sono in ritirata. Prima di abbandonare i pozzi di Balikpapan, hanno incendiato i depositi di carburante perchè non possano servire al nemico.

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    Gli attacchi dell'aviazione nipponica si sono estesa alle isole più lontane. Una grande incursione sulle isole della Nuova Georgia prelude ad una azione contro l'arcipelago da parte delle truppe da sbarco giapponesi. Nella foto un aereo nipponico abbattuto dalla caccia britannica a Munda, nella Nuova Georgia.

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    La lotta in Malesia continua ad infuriare. I britannici stanno tentando il tutto per tutto ed ammassano ogni reparto disponibile sulla linea del fiume Muar per arrestare l'offensiva nipponica. Ma il contrattacco sferrato da truppe inglesi e australiane viene respinto e la linea, dopo furibondi combattimenti, viene infranta. Nella foto un reparto di mitraglieri appartenente ai « Gordon Highlanders » in linea sul Muar.

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    Anche in Birmania le cose vanno male, per gli inglesi. I
    nipponici, che avanzano dal territorio thailandese, sono
    già, nelle vicinanze della famosa strada che da Rangoon
    porta a Ciung-King, roccaforte dei nazionalisti cinesi. E'
    la sola via di rifornimento che resta a Ciang Kai-scek. Nella foto un reparto britannico in ritirata guada un fiume

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    Dopo gli sbarchi nipponici a Sumatra, a Borneo e alle Celebes, anche le isole Salomone vengono messe in stato di difesa. Il pericolo è gravissimo e i britannici non guardano troppo per il sottile, anche i cannibali di questo arcipelago semi selvaggio sono buoni per difendere l'impero britannico.

    Il Giappone ha un nuovo alleato: la Thailandia. Questo paese che da parecchi anni aveva chiaramente dimostrato la propria simpatia per gli ideali
    di indipendenza asiatica propugnati dal Giappone e che rivendicava dalla Gran Bretagna ampi territori da questa annessi ai propri possedimenti malesi, aveva opposto alle forze d'invasione nipponiche solo una resistenza simbolica. Le truppe del Tenno, anzi, erano state accolte dai siamesi con evidenti manifestazioni di simpatia. Il 25 gennaio 1941, il governo di Banckock, accusando gli anglosassoni di ripetute violazioni della propria sovranità, dichiarava guerra agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna e si schierava a fianco dei giapponesi. Nella foto in alto a sinistra lo Stato Maggiore thailandese durante una parata militare. Da notare, dietro al comandante delle truppe, la donna in divisa. E' sua moglie, che secondo un'abitudine molto diffusa nel paese, porta i gradi di colonnello. Al centro a sinistra thailandesi e nipponici fraternizzano durante una sosta sulla via di Rangoon. In basso a sinistra colonne miste di siamesi e di nipponici durante la marcia in Malesia. In alto a destra il sovrano siamese Amanda che fu assassinato nel 1946 per il suo atteggiamento antibritannico. In basso a destra la guardia reale siamese schierata durante una parata.

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    Uno degli scacchieri più importanti della lotta fra gli inglesi e i nipponici in Asia fu quello birmano. Attaccando in Birmania lo stato maggiore giapponese tendeva a raggiungere due risultati di grandissimo valore strategico e politico: isolare completamente Ciang Kai-scek che dalla strada birmana riceveva gli indispensabili rifornimenti per il suo esercito; investire direttamente l'India per provocare nella grande e popolosa penisola l'insurrezione popolare contro la dominazione straniera. Il primo risultato fu raggiunto con una certa facilità. Il secondo, invece, rimase fra i sogni irrealizzati, malgrado la predicazione rivoluzionaria di molti patrioti indiani. L'Inghilterra ebbe infatti buon gioco manovrando abilmente sulle profonde differenze di religione e di razza che dividevano gli indiani. Tuttavia, fino alla fine della guerra, il fronte birmano, anche per le gravi asperità del terreno, rimase uno dei settori più difficili per i britannici. Essi, anzi, esaurirono praticamente il loro sforzo bellico in Asia nel mantenere le posizioni birmane. Nella cartina è indicata la principale direttrice di attacco nipponica in Birmania durante i primi due mesi di guerra. Partite dal territorio della Thailandia, le colonne nipponiche puntarono direttamente, attraverso Moubnein e Martaban, verso Rangoon, la capitale. Le due prime località furono occupate negli ultimi giorni di gennaio, dopo un lotta furibonda, svoltasi in parte tra le risaie di Tavoy e in parte nella zona montuosa di Kawkareik. A nord est, invece, lo sforzo nipponico portava le truppe del Tenno sul fiume Salveen poi sul Bilin. Alla metà di gennaio i giapponesi erano già vicini
    alla meta agognata, la ferrovia di Rangoon e la strada verso la Cina.

    continua qui

    Edited by <eric_draven> - 23/1/2011, 14:56
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