7 anni di guerra

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    Le colline maledette

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    Il continuo afflusso dei rinforzi dalla Madre Patria, nonchè l'intelligente ed appassionata azione del Generale Cavallero diedero finalmente, fra il gennaio e il febbraio del '41, il loro risultato positivo. Le ondate offensive dei greci si infransero infatti sulle posizioni fortemente difese dalle nostre divisioni, che erano state aumentate di numero e rinforzate negli effettivi. Fra il 13 e il 22 febbraio, il nemico tentò di sfondare il fronte nella Val Desnizza ma venne contenuto e respinto con gravissime perdite. Riuscì a prendere Klisura, ma Tepeleni, meta della sua offensiva, rimase saldamente nelle nostre mani. Sulla strada di Valona non si passava! Un mese dopo, sempre sulla Vojussa e sulla Desnizza, i greci effettuarono la loro ultima offensiva. Il risultato fu, per loro, catastrofico. La guerra di logoramento che si era sostituita all'offensiva lampo preparata da Visconti Frasca e sognata da Mussolini, li aveva completamente esauriti. Nella foto in alto a sin. lanciafiamme italiani raggiungono il fronte nel settore di Berat per snidare i greci attestati in caverna. Nella foto al centro a sin. i lanciafiamme in azione. In basso a sin. fanterie italiane al contrattacco sulla Vojussa, dove inflissero al nemico perdite gravissime, stroncandone l'offensiva. In alto a destra l'omaggio dei fanti del 31° ai loro camerati caduti. Il 31" Fanteria fu uno dei reparti più provati nell'ultima parte delle operazioni in Grecia. In basso a destra presso il reticolato si allineano le fosse in cui sono sepolti i caduti nell'ultima durissima fase dei combattimenti. Cinque elmetti forati dai proiettili stanno ad indicare la sepoltura di cinque militi ignoti.

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    La quota 731 di Monastero sarà ricordata da tutti i soldati italiani in Albania come un nuovo Podgora. Sulla collina contesa la guerra assunse infatti, più che altrove, aspetti simili a quelli del primo conflitto mondiale. Continui attacchi e contrattacchi la disseminarono di morti e di rovine, dando al paesaggio un macabro aspetto lunare. A Monastero rifulse il valore delle nostre truppe che seppero tenere testa a tutte le ondate d'attacco avversarie e alla fine vinsero la disperata partita. Nella foto in alto un contrattacco italiano appoggiato dall'artiglieria sta per raggiungere la vetta del Monastero. In basso a destra le colonne italiane in piena azione controffensiva lasciano l'altura per portarsi più avanti. Sono visibili in primo piano, i nostri soldati caduti nella prima fase dell'azione, mentre è evidente, negli alberi smozzicati e nel terreno sconvolto dalle esplosioni, l'asprezza della lotta.

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    BIASUCCI LUIGI, nato a Roma il 13 aprile 1890 - Colon-
    nello 140° reggimento fanteria. Comandante di reggimento, coraggioso e sagace, con azione appassionata e costante di animatore e di capo, faceva dei suoi battaglioni un superbo strumento di lotta. Ricevuto l'ordine di attaccare una munita posizione avversaria, dava con calma e sicura competenza le necessarie disposizioni per la realizzazione dell'impresa affidatagli. Nello svolgimento dell'azione, alla testa deii suoi battaglioni, fante fra i fanti, valoroso fra i valorosi, faceva impeto sul nemico e ferito mortalmente, cadeva inneggiando alla vittoria. Quota 731 zona Monastero.



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    Il sanguinoso fallimento dell'ultima offensiva greca in Albania aveva dimostrato che gli ellenici avevano ormai esaurito la loro capacità militare e che
    l'esercito di Papagos stava ormai entrando in crisi. Difatti, fra l'8 marzo e il 13 aprile, il comando italiano, con i nuovi mezzi a sua disposizione, aveva
    redisposto la ripresa dell'attività offensiva, progettando la ripetizione del fallito attacco di ottobre-novembre nell'Epiro e in Macedonia. Intanto, nei Balcani, andavano maturando nuovi importanti avvenimenti che avrebbero radicalmente modificato ed esteso i piani del nostro comando e di quello germanico. Il 1° marzo il Ministro Filoff aveva firmato a Vienna l'adesione della Bulgaria al Patto Tripartito e il giorno successivo truppe tedesche erano entrale in territorio bulgaro. Il 25 marzo anche la Jugoslavia aderiva all'Asse. Si era evidentemente alla vigilia di un intervento germanico in Grecia, tendente oltre che alla conquista di Salonicco e di Atene, all'occupazione di Creta, la cui importanza strategica non era sfuggita a Hlitler. Ma il 27 marzo un colpo di stato organizzato dal generale Simovic e da altri elementi militari serbi rovesciava il governo che aveva firmato il patto tripartito con la Germania e con l'Italia, deponendo il reggente Paolo e portando al trono Re Pietro II, ancora minorenne. L'atteggiamento minaccioso degli jugoslavi induceva gli italo-tedeschi a concretare un'azione comune non più solo contro la Grecia ma anche contro la Jugoslavia. Nella foto in alto il reggente Paolo di Jugoslavia e il minorenne re Pietro II passano in rivista la guardia Reale. A destra il Presidente del Consiglio Jugoslavo Stojadinovic, un sincero amico dell'Italia e della Germania rovesciato dalla casta militare serba asservita completamente agli interessi britannici nei balconi. In basso il Ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop annuncia ai giornalisti esteri l'intervento contro la Grecia e la Jugoslavia.

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    L'attacco alla Jugoslavia

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    6-7 aprite 1941. il 6 i tedeschi iniziano i movimenti contro la Grecia e la Jugoslavia partendo dalle loro basi in Austria, in Ungheria e in Bulgaria. Il giorno successivo l'Italia dichiarava la guerra alla Jugoslavia e dava nel contempo ordini perchè fosse svolta un'operazione risolutiva in Grecia, nel quadro di un più vasto disegno militare, tendente a dare l'intera penisola balcanica all'Asse. Infatti il Cavallero organizza una grande offensiva da effettuare in tre tempi, rottura del fronte a nord, sull'ala destra, fra Coritza e il lago di Ocrida, aggiramento parziale sulla Vojussa, convergenza di due armate su Kalibaki con l'avvolgimento totale dello schieramento avversario. La prima ad attaccare fu la nona armata, schierata fra Berat e Ocrida, la quale in tre giorni di aspri combattimenti, ruppe il fronte avversario, inoltrandosi anche in territorio jugoslavo, verso le avanzanti forze tedesche e bulgare. Nella foto in alto le truppe italiane varcano il Ponte di Sussak e iniziano la marcia verso il cuore della Jugoslavia. Sotto le truppe italiane si congiungono con i tedeschi avanzanti a nord di Ocrida.

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    Il Mediterraneo orientale fu, per tutto il primo semestre del 1941, il principale teatro di guerra. Dalla Grecia a Creta, dall'Africa Settentrionale all'Egeo, importanti operazioni aero-navali si svolsero, in questo settore, con alterne vicende e con alterna fortuna. Sul mare, alla fine di marzo del 1941, fu combattuta la battaglia di Gaudo e Matapan. Nella cartina sono tracciate le rotte seguite dalla nostra squadra che ebbe l'audacia di penetrare fin nel cuore delle posizioni nemiche impegnando a fondo la squadra inglese che a Gaudo stimò opportuno sottrarsi al combattimento.

    Guerra aeronavale nel Mediterraneo

    Mentre in Mediterraneo ed in Africa Settentrionale si combatteva ancora aspramente, le campagne di Grecia e di Jugoslavia volgevano all'epilogo. La Jugoslavia, attaccata con decisione e valore dalle nostre truppe e dalle formazioni corazzate tedesche congiunte con nuclei Ungheresi e Bulgari, crollava immediatamente senza poter ostacolare l'avanzata dei soldati dell'Asse. Anche le truppe greche, logorate nei combattimenti invernali si disfacevano completamente, nonostante gli aiuti inglesi, Terminava così una delle più dure e sanguinose campagne della nostra guerra. Nel frattempo, la Terra aero-navale combattuta nel Mediterraneo richiedeva ai comandi avversari la soluzione di problemi specialissimi, così in campo tattico come in campo strategico. Va osservato, innanzitutto, che le basi britanniche erano dislocate alle due estremità del grande bacino: a Gibilterra da una parte e ad Alessandria dal Paltra. Le rimanenti basi, da Malta a Suda, da Cipro ai porti palestrinesi, erano infatti 1tali da poter ospitare sporadicamente formazioni navali di una relativa consistenza o per la inadeguatezza dei loro impianti o per la loro vulnerabilità da parte dell'aviazione. Questa circostanza metteva quindi gli inglesi nella necessità di mantenere forze pressappoco equivalenti ai due estremi del Mediterraneo per poter contrastare efficacemente, da una parte e dall'altra, eventuali azioni italiane. L'Italia. invece, sistemata come una displuviale fra i due bacini, occidentale e orientale, poteva spostare con una certa rapidità il grosso della sua flotta nell'uno e nell'altro settore, appoggiandosi principalmente sulle tre basi di Taranto, La Spezia e Napoli, nonché sulle basi minori di Augusta, della Maddalena, di Brindisi e di Messina. Questa favorevole situazione strategica, spiega perché la nostra Marina, pur essendo quantitativamente inferiore a quella britannica, potè garantire per tutta la durata del conflitto i collegamenti con le truppe impegnate in Libia e quelli con la Sardegna, la Corsica, i Balcani, e la Grecia, malgrado la pericolosa spina di Malta proprio al centro delle correnti del traffico navale. C'era però un grosso inconveniente. Gli inglesi, proprio per la loro posizione eccentrica, potevano provvedere alle necessità di rifornimento quasi senza rischiare la perdita di navi. E difatti, specialmente dopo la caduta dell'Impero, poterono alimentare il fronte egiziano attraverso il Mar Rosso, fuori da ogni minaccia italiana. La situazione strategica apparirà tuttavia molto meno rosea per gli italiani, se si pensa come nella guerra moderna (e le due battaglie di Capo Teulada e di Capo Matapan l'avrebbero dimostrato) un'operazione navale possa svolgersi con una buona probabilità di successo solo se appoggiata dall'aviazione e da un sistema perfetto di comunicazioni, di ricognizione e di avvistamento. Questa cooperazione fra navi ed aerei a noi fece spesse volte difetto, mentre fu perfetta da parte britannica. La prima causa di questa inefficienza, che talvolta ebbe aspetti drammatici, va, ricercata anche nella mancanza di navi portaerei. Nello scontro notturno di Capo Matapan, che ci costò in pochi minuti la perdita di tre incrociatori e di due caccia, noi fummo anche superati tecnicamente dall'avversario, il quale aveva già il radar a bordo delle sue unità maggiori e poté così avvistare e distruggere le nostre navi. « Una lotta fra ciechi e veggenti », così fu definito quello scontro drammatico.
    Per quanto riguarda il Mediterraneo, tre importanti avvenimenti, oltre ai minori episodi che ebbero per protagonisti gli aero-siluranti, i mezzi d'assalto e i sommergibili. Il primo, che fu anche, il più grave e il più triste, avrebbe potuto avere irreparabili conseguenze su tutto l'andamento dalla guerra: l'incursione notturna dei bombardieri e degli aero-siluranti britannici sul porto di Taranto. Per l'inefficienza dei nostri apprestamenti di sicurezza, per la piena riuscita dell'elemento sorpresa, per la novità dei siluri a doppio acciarino, l'operazione ci inflisse perdite gravissime: tre siluri colpirono la Littorio, uno la « Duilio » e la « Cavour », mentre due bombe colpirono (ma senza esplodere) l'incrociatore « Trento » e un caccia. Se la «Littorio » e la « Duilio », dopo alcuni mesi di lavori, poterono tornare in squadra, non fu così per la Cavour », che rimase inefficiente fino al termine del conflitto. In una notte, comunque, la forza navale italiana, per il colpo contro tre grandi navi, era ridotta a meno della metà. Due sole corazzate, la « Vittorio Veneto » e la « Cesare » (la « Dori» » era in riparazione alla Spezia) risultavano infatti in grado di tenere il mare. Tuttavia, a pochi giorni dall'attacco, la flotta diede una grande prova della sua capacità di ripresa, affrontando con le corazzate superstiti e con gli incrociatori, una grande formazione navale avversaria in navigazione nel Mediterraneo occidentale verso Malta, a scorta di un convoglio. Quello scontro, la battaglia di Capo Teulada, se non si risolse (come forse sarebbe stato possibile con maggior decisione) in una grande vittoria, confermò la presenza vigile e pronta della nostra flotta, malgrado le perdite di Taranto. A Capo Teulada le due corazzate, con la scorta di due divisioni di incrociatori e di caccia, impegnò una formazione navale inglese che si poggiava su due corazzate, la « Renown » e la « Ramilles ». Non vi furono affondamenti. Da parte italiana risultò seriamente colpito il caccia « Lanciere », salvato con una brillante operazione. Da parte britannica furono dannegggiati un incrociatore tipo « Machester » e l'incrociatore « Berwik ». Il terzo avvenimento è conosciuto sotto il nome di « Battaglia di Gaudo e Matapan ». Quella che avrebbe dovuto essere un'azione di sorpresa della flotta italiana nell'Egeo si risolse, anche per interferenze criminose ormai comprovate da varie testimonianze, in un amaro scacco. Perdemmo, allora, tre dei nostri migliori incrociatori, in uno scontro notturno, completamente fortuito. La stessa « Vittorio Veneto », colpita da un siluro corse il rischio di affondare e solo la perizia dell'ammiraglio Jachino, sfortunato protagonista dello scontro, riuscì a portarla in salvo. Tuttavia, malgrado i rovesci di Taranto e di Matapan, la flotta italiana continuò coraggiosamente a combattere, contrastando il nemico in ogni mode e proteggendo il traffico sempre più intenso con la Libia, ove andavano maturando importanti avvenimenti. Fu anzi al suo sacrificio eroico, alla sua tenacia, che dobbiamo le vittorie in Africa Settentrionale del 1941. Vi fu infatti un momento in cui, dopo i colpi della « X Mas » contro Alessandria e Gibilterra, la proporzione delle forze tornò a giocare a nostro favore. Ma fu una grande occasione che non sapemmo cogliere. In Atlantico vanno segnalate, sempre in questo periodo, oltre alle numerose vittorie dell'arma sottomarina germanica e italiana di cui faremo cenno negli episodi più salienti, le imprese degli [incrociatori Corspt.,tedeschi Scheer », « Scharnhorst » e della epica e tragica fine della « Bismark » subito dopo la clamorosa vittoria riportata sulla corazzata inglese « Hood ».

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    6 aprile 1941 - Le truppe italo-tedesche iniziano il formidabile attacco alla Jugoslavia che avrebbe visto, in pochi giorni di guerra, la dissoluzione del regno dei serbi-sloveni e croati. Gli italiani iniziarono l'offensiva partendo dalle loro basi nella Venezia Giulia. Una forte colonna puntò subito su Lubiana, mentre un'altra, proveniente da Fiume, operò un'audacissima puntata verso sud, costeggiando la Lika e la Dalmazia. Le resistenze serbe furono sporadiche ma notevoli. Comunque non riuscirono ad ostacolare o a ritardare l'avanzata italo-tedesca. Nella foto in alto ostacoli anticarro predisposti dagli jugoslavi alla frontiera giulia. Nella foto in basso carri armati leggeri italiani avanzano lungo la costa dalmata dopo aver superato le prime resistenze.

    Terre redente

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    Nella foto in alto bersaglieri motociclisti, avanguardie di una colonna mista del presidio di Zara escono dalle fortificazioni della italianissima città per ricongiungersi a Knin con le forze della II armata provenienti da Fiume. Impegnate in duri combattimenti, le forze di Zara reagirono brillantemente e il 14 aprile veniva operato il ricongiungimento. Zara era stata sottoposta a gravi bombardamenti e gran parte della sua popolazione civile era stata evacuata prima dell'inizio delle ostilità. Nella foto al centro un marinaio di guardia dinnanzi ad un cacciatorpediniere della marina jugoslava catturato in un porto della Dalmazia. Solo alcune piccole unità jugoslave riuscirono a passare il Canale di Otranto e a ricongiungersi con la flotta inglese. Nella foto in basso Messa al Campo nel porto di Ragusa. In alto a destra il tricolore sale sul torrione del castello di Lubiana, occupata l'11 aprile. In basso a destra Aprile 1941 Marinai del Battaglione San Marco sugli spalti veneti di Veglia, alzano il tricolore dopo un'attesa dorata vent'anni. La popolazione dell'Isola era stata duramente perseguitata, per i suoi sentimenti di italianità, dai croati, come del resto le grandi comunità italiane di tutta la Dalmazia.

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    Il disastro jugoslavo ebbe importanti conseguenze politiche e militari. Militarmente diede all'Asse il completo controllo dell'Adriatico e dei Balcani. Politicamente portò allo smembramento dell'artificioso regno dei Karageorgevic. La Croazia, che mal sopportava il giogo serbo, fu resa indipendente, sotto la guida di Ante Pavelic, capo del movimento re Ustascia, filo-fascista. Successivamente venne deciso che sul trono croato si sarebbe assiso un principe di Casa Savoia, Aimone, Duca di Spoleto. La Slovenia fu spartita - la Carinzia meridionale venne annessa al Reich, Lubiana, con il resto del territorio fu passato all'Italia e costituì una provincia a statuto speciale. Parte della Dalmazia, comprendente le zone di Sebenico, Spalato e Cattaro, nonchè la maggioranza delle isole, venne annessa all'Italia, secondo l'antico voto delle sue popolazioni e costituì un Governatorato. Il Montenegro, che era stato assorbito dalla Jugoslavia dopo la prima guerra mondiale, tornò indipendente. Al banchetto parteciparono anche l'Albania (che ebbe i territori abitati da popolazioni schipetare), l'Ungheria, che riebbe il Sanato, e la Bulgaria che si ingrandì in Macedonia, rifacendosi dei territori persi con le guerre balcaniche e con i trattati del 1919. Nella foto in alto truppe italiane a Spalato. La città fu raggiunta dalle nostre truppe il 16 aprile 1941. L'accoglienza della popolazione fu molto cordiale, in questa città romana e veneta, che fino al 1882 era stata amministrata da un comune italiano, presieduto dal patriota Antonio Baiamonti. Nella foto in basso un reparto italiano a Lubiana.
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    L'offensiva tedesca

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    Mentre la Jugoslavia crollava sotto i colpi di maglio delle truppe italo tedesche, in Grecia s'andava compiendo il destino di quel popolo eroico che pare aveva tanto valorosamente resistito all'offensiva di ottobre. In Macedonia e nell'Epiro, in pochi giorni di combattimento, gli italiani riuscirono a rompere il fronte e dilagarono in direzione di Gianina. Intanto, dalla Bulgaria, avanzavano le truppe corazzate tedesche, minacciando di aggiramento l'intero schieramento ellenico. Intervennero allora, in appoggio ai greci, notevoli contingenti britannici, i quali furono irrimediabilmente battuti in Tessaglia, alle Termopili e infine nella Morva. Nella notte del 24 aprile fu decisa la loro evacuazione su Creta. Nella foto in alto artiglieria tedesca batte le posizioni inglesi in Tessaglia. Nella foto in basso le sacre e nebbiose pendici dell'Olimpo assistono al dramma del corpo di spedizione britannico, scompaginato dai panzer germanici. A sinistra il terribile bombardamento di Belgrado, operato dagli Stúkas della Luftwaffe, subito dopo la dichiarazione di guerra.

    L'offensiva tedesca

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    Il crollo della Jugoslava non fu soltanto militare ma anche morale e politico. Dopo pochi giorni di resistenza, le truppe si sbandarono mentre le popolazioni, sopratutto in Croazia, si ribellavano ai serbi. Nelle due foto è la testimonianza dei sentimenti popolari nei confronti della dittatura monarchica in Jugoslavia. In alto gli abitanti di Glino abbattono la statua che ricorda Re Pietro I. In basso cittadini di Serajevo consegnano ai tedeschi la targa che ricordava l'attentato a Francesco Ferdinando d'Asburgo. Quell'assassinio, compiuto da uno studente serbo, aveva provocato il « casus belli » per la prima guerra mondiale. In basso plenipotenziari serbi si presentano ai comandi italo-tedeschi per trattare la resa delle loro truppe. Siamo al 18 aprile. In alto a destra marinai della « San Marco » raccolgono le armi catturate alle truppe jugoslave in disfacimento. Il bottino fu ingentissimo. L'esercito serbo era ottimamente armato e dotato di materiali inglesi, francesi e cecoslovacchi. In basso a destra il congiungimento fra le truppe tedesche e italiane in Jugoslavia avvenne nei pressi di Monstar. in Erzegovina e coronò il fulmineo successo della campagna condotta con estrema decisione dei nostri Comandi.

    Il regno di Croazia

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    All'occupazione delle isole dalmate, oltre alle truppe da sbarco della Marina parteciparono reparti di giovanissimi volontari dalmati. Nella foto in alto
    a Curzola, in Dalmazia. In basso, da sinistra a destra Ante Pavelic, Poglavnik (capo) della Croazia. Nella sala del trono al Quirinale Vittorio Emanuele III designa a cingere la corona di Croazia Aimone di Savoia Aosta, Duca di Spoleto. Il Duca, che non prese mai possesso del suo
    regno, assunse il nome di Zvonimiro. A destra il Duca di Spoleto, re designato di Croazia.

    La conquista di Atene

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    24 aprile 1941, Epilogo vittorioso in Grecia: Truppe italiane sull'Acropoli davanti al Partenone. Il Re di Grecia e il suo Governo abbandonarono il continente e fuggirono a Creta, ultimo lembo di terra ellenica ancora libero. In basso aerei germanici sorvolano Atene dopo l'occupazione.

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    La campagna di Grebia venne completata con l'occupazione delle isole joniehe ed egee, all'infuori di Candia, che rimase ancora per qualche tempo in mano ai britannici. Nella foto in alto lancio di paracadutisti italiani sull'isola di Cefalonia. Nella foto in basso (a sin.): lo sbarco delle salmerie a Corfù. A destra in alto il tricolore sale sul castello veneto di Corfù. A destra in basso l'amm. Turr parla alle forze da sbarco prima dell'azione su un'isola dell'Egeo. Al centro a sinistra un aspetto curioso della guerra, a Roma la vecchia Via de' Greci cambia nome e viene intitolata ad una Medaglia d'Oro della campagna di Grecia.

    Siluri dal cielo

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    Aspetti della guerra aero-navale in Mediterraneo - in queste due foto è documentato l'eroismo degli aero-siluranti italiani, all'attacco di una formazione navale britannica. Nella foto in alto giunti in prossimità delle navi nemiche, gli aero-siluranti sganciano la loro arma micidiale. A sinistra è visibile il siluro
    lanciato contro una corazzata tipo « Barham ». A destra un altro aereo sta puntando sul suo obiettivo. Nella foto in basso (documento di fonte Inglese) dopo il lancio gli aero-siluranti sono nella fase del disimpegno, inseguiti dalla rabbiosa reazione nemica.

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    L'attività degli aero-siluranti italiani fu molto intensa, malgrado l'esiguo numero degli apparecchi disponibili e la loro lentezza, che li rendeva molto vulnerabili nella fase di avvicinamento. In alto a sinistra un aero-silurante ha sganciato. Al centro a sin. l'attacco ad un convoglio. E' visibile il ciuffo di spuma sollevato dalla caduta del siluro lanciato contro l'obiettivo. In basso lancio perfetto il piroscafo-nemico, colpito a poppa, affonderà in pochi minuti. In questi attacchi, condotti a distanza ravvicinata, la terribile reazione inglese inflisse gravi perdite ai nostri aero-siluratori. In alto a destra con una stretta virata, l'apparecchio si lancia sulle navi nemiche. Sotto la carlinga il siluro è pronto per il lancio. Al centro a destra l'insegna della 2784 Squadriglia aerosiluranti, alla quale appartenne l'asso Buscaglia. « Sono sempre quattro gatti a far la guerra », questo vogliono dire i quattro miei in equilibrio sul siluro.

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    Sugli eroismi e i sacrifici dei bombardieri italiani nelle dure battaglie del cielo Mediterraneo, basta il giudizio dell'ammiraglio inglese Cunningham che nelle sue Memorie così si esprime: « Non è esagerato affermare che il bombardamento aereo italiano fu il migliore che io abbia mai veduto, e molto
    superiore a quello tedesco. Più avanti, quando il nostro tiro antiaereo migliorò e i bei gruppi della Regia Aeronautica furono abbattuti dai nostri caccia della flotta, l'attività aerea italiana sul mare fu meno buona, ma la ricorderò sempre con rispetto. Ci si consolava al pensiero che c'era sempre più acqua che navi. Tuttavia ci sentivamo indifesi ». Nella foto convoglio inglese in navigazione nel Mediterraneo Orientale sotto il tiro dei nostri bombardieri.

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    10 novembre 1940, Il sommergibile « Pier Capponi » al comando del Capitano di Corvetta Romeo Romei, è uno dei più famosi della nostra flotta sottomarina in guerra per le leggendarie imprese di cui fu protagonista nella sua breve attività che va dal 10 giugno 1940 al 31 marzo 1941 giorno in cui scomparve in mare silurato dal smg. inglese Rorqual. La motivazione della medaglia d'oro al Comandante Romei che qui riportiamo è la migliore testimonianza: « Comandante di Sommergibile si distingueva sin dall'inizio del conflitto mondiale per perizia e valore. All'agguato in prossimità di importante base avversaria, attaccato di giorno da unità leggere di superficie, riusciva con insigne bravura a sfuggire alla caccia, nonostante le notevoli avarie che avevano menomate sensibilmente le possibilità di manovra della sua unità. Con coraggiosa determinazione e sicuro intuito manteneva ancora l'agguato nella zona e poteva così avvistare, in ore notturne, grossa formazione navale avversaria composta di una portaerei, di due navi da battaglia e di vari incrociatori e cacciatorpediniere. Precorrendo le teorie di impiego, successivamente adottate dai sommergibili, conduceva risolutamente in superficie l'attacco alla formazione e, pur di raggiungere il suo audace intento non esitava ad impiegare un motore termico in parziale avaria che con il rilevante fumo di scarico avrebbe potuto rivelare la sua presenza al nemico, portato a fondo l'attacco colpiva con due siluri una delle due navi da battaglia e con un terzo, probabilmente, un'altra unità, prendendo l'immersione soltanto dopo di avere constatato l'avvenuto scoppio delle armi. Nel corso di successiva missione scompariva in mare con la propria unità. Esempio di sereno ardimento, di eccezionale tempra di combattente e di elevate virtù militari ». (Canale di Sicilia notte sul 10 Novembre 1940, Basso Tirreno 31 Marzo 1941). Nella foto a sinistra il « Capponi » rientrato dalla missione pitturato a festa con la vedetta De Donno che avvistò la formazione inglese. A destra il Com.te Romeo Romei.

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    Notte sull' 11 novembre 1940, attacco degli aero-siluranti britannici contro il porto di Taranto. 24 apparecchi, partiti della portaerei « Illustrious », in navigazione nello Jonio, effettuarono una fortunata incursione sulla grande base navale italiana, ove sorpresero alla fonda e non protette dalle abituali reti parasiluri, le maggiori navi da battaglia della nostra flotta. La sorpresa riuscì in pieno e, con la perdita di soli sei apparecchi, gli inglesi ci inflissero le seguenti perdite: la « Littorio » colpita da tre siluri, la « Duilio » e la « Cavour » da uno e un incrociatore e un caccia colpiti da bombe lanciate da una formazione di bombardieri. Nella foto in alto una foto della ricognizione inglese effettuata dopo l'incursione. Le macchie chiare sul mare, intorno alle navi, sono dovute alla fuoriuscita della nafta dalle falle provocate dai siluri. Nella foto in basso una portaerei britannica, della squadra del Mediterraneo Orientale, che lanciò gli apparecchi contro Taranto e uno degli « Swordfish » che parteciparono all'attacco.
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    La notte di Taranto

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    Tre foto scattate a Taranto dopo l'incursione. In alto è visibile la « Cavour » poggiata sul fondo ed emergente solo con le torri corazzate. La vecchia corazzata, che era stata completamente rinnovata nel 1938, fu la più danneggiata e non potè più tornare in servizio. Rimorchiata a Trieste vi rimase fino all'armistizio e poi fu nuovamente affondata. In basso a sinistra uno dei sei aero-siluranti abbattuti viene ripescato nel Mar Grande di Taranto. Gli inglesi avevano abilmente evitato i palloni di sbarramento ed avevano lanciato i siluri a distanza ravvicinata, tenendosi quasi a pelo dell'acqua. In basso a destra i danni alla a Littorio. La corazzata, sebbene sommersa fino alla coperta, potè riprendere il mare dopo pochi mesi, I danni alle navi italiane furono particolarmente gravi per l'uso dei nuovissimi siluri magnetici, che scoppiavano sotto la chiglia delle unità.

    Capo Teulada

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    Quindici giorni dopo il disastro di Taranto, la marina inglese, pensando di aver neutralizzato per lungo tempo ogni velleità offensiva della marina italiana, tentò con grande spiegamento di forze un'operazione tendente a rifornire Malta e ad alleggerire la sua critica situazione. Partirono quindi, contemporaneamente da Gibilterra e da Alessandria, due formazioni navali, che si sarebbero dovute ricongiungere nel Mediterraneo centrale. Ma la flotta italiana, superiore ad ognuna delle due squadre nemiche (ma inferiore alle forze riunite degli inglesi) cercò di ostacolare l'azione di ricongiungimento e attaccò il nemico. Il contatto avvenne con il gruppo partito da Alessandria e durò per oltre un'ora. Le unità maggiori non vennero tuttavia impegnate che per dieci minuti e lo scontro si esaurì fra gli incrociatori, appoggiati dai caccia. Nessuna perdita, ma danni rilevanti a due incrociatori britannici, mentre da parte nostra risultò colpito il solo caccia « Lanciere ». Nella foto in alt: La «Vittorio Veneto » apre il fuoco contro gli incrociatori britannici. Nella foto in basso il fumo lontano delle navi inglesi che si sono sottratte al tiro delle nostre navi dopo che una salva ha colpito gravemente il « Berwick ».

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    Nel gennaio del 1941, in considerazione dell'inferiorità numerica dell'aviazione italiana nei confronti della RAF, fu decisa la dislocazione nel Mediterraneo di un Corpo Aereo Tedesco, forte di 500 apparecchi. I tedeschi, che presero possesso delle basi di Catania, Comiso, Trapani, Palermo e Reggio, avevano il compito di cooperare con l'Aviazione e la Marina italiana all'attacco di Malta e alle operazioni aeree sul mare. I loro successi furono molto brillanti e la cooperazione si mostrò molto fruttuosa. Particolarmente significativo l'attacco combinato di stukas, di bombardieri in quota e di aerosiluranti italiani contro la portaerei « Mustrious » che subì il 10 gennaio 1941 gravissimi danni nel corso in un'ampia operazione aero-navale che costò agli inglesi serie perdite. Purtroppo i piloti tedeschi non erano sufficientemente addestrati alla guerra sul mare e la loro cooperazione, nel campo della ricognizione aerea, con la nostra Marina fu quindi inferiore all'aspettativa. Nella foto aerei del CAT in volo di guerra verso Malta.

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    Nel momento più critico della guerra in Africa Settentrionale, cioè dopo la caduta di Tobruk e di Bengasi la Marina Italiana, pur avendo subito un altro scacco con il bombardamento navale di Genova, reso possibile da un inconcepibile disordine nella rete di avvistamento e da un sospetto ritardo nelle comunicazioni con la flotta in mare, vinse la sua più importante battaglia, riuscendo a portare in Africa, quasi senza perdite, l'intero « Afrika Korp » di Rommel. Fu veramente un'impresa eccezionale, anche perchè la situazione strategica nel Mediterraneo, con il possesso da parte inglese delle basi di Bengasi e di Creta, si era modificata a nostro sfavore. Nella foto Rommel passa in rassegna a Tripoli un reparto appena sbarcato.

    Gli incrociatori corsari

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    La guerra di corsa tedesca negli oceani, che nella prima guerra mondiale ebbe nell'incrociatore « Emden » la sua più alta e gloriosa espressione, ha scritto nel recente conflitto pagine di indiscutibile ardimento. A parte l'incrociatore pesante «von Spee» e la sua epica fine già ricordata in un precedente fascicolo, è doveroso ricordare altri nomi. Il 5 novembre 1940 prende il mare l'incrociatore « Ammiraglio Scheer » che in sei mesi di crociera affonda 16 navi nemiche per 90.000 tonnellate. Il 20 gennaio 1941 partirono da Kiel gli incrociatori « Scharnhorst » e « Gneisenau » che, attraversarono i campi minati del Nord e di qui, senza essere riconosciuti dagli inglesi che pure li avevano intercettati, passarono nell'Atlantico, facendo rotta fra l'Islanda e la Groenlandia. Le due navi, grazie ad un perfetto sistema di rifornimenti con petroliere scaglionate in punti prestabiliti dell'Atlantico, riuscirono ad affondare 22 navi in una crociera durata complessivamente due mesi, rientrando poi indenni a Brest. Analoga impresa fu compiuta dal «flipper» un incrociatore da 10 mila tonnellate che affondò tredici navi e rientrò incolume. Nella foto in alt: l'incrociatore « Scheer » in navigazione nell'Atlantico. Nella foto al centro l'incrociatore « Scharnhorst », In basso a sin. il comandante dello «Sheer», C.V. Krancke viene decorato con la Croce di ferro. A destra navi britanniche affondate dagli incrociatori corsari tedeschi.

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    Nel quadro della guerra al traffico britannico nell'Atlantico, dopo il successo ottenuto dalle quattro navi citate, il comando tedesco decise l'impiego della nuovissima corazzata da 42 mila tonnellate, « Bismark », da poco allestita. La « Bismark », con la sola scorta dell'incrociatore « Prinz Eugeh », entrò nel Mare del Nord il 18 maggio 1941 e dopo una sosta a Bergen per gli ultimi rifornimenti, si diresse verso la Groenlandia. Gli inglesi, che dalla loro ricognizione aerea, avevano saputo dei movimenti tedeschi, predisposero le misure di sicurezza, facendo partire da Scapa Flow la « Hood » e la « Prince of Wales ». Successivamente partirono, mettendosi in caccia, anche le altre grandi navi britanniche - la « King George », la « Repulse » e la portaerei « Vietorious », nonché numerosi incrociatori e caccia. Il 23 maggio al limite dei ghiacci la « Bismark » venne avvistata da un incrociatore che, mantenendosi fuori del tiro, segui col radar la rotta della nave nemica. Il giorno successivo anche la « Hood » raggiunse la « Bismark », assieme alla « Prince of Wales », ma l'esito del combattimento fu disastroso per gli inglesi. La « Hood », alla seconda salva della « Bismark », fu colpita e saltò in aria. Anche la « Prince of Wales » fu colpita e si salvò solo per le pessime condizioni di visibilità. Ottenuta questa vittoria, i tedeschi pensarono a ritirarsi su Saint Nazaire. Ma se il piano riuscì all'incrociatore, per la « Bismark » non fu possibile alcuno scampo. Inseguita da una muta di navi, colpita dagli aero-siluranti, impossibilitata a muoversi da una grave avaria al timone, la grande nave combattè fino all'ultimo e affondò con la bandiera spiegata al vento a circa quattrocento miglia a ponente di Brest. Nella foto in alto la corazzata « Hood », affondata dalla « Bismark ». Nella foto al centro la « Bismark » da 42 mila tonnellate, armata di otto cannoni da 380, In basso a sinistra una drammatica foto inglese sull'affondamento della « Bismark », presa da bordo dell'incrociatore « Dorsetshire » che fini col siluro il gigante ferito. In basso a destra l'Ammiraglio Liitjens, comandante della « Bismark ». Tutti gli ufficiali della unità tedesca caddero al loro posto di combattimento.

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    13.14 febbraio 1941, convegno navale italo-tedesco di Merano. Durante la riunione furono discussi i problemi strategici della guerra sul mare, con particolare riferimento al Mediterraneo, ove l'afflusso delle truppe tedesche dell'Afrika Korp, l'istituzione del CAT e l'imminenza delle operazioni contro la Grecia da parte della Wermacht, esigevano una più stretta cooperazione fra gli alleati. L'ammiraglio Raeder propose all'amm. Riccardi che le corazzate veloci della Marina italiana compissero puntate offensive di sorpresa nel Mediterraneo orientale contro il traffico inglese per la Grecia. La proposta tedesca non fu accolta, in un primo tempo, ma nella seconda metà di marzo, come vedremo, l'atteggiamento italiano cambiò, per l'intensificarsi del traffico britannico.

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    29 febbraio 1941, con un improvviso colpo di mano, reparti da sbarco britannici occuparono, nel Dodecanneso, l'importante base aeronavale di Castelrosso. Le conseguenze di una permanenza inglese nell'isola sarebbero state assai gravi per l'intero dispositivo italiano nell'Egeo ed avrebbe minacciato le stesse basi principali di Rodi e di Lero, allora isolate dalla Madrepatria. Il comando del Dodecanneso organizzò quindi la riconquista dell'isola. Una formazione di caccia e di torpediniere si presentò quindi di fronte a Castelrosso e protesse uno sbarco in forze. Il giorno successivo gli inglesi erano costretti alla resa o al reimbarco. Per la brillante azione, il comandante italiano Ammiraglio Biancheri venne tra l'altro insignito della altissima decorazione giapponese della Spada del Tenno».

    Barchini d'assalto a Suda

    SPOILER (click to view)
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    26 marzo 1941, fanno la loro comparsa nella storia della guerra i mezzi d'assalto italiani che, dopo la prima vittoria contro l'incrociatore « York », avrebbero dato molto filo da torcere al nemico con la loro audacissima onnipresenza in Mediterraneo. A Suda, al comando del tenente di vascello Faggioni vennero impiegati i cosiddetti barchini d'assalto, piccoli motoscafi che recavano a prua una fortissima carica d'esplosivo. La tecnica d'impiego dei barchini d'assalto era la seguente - rimorchiati da mas o da torpediniere in prossimità dell'obiettivo, i motoscafi, sfruttando la loro piccola mole e l'elevatissima velocità, si dirigevano contro il bersaglio. Poco prima dell'esplosione, che avveniva susseguentemente all'urto contro lo scafo nemico, i piloti dovevano farsi catapultare da uno speciale dispositivo, in modo da mettersi in salvo. Naturalmente l'operazione era quanto mai problematica e il più delle volte l'attacco si risolveva in un eroico sacrificio dell'assaltatore. In alto a sinistra il T.V. Faggioni, comandante dei barchini che affondarono a Suda l'incrociatore « York 2- da 10.000 tonnellate. A destra in alto le due fasi, di attacco e di rovesciamento in mare del pilota, dei barchini d'assalto. In basso il relitto dell'incrociatore « York » nella baia di Suda..

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    La tragedia di Capo Matapan

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    26.29 marzo 1941. Nel marzo del 1941 venne decisa dallo Stato Maggiore della Marina un'azione offensiva contro il traffico inglese nel Mediterraneo Orientale. Si puntava sulla sorpresa e sulla assenza delle navi di linea nemiche, segnalate dalla ricognizione aerea alla fonda net porto di Alessandria. Purtroppo questo presupposto mancò, così come mancò quasi totalmente l'appoggio aereo che avrebbe dovuto essere assicurato dal CAT e dell'aviazione italiana di Rodi. Fu quindi la nostra squadra composta dalla corazzata « Vittorio Veneto » da otto incrociatori e quattordici caccia al comando dell'Amm. Jachino, ad essere sorpresa e le conseguenze furono particolarmente gravi. Il comandante in seconda del Pola, Cap. di Fregata Brengola, al ritorno dalla prigionia, riferì anzi di aver visto nel quadrato ufficiali di una nave inglese, dalla quale venne raccolto dopo l'affondamento, un ordine di servizio dell'amm. Cunningam con il quale si incitavano gli uomini al combattimento contro un'importante formazione italiana. Quale ordine di servizio portava la data del 26 marzo, quando cioè le navi italiane non erano ancora uscite dai loro porti. L'Amm. Jachino, nel suo libro « Gaudo e Matapan », così fra l'altro commenta le rivelazioni del comandante Brengola, non è più lecito dubitare che purtroppo il nemico era stato tempestivamente informato dell'imminenza di una nostra operazione offensiva nel mediterraneo orientale. Nella foto in alto la « Vittorio Veneto», protagonista dello scontro di Gaudo e Matapan. Al centro a sin. la 1a divisione in navigazione verso Creta. Al centro a destra la bandiera di combattimento sale sul pennone della Vittorio Veneto. In basso le unità leggere britanniche .manovrano sotto il fuoco dei 381 della « Vittorio Veneto ». La foto è di fonte inglese e fu presa a bordo dell'« Orion ». Dopo il breve combattimento contro gli incrociatori britannici, la « Vittorio Veneto » venne attaccata da sei, aero-siluranti, ma con esito negativo. L'azione aerea, che partiva dalla « Formidable », si ripetè varie volte durante tutto il pomeriggio. Alle 15 fu colpita da un siluro a poppa la « Vittorio Veneto » che imbarcò 4000 tonn. d'acqua e rimase ferma per un'ora, riprendendo poi la navigazione a velocità ridotta (19 nodi). Questo colpo sfortunato ebbe gravi conseguenze. La formazione italiana si strinse intorno alla grande nave colpita ma ancora in piena efficenza e ne protesse il rientro. Ma gli aero-siluranti tornarono all'attacco al tramonto e pur mancando la corazzata, riuscirono a colpire il Pola » che rimase immobilizzato. Per tentare il rimorchio accorsero verso di esso gli altri due incrociatori della Ia Divisione (« Zara » e 4 Fiume »). Questa mossa, che avrebbe portato alla distruzione delle belle navi in un combattimento notturno alla cieca contro forze preponderanti, fu autorizzata dall'amm. Jachino nella persuasione che non vi erano corazzate inglesi in mare. Ma purtroppo, mentre il resto della squadra s'avvicinava alle coste italiane senza altri danni, il « Pola » immobilizzato e gli altri due incrociatori furono scoperti (col radar) dal grosso della squadra britannica che era a circa 4/5 miglia dalla Vittorio Veneto ». E così, prima che le navi italiane potessero reagire, il tiro concentrato di tre corazzate le ridusse a fiammeggianti relitti, assieme ai due caccia, « Alfieri e a Carducci ») che avevano tentato di colpire la « Warspite », la Valiant » e
    la Barham 3, col siluro. La battaglia di Gaudo e Matapari, era così finita con la perdita di tre incrociatori tra i migliori della nostra Marina e con il sacrificio di tremila Uomini. Il nemico aveva giocato bene le sue carte, forte delle « tempestive » e criminose informazioni oltre che della novità tecnica del radar. Nella foto in alto documento inglese sullo scontro di Gaudo, l'incrociatore a Gloucester centrato dalle salve da 381 della Vittorio Veneto.Al Centro a sin. la « Vittorio Veneto », colpita da un siluro inglese, sulla rotta del ritorno. La nave appare fortemente appoppata per l'acqua imbarcata. Ma, pur essendo stata privata di due delle 4 eliche, conservò una velocità di 19 nodi. Al centro a destra l'amm. Angelo Jachino, comandante a Gaudo e Matapan. In basso l'amm.Cattaneo Comandante della divisione incrociatori annientata a Matapan, che cadde nello scontro e l'incrociatore Zara, nave ammiraglia della divisione.
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    9 dicembre 1940. Mentre le truppe italiane erano impegnate in Albania nella prima, sfortunata fase della campagna, le truppe britanniche, al comando del generale Wavell, iniziarono una massiccia offensiva contro le nostre unità attestate in pieno deserto nei pressi di Sidi el Barrani. Cominciava così il dramma della Decima Armata che dovette ritirarsi combattendo fino ad Agedabia in più di cinquanta giorni di impari lotta con un nemico preponderante e col torrido deserto Marmarico. La cartina mostra il teatro di guerra che si estese ben presto a tutta la Cirenaica.

    LA BATTAGLIA DELLA MARMARICA

    Abbiamo già illustrato, per i Balcani e il Mediterraneo, gli avvenimenti succedutisi fra l'ottobre 1940 e l'aprile 1941. Per quanto riguarda l'Africa Settentrionale siamo invece fermi al settembre, cioè al fulmineo balzo delle truppe di Graziani su Sidi el Barrani. Occorre quindi fare un passo indietro per esaminare con la dovuta attenzione lo svolgimento dell'offensiva britannica del dicembre 1940 e della suecessiva rapidissima controffensiva italo-tedesca. Per il lettore che non abbia chiaro nella mente un quadro cronologico del conflitto, riassumeremo nelle grandi linee la situazione strategica come si presentava all'alba del 9 dicembre 1940, quando il generale Waveli diede il segnale d'inizio al grande attacco su Sidi el Barrani. Il 28 ottobre l'Italia s'era andata a cacciare nel vespaio balcanico, attaccando la Grecia e ben presto, come abbiamo visto, quella che avrebbe dovuto essere una passeggiata militare s'era trasformata in una guerra di logoramento nella quale erano macinate giorno per giorno le nostre più preziose riserve. Ai primi di dicembre, anzi, la situazione delle nostre truppe s'era fatta drammatica e ad aggravare le cose era venuta, il 16 dicembre, la crisi dell'Alto Comando, dopo le dimissioni di Badoglio. Non meno grave si presentava la nostra situazione sul mare. Il colpo di Taranto ci aveva privato in una sola notte delle nostre migliori unità, mentre il possesso britannico di Malta rendeva precaria la navigazione nel Canale di Sicilia e quindi difficoltosi i rifornimenti alla Libia. Il comando inglese quindi, che aveva provveduto ad ammassare un grosso nerbo di truppe nella zona delle Piramidi e del Canale di Suez, doveva ritenere a ragione che fosse giunto il momento propizio per un attacco alle nostre forze dislocate in Africa Settentrionale. Attaccando, avrebbe infatti avuto la certezza quasi matematica di non dover fare i conti con rinforzi di una certa entità, tali da spostare l'equilibrio delle forze a suo sfavore. ma qual'era la situazione e la consistenza delle nostre truppe in Tripolitania e in Cirenaica? Sull'argomento sono stati scritti dei volumi. Infatti, per le vicissitudini politiche del Maresciallo Graziani, allora comandante in Africa Settentrionale, questa pagina della nostra recente storia è stata sviscerata in tutti i sensi, sia nel tentativo di distruggere il mito del « Leone di Neghelli», sia con l'intenzione di difenderne l'operato. Certo è che tutti hanno dovuto riconoscere che Graziani fu messo in una situazione pressoché senza uscita. Le truppe a sua disposizione erano numericamente consistenti. Complessivamente il numero delle divisioni sotto il suo comando superava quello delle unità inglesi attaccanti. Ma la nostra era una superiorità soltanto apparente. Graziani disponeva di fanterie male armate, peggio equipaggiate, senza autocarri, senza rifornimenti, con insufficente protezione aerea, quasi del tutto prive di carri armati, se si escludano le famose « scatole di sardine » da tre tonnellate. Gli inglesi di Wavell, invece, oltre che su due divisioni corazzate, ma corazzate sul serio, potevano contare su una fanteria autotrasportata e su un'artiglieria modernissima e mobile. L'esito di una lotta tra la corazza e il fucile, fra l'uomo e la macchina non poteva quindi essere dubbio. Wavell lo sapeva assai bene, iniziando l'attacco, anche se non poteva immaginare quanto precarie fossero le condizioni dell'armata italiana. E lo sapeva anche Graziani, il quale dal giorno in cui aveva assunto il comando, aveva tempestato Roma di telegrammi i quali chiedevano sempre la stessa cosa: autocarri, carri armati, artiglierie. Gli si rispose sempre di no. E così, mentre in Grecia le nostre poche divisioni vacillavano di fronte alla vigorosa controffensiva greca, mentre in Libia rischiavamo di perdere una partita di fondamentale importanza, nella valle del Po rimanevano inutilizzati quei carri armati e quegli autocarri i quali avrebbero permesso, se non altro, di salvare dalla cattura il grosso dei 140 mila prigionieri che lasciammo nelle mani dei britannici da Sidi el Barrani ad Agedabia. Perche? Le tesi sono molte e in contrasto le une con le altre. Pare tuttavia che il comando supremo non avesse compreso come il fronte principale, il fronte sul quale si sarebbe potuta risolvere la guerra, nel bene e nel male, era quello africano. E difatti a Roma, prima dell'avventura greca, s'era sognato un attacco alla Jugoslavia. Per quell'attacco, poi rinviato a tempi più propizi, era stato sacrificato il fronte egiziano. Le conseguenze le illustrano, meglio di ogni discorso, le fotografie che pubblichiamo. In due mesi di campagna, dunque, retrocedemmo da Sidi el Barratti alla Sirte. E allora, solo allora, i rinforzi vennero. E con i rinforzi la controffensiva italo-tedesca di aprile. Anche quello del ritardato intervento germanico su uno scacchiere tanto importante è un elemento di polemica. E' comunque assodato che i tedeschi, i quali dopo la conclusione della battaglia di Francia avevano numerose unità disponibili per pronto impiego, abbiano offerto di concorrere alla campagna africana fin dall'agosto precedente e che l'offerta fu respinta da Badoglio. La risposta fu poi comunicata da Mussolini a Hitler nell'incontro del Brennero il 4 ottobre. Due mesi dopo il concorso dell'alleato sarebbe stato visto con occhi ben diversi: ma purtroppo tardi per evitare la catastrofe. Tornando all'offensiva britannica, di cui illustriamo le fasi nelle varie didascalie, riteniamo opportuno concludere dando la parola al nemico e precisamente al generale Fuller il quale così si espresse in merito: « La lezione che emerge da questa campagna segna, ancora una volta, il trionfo della forza meccanica sulla forza umana e, inoltre, dell'abilità sul numero. Dal principio alla fine gli italiani vennero dominati non già perchè fossero dei mediocri soldati ma parche, anche se fossero stati i migliori di tutti, non avrebbero potuto a lungo resistere alla superiorità di metallo che gli inglesi potevano mettere in campo ». Lo stesso insospettabile critico militare giustifica l'alto numero dei prigionieri catturati (140 mila) con questa superiorità di mezzi che ad un certo momento rendeva impossibile ed illogica ogni resistenza. C'è da stupirsi, dunque, che la campagna per la conquista della Cirenaica sia durata tanto a lungo e non si sia conclusa con l'investimento della stessa Tripolitania, che pure era fuori dagli immediati obiettivi dell'azione britannica. Ed è questo il maggior merito dei comandanti e dei soldati italiani, i quali, in condizioni precarie, seppero reggere alla prova meglio di quanto, pochi mesi dopo, avrebbe retto gli inglesi sotto i colpi di maglio di Rommel. Ed eccoci, dopo il sanguinoso riflusso da Sidi el Barrani a El Agheila, alla controffensiva. Il merito primo di questa miracolosa ripresa, va alla Marina Italiana che nel momento più buio della guerra seppe, sia pure con forze ridotte e in condizioni strategiche proibitive, assicurare i collegamenti con la Madre Patria, portando sul suolo africano, quasi senza perdite, l'armata di Rommel. Ma poi va dato atto a questo eccezionale stratega delle sue doti di intuizione, di decisione, di manovra. Appena messo piede a Tripoli, Rommel diede una nuova impronta alla guerra: portava con sè, infatti, lo spirito della guerra lampo. Era, cioè, il vessillifero di concezioni nuove dell'arte militare, di una nuova tecnica, di una nuova strategia. Anche gli inglesi, che pure ci avevano sanguinosamente provato nel deserto, fra eserciti metropolitani, avrebbero avuto qualcosa da imparare a proprie spese. E lo impararono, fra il 1° e il 15 aprile, quando persero tutto quello che quattro mesi prima avevano faticosamente conquistato in due mesi. Con gli italo-tedeschi a Sollum, con la Grecia e la Jugoslavia conquistate. Con Creta sul punto di essere investita. Con la flotta inglese nuovamente in difficoltà. Cioè con quella che fu definita allora la « Primavera radiosa dell'Asse ». Sul Nilo e nelle steppe della Russia s'andavano però addensando le nubi di un grande uragano estivo...

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    Il Maresciallo Graziani aveva raggiunto Sidi el Barrani alla metà di settembre del 1940. Pur attaccando fulmineamente le truppe britanniche, il Capo di
    Stato Maggiore dell'Esercito si era dichiarato contrario all'iniziativa in considerazione della scarsa mobilità delle sue truppe, della deficenza dei rifornimenti e delle gravi difficoltà logistiche imposte da un allungamento del fronte in pieno deserto. Il Maresciallo, anzi, sollecitato, a riprendere l'offensiva dopo un mese di sosta, rispondeva a Roma di non essere nemmeno in grado di arrestare con successo un eventuale attacco nemico. Drammatiche furono anzi, in qual periodo, le sue richieste di mezzi corazzati e motorizzati che rimasero quasi tutte inascoltate. Intanto i britannici andavano ammassando nella Valle del Nilo ingenti forze richiamate dai quattro angoli dell'Impero. Nella foto in alto a sin. un trombettiere delle truppe indiane accampate presso le Piramidi. Nella foto in alto a destra camionette britanniche in ricognizione nel deserto in attesa dei rifornimenti in un campo di fortuna avanzato. Nella foto in basso carri armati pesanti dell'esercito britannico avanzano verso Sidi el Barrani per partecipare all'offensiva di Wavell.

    L'offensiva di Wavell

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    L'armata del generale Wavell raccolse sotto le sue bandiere contingenti di truppe d'ogni paese del Commonwealth ed anche notevoli aliquote di degaullisti attinti dalle forze francesi già di stanza in Siria. Furono quindi truppe eterogenee che sferrarono l'attacco contro l'armata di Graziani. Ma il loro armamento modernissimo, la schiacciante superiorità di mezzi corazzati e motorizzati e il massiccio concentramento di fuoco della loro artiglieria ebbero ragione delle nostre fanterie scarsamente equipaggiate. In alto a sin. il gen. Wavell passa in rassegna a Marsa Matruh, nell'imminenza dell'attacco, un reparto metropolitano britannico. Al centro a sin. un reparto dell'ANZAC (Australia e Nuova Zelanda) sbarca a Suez per partecipare all'offensiva di dicembre. In basso a sin. Truppe camellate sudanesi. In alto a destra Spahis francesi in ricognizione nel deserto. Le truppe degaulliste operarono soprattutto contro i nostri presidi nell'interno. In basso a destra un posto di ascolto degli aerofonisti inglesi sulla costa egiziana.

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    Il 9 dicembre, raggiunta con i rifornimenti ed i rinforzi, la proporzione di due a uno per quanto riguardava le fanterie e dì dieci a uno per quanto concerneva i mezzi motorizzati e blindati, Wavell sferrò il suo formidabile attacco sulle truppe italiane attestate a Sidi el Barrani. Il primo urto fu sostenuto dal Raggruppamento Maletti, raggiunto non soltanto di fronte ma anche sul rovescio, a causa di un'infiltrazione non controllata di mezzi corazzati inglesi fra il raggruppamento e la divisione « Cirene ». Dopo un'eroica resistenza, durante la quale cadde da prode il Generale Pietro Maletti, le nostre linee, investite dai carri britannici e da un imponente concentramento di fuoco, furono travolte. Già la sera del 9 dicembre la situazione era gravemente compromessa: il Raggruppamento Maletti era distrutto, la Divisione Libica era annientata, mentre la 2a libica ripiegava quasi circondata e la Divisione CC. NN. « 3 Gennaio » si difendeva strenuamente sulle sue posizioni da attacchi concentrici. Anche le altre divisioni, cioè la « Marmarica », la « Cirene » e la « Catanzaro » risultavano severamente impegnate da forti nuclei esploranti avversari. In alto a sin. truppe corazzate britanniche attaccano a ondate successive le linee italiane a Sidi el Barrani. Al centro a sin. fanterie inglesi all'attacco. In basso a sin. micidiale fu il tiro dell'artiglieria britannica, impegnata in massa per la prima volta in una guerra africana. In alto a destra una drammatica foto scattata nelle prime linee italiane. Il mitragliere, fermo al suo posto, punta la sua arma contro gli aerei della RAF che spezzonano le nostre fanterie in ripiegamento. In basso a destra un CR 42 della nostra aviazione abbattuto sull'Egitto.

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    10 dicembre 1940. Dopo una strenua resistenza cadeva Sidi el Barrani, difesa dai militi della «3 gennaio ». Le superstiti forze di Graziani ricevono l'ordine di ripiegare sulla linea dell'Halfaya, tallonate dalla 7a divisione corazzata britannica, dalle truppe dell'ANZAC e da una divisione indiana. Ma, mentre la Cirene raggiunse il ciglione ove avrebbe dovuto tentare di ricostituire il fronte, la « Catanzaro » venne sorpresa 1'11 dicembre dai mezzi corazzati avversari e semidistrutta. Il colpo avrebbe avuto effetti assai gravi per lo schieramento italiano che rimase privo di una delle poche grandi unità disponibili per munire le affrettate fortificazioni campali disposte nel quadrilatero Halfaya-Sidi Omar-Capuzzo-Sollum. Intanto grosse formazioni aeree nemiche e unità della flotta britannica battevano le nostre installazioni aero-navali da Bardia a Tobruk e oltre. Nella foto in alto artiglieria britannica in azione dinnanzi a Sollum. Nella foto in basso bombardieri in missione di volo sulle retrovie britanniche in Egitto. Intensa fu l'attività della nostra aviazione che nere, si trovò a fronteggiare la temibile caccia britannica. Difatti la nostra 5a squadra aerea in quei terribili giorni si sacrificò quasi per intero.

    La resistenza Italiana

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    Di fronte a Bardia la resistenza italiana, malgrado le perdite subite pei primi quattro giorni dell'offensiva inglese, si irrigidisce. Le truppe, al comando del Generale Bergonzoli, il leggendario « Barba Elettrica », reagiscono vigorosamente al nemico che cerca di infiltrarsi nelle difese della Piazza appoggiato anche da intensi bombardamenti navali. Ma il nemico non rimane fermo dinnanzi a Bardia, esso lancia nel deserto le sue colonne motorizzate e cerca di aggirare le nostre posizioni. Il Comando italiano, con le poche riserve a sua disposizione e con l'unica brigata corazzata (carri leggeri e medi), prepara la difesa della stretta di Ain el Gazala e del ciglione di Derna. Nella foto in alto mitragliere pesanti italiane in postazione di fronte a Bardia sparano sui carri inglesi. Nella foto in basso fanterie italiane lanciate al contrattacco in Marmarica affrontano il fuoco di interdizione britannico.

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    15 dicembre 1940. Viene decisa dal comando italiano la difesa ad oltranza della piazza di Bardia ove si attestano per l'estrema resistenza tutte le forze semiaccerchiate che ancora lottavano al confine della Libia. La situazione di queste truppe è drammatica. La divisione « Marmarica » è quasi intatta, ma la « 28 ottobre » è ridotta alla metà dei suoi effettivi, mentre la « 23 marzo », la « Cirene » e la « Catanzaro » sono rappresentate appena da qualche reparto sfuggito alla morsa britannica nei giorni precedenti. Il 17, mentre si va completando l'accerchiamento delle posizioni italiane a Bardia, con la quasi definitiva interruzione delle comunicazioni per Tobruk, nella battaglia interviene con tutta la sua potenza la flotta britannica di Alessandria. Sembra finita per gli italiani asserragliati nello loro posizioni assediate, privi di collegamenti e di rifornimenti, bersagliati dalla terra, dal cielo e dal mare. Sarà invece l'inizio di un'epica battaglia, che durerà diciassette giorni. In alto a sin. il gen. Pietro Maletti, eroicamente caduto nei primi giorni dell'offensiva britannica. In basso a sin. un pezzo anticarro italiano viene portato in postazione sotto il tiro dei grossi calibri britannici. In alto a destra un'azione di pattuglia degli italiani assediati a Bardia. Al centro a destra dura lotta tra le sterpaglie della Marmarica. I fucili mitragliatori nulla possono contro l'acciaio dei carri britannici. In basso a destra un pezzo anticarro da 47 cerca di trattenere i carri nemici. La scarsezza dell'armamento anticarro fu una delle cause principali del rovescio italiano.
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    Le gesta e gli eroi

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    Nella difesa di Tobruk si distinse particolarmente la divisione Sirte che, insieme a reparti dell'esercito e della marina, difese la piazzaforte. La relazione inglese « Da Dunkerque a Bengasi » disse di questi nostri uomini: « Le truppe di Tobruk combatterono molto risolutamente, e infatti la resistenza appare la più forte che i britannici abbiano incontrato fino a questo momento. La preparazione per l'attacco è stata più elaborata che usualmente, e gli attaccanti soffrirono di più che nelle precedenti operazioni ». Nella foto la Sirte sfila in
    parata di fronte al Maresciallo Graziani ed al comandante della divisione, generale Vincenzo della Mura, decorato dell'Ordine Militare di Savoia per la difesa di Tobruk.

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    Dalle martoriate difese di Tobruk le nostre truppe mostrarono al mondo ammirato cosa potesse il valore del soldato italiano. Per tutti vale il seguente episodio:
    Capitano 69° Fanteria Div. Sirte ERNESTO SIMINI. Medaglia d'Oro alla memoria. «Volontario di quattro guerre diede costantemente prova di purissima fede verso la Patria e di spiccato costante valore. Durante l'assedio di Tobruk, alla vigilia dell'attacco avversario, superiore di forze e di mezzi, infondeva nell'animo dei propri dipendenti il fermo proposito di sacrificarsi piuttosto che cedere. Sferratosi l'attacco, benché ferito una prima volta, si esponeva dando esempio di calma e di fiducia in un momento in cui il sacrificio appariva inevitabile. Ferito una seconda volta, circondato da ogni parte, decimato il reparto, esaurite le munizioni, si slanciava alla testa dei propri uomini contrattaccando con indomito valore. Ferito una terza volta ed impossibilitato a muoversi, spinto ormai con l'aninto al di la del sacrificio, persisteva ad incitare con la voce i superstiti sino a quando, in unii estrema offerta, inneggiando all'Italia, preferiva sopprimersi piuttosto che cedere. Sublime esempio di apostolato della Patria». (Tobruk. 21 gennaio 1941).

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    Caduta Bardia, gli inglesi ripresero con maggiore ampiezza il loro movimento verso Bengasi. Il 10 gennaio iniziavano con cinque divisioni, di cui due corazzate, l'investimento della piazzaforte di Tobruk, presidiata da una sola divisione di fanteria e da elementi della marina, nonchè da un battaglione della Milizia. Anche qui, come a Bardia, la lotta fu dura e aspra. Solo nel pomeriggio del 22 gennaio, cioè dopo dodici giorni di battaglia, gli australiani riuscirono ad aprire un varco nel dispositivo italiano e a penetrare nell'abitato di Tobruk. Tuttavia, nel settore occidentale, alcuni capisaldi continuavano nella loro resistenza, fino a quando non venivano sommersi. Nel porto, dopo che ne erano usciti gli ultimi piccoli convogli recanti i feriti, il vecchio incrociatore « San Giorgio », che ormeggiato nella rada aveva dato un prezioso contributo alla difesa della piazza con le sue artiglierie, veniva fatto saltare. Nella foto la nave «San Giorgio» autoaffondata nel porto di Tobruk. La foto è presa da bordo di un apparecchio britannico mentre ancora nel porto si combatte.

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    Abbarbicati alle modeste fortificazioni campali erette nei primi mesi di guerra, gli italiani resistettero a Bardia con una tenacia e un eroismo che meritarono il rispetto dello stesso avversario. Investita da due divisioni corazzate e da varie altre truppe non indivisionate, la piazzaforte tenne duro fino al gennaio respingendo tutti gli attacchi. Solo quando Wavell iniziò con tutte le forze a sua disposizione l'attacco generale e concentrico, Bardia, dopo altri due giorni di tenace difesa, dovette capitolare alla superiorità del numero e dell'armamento. Il cinque gennaio 1941 Bardia s'arrendeva, alcuni capisaldi avevano resistito fino all'ultima cartuccia. In alto a sinistra gli inglesi entrano a Bardia. Al centrò a sinistra una curiosità della guerra. Fra le squadriglie della RAF che parteciparono alla battaglia in Africa Settentrionale vi era anche la 224' che venne fondata a Otranto nel 1916 fregiandosi del distintivo della città. Nel 1938 anche Mussolini credeva al motto della squadriglia «Fedele all'Amico »! In basso a sin. dopo un'impari lotta contro i mezzi corazzati britannici alcuni fanti italiani si arrendono davanti a Bardia. In alto a destra due neozelandesi osservano un carro leggero italiano catturato a Sollum. Al centro a destra una veduta aerea della rada di Bardia dopo l'occupazione britannica. Sono visibili le navi affondate dal bombardamento aero-navale britannico. In basso a destra il gen. Beresford-Peirse comandante della Divisione motorizzata indiana che fu, con la 7a. corazzata, la principale protagonista dell'offensiva.

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    Occupata 'Tobruk, gli inglesi ebbero nelle loro mani una preziosa base di rifornimento che ridusse notevolmente la lunghezza delle linee di rifornimento attraverso il deserto. L'offensiva potè quindi riprendere con maggiore decisione, anche in considerazione delle gravi perdite italiane e della situazione di crisi in cui si trovavano le nostre divisioni residue. Dopo un duro combattimento a El Mechili, ove Graziani aveva concentrato le poche forze corazzate di cui disponeva, i britannici compivano una manovra a vasto raggio tendente ad intrappolare le truppe italiane poste a difesa di Derna e di Bengasi. Le due località, anche per risparmiare le popolazioni civili, furono quindi sgomberate senza combattimento. Non per questo, tuttavia, la lotta scemava d'intensità. Il 5 e il 6 febbraio, anzi, la 10" armata si sacrificava quasi al completo per bloccare l'avanzata nemica. Cadeva anche il suo comandante, gen. Tellera. Il 6 febbraio Bengasi veniva occupata da reparti inglesi. In alto a sin. una sentinella inglese nel porto di Tobruk. Sono visibili in lontananza i velieri adibiti dai britannici al traffico di rifornimento costiero. Al centro a sin. i britannici a Derna. In basso a sin. truppe inglesi entrano a Bengasi accolte in silenzio dalla popolazione italiana. In alto a destra l'umorismo del fante italiano non venne mai meno, ecco l'albergo «Bellavista». Al centro a destra unità neo-zelandesi all'attacco della cinta fortificata di Tobruk. In basso a destra un CR 42 italiano abbattuto dalla caccia britannica in un combattimento sul cielo di Bengasi.

    Crimini di guerra

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    Guerra spietata, senza gesti di cavalleria e senza esclusione di colpi, quella in Africa Settentrionale. Queste due drammatiche fotografie documentano un episodio che non è il solo verificatosi lungo tutto l'arco del fronte, un ospedaletto da campo viene mitragliato da bassa quota dalla caccia britannica. Nella foto in alto medici, infermieri e feriti escono dalle tende per mettersi in salvo. Nella foto in basso il tragico epilogo. Sono visibili le nuvolette di sabbia alzate dai colpi.

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    Dopo l'occupazione di Derna e di Bengasi, le truppe italiane in ritirata subirono l'ultimo grave colpo sulla strada fra Carcuna e Agedabia, interrotta dai mezzi corazzati britannici prima che il grosso fosse passato. Tuttavia anche in quest'occasione i nostri reparti si comportarono con molto valore nella disperata battaglia si immolarono quasi tutti i nostri carri. Ma non invano, la capacità offensiva dell'avversario poteva dirsi ormai esaurita. E difatti, mentre gli inglesi si arrestavano fra Agedabia e El Agheila, le nostre truppe potevano finalmente riorganizzarsi. Provvidenziale sosta, quella britannica! Nel corso dei due terribili mesi di lotta, le truppe italiane avevano perso quasi tutti i loro materiali, magazzini e depositi, avevano dovuto distruggere le più efficienti installazioni dell'aeronautica e della marina, avevano lasciato nelle mani del nemico, più di tremila autocarri cioè quasi i due terzi dell'intera loro disponibilità. Le perdite in morti, feriti e prigionieri non erano state meno dolorose, 40 mila uomini nella prima fase della battaglia, 45 mila uomini a Bardia, 25 mila a Tobruk, 15 mila a sud di Bengasi. Nella foto in alto una lunga colonna di prigionieri italiani in marcia verso i campi di concentramento egiziani. In basso a sinistra militi della «3 gennaio » e soldati dì fanteria fatti prigionieri a Sidi el Barrani nei primi giorni dell'offensiva non hanno rinunciato al cagnolino che aveva vissuto la loro drammatica vicenda. In basso a destra il gen. Bergonzoli, già comandante della piazzaforte di Bardia, catturato e sfuggito dalle mani del nemico con una epica marcia nel deserto, fu poi fatto prigioniero a Beda Fomma nell'ultima battaglia d'arresto dell'offensiva britannica.

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    Nel dicembre del 1940, vinta la battaglia aerea d'Inghilterra e stroncate le velleità offensive italiane in Egitto e in Grecia, il fronte interno britannico si risollevò dalla profonda depressione che era seguita al disastro di Dunkerque. Gli inglesi ritenevano infatti di aver superato il momento più difficile della guerra e guardavano con rinnovata fiducia alle loro forze armate, lo spettro dell'invasione s'allontanava e il nemico cominciava a trovare sul suo cammino molte impreviste difficoltà. Naturalmente le matite dei caricaturisti si sbizzarrirono, accanendosi in particolare sulle disavventure italiane. Ecco quattro vignette apparse sul « Punch » che illustrano lo stato d'animo degli inglesi dopo le prime vittorie. In alto a sin. l'« Asse totalitario a, nel quale il disegnatore include anche il Giappone) è raffigurato da tre scimmiette. Il loro motto è, non sentire, non vedere, non parlare. In alto a destra Hitler vuole iniziare la guerra lampo contro l'Inghilterra, ma a contrastargli il passo c'è la Home Fleet e l'operazione finirà in un ruzzolone giù dalla banchina. In basso a sinistra Anno Domini 1940, l'invasione romana. Mussolini potrà scendere in Inghilterra solo col paracadute. La vignetta allude alle perdite subite dal Corpo Aereo Italiano sulla Manica. In basso a destra le legioni romane arrestate sulla via di Atene dai Greci. Un euzone trascina le insegne romane e un fascio spezzato.

    L'epopea di Giarabub

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    Dopo la conquista inglese della Cirenaica, completata nei primi giorni di febbraio, rimasero tuttavia in mano italiana due oasi completamente isolate nel deserto, Cufra e Giarabub. Cufra, che oltre un decennio prima aveva visto la fine della ribellione senussita, resistette fino al 1" marzo e poi dovette capitolare di fronte ad un attacco in forze avversario. Ma Giarabub, con un presidio misto di nazionali e di libici continuò a tenere alta la bandiera ancora per un mese. Nell'oasi un pugno d'uomini, stretto intorno all'eroico comandante col. Castagna, tenne testa ai reiterati attacchi di una divisione nemica e resistette impavido ad un incessante martellamento dall'alto. Numerosi inviti alla resa furono rivolti a Castagna dal nemico, furono tutti sdegnosamente respinti. Il presidio, solo saltuariamente rifornito dall'aviazione, combattè oltre ogni limite di umana resistenza. Solo il 24 marzo, esaurita ogni risorsa, attaccato dal nemico fin nel cuore dell'oasi, Giarabub capitolò. Ma aveva scritto una indimenticabile pagina di eroismo. Nacque allora la « Canzone di Giarabub » che divenne popolarissima in tutta Italia. Nella foto in alto una veduta aerea di Giarabub. In basso a sinistra il col. Castagna, comandante del presidio di Giarabub, osserva da un posto avanzato le linee britanniche. In basso a destra la ridotta centrale di Giarabub, intorno alla quale si svolse l'ultima disperata resistenza. Sulla torretta, per oltre due mesi, sventolò il tricolore, orgogliosamente levato nella eterogenea marea delle forze nemiche assedianti.

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    12 Febbraio 1941. A Bordighera Mussolini si incontra con il generale Franco e con il ministro degli esteri spagnolo Serrano Sufier. Nel colloquio Mussolini cercò invano di convincere il Caudillo a intervenire a fianco dell'Asse nella guerra contro l'Inghilterra. Un intervento spagnolo avrebbe messo in crisi la flotta britannica e, con la chiusura dello stretto di Gibilterra, avrebbe arrecato un grave colpo all'intero dispositivo strategico inglese nel Mediterraneo. Ma il dittatore diede risposte evasive e poi rifiutò senz'altro di impegnarsi in un conflitto pieno di incognite. 11 maggio 1941, una sensazionale notizia mette a rumore il mondo: Rudolf Hess, braccio destro di Hitler e suo successore designato, salito su un « Messerschmidt », volò sull'Inghilterra e là, colpito dall'antiaerea, scese col paracadute. I tedeschi dichiararono subito che Hess era stato spinto al suo gesto da una grave forma di esaurimento nervoso e che, nella sua mente malata, aveva ritenuto di poter trattare la pace col nemico, pur senza aver interpellato in precedenza il Fuhrer. Effettivamente Hess portava a Londra un Progetto di pace basato sul rispetto dell'impero coloniale britannico, con la sola esclusione delle ex colonie tedesche. Non si hanno tuttavia prove che questo piano fosse stato concordato in precedenza o che Hess fosse stato spinto da ambienti responsabili al suo folle volo. E' da notare che a Norimberga il vice-Hitler venne riconosciuto infermo di mente. A destra Rudolf Hess. A sinistra i resti del suo apparecchio.

    L'Afrika Korps

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    Come abbiamo visto, l'offensiva britannica in Cirenaica si arrestò nella prima quindicina di febbraio per il totale esaurimento delle truppe, provate da due mesi di combattimenti continui, per il logorio del materiale e per i problemi provocati dalla lontananza delle basi logistiche. Inoltre l'imminente intervento germanico in Grecia, a sostegno delle truppe italiane, aveva indotto il comando britannico a distogliere notevoli aliquote dal fronte libico per guarnire la Tessaglia e Creta, la cui importanza strategica agli effetti della guerra aero-navale era considerata predominante. Ma, mentre il generale Wavell sostava fra Agedabia e El Agheila, logorando le sue truppe in inconcludenti azioni di pattuglia, a Tripoli s'andava ammassando una nuova poderosa unità. Sbarcava cioè sul suolo della Libia il famoso Afrika Korps di Rommel, destinato a dare man forte alle provate truppe italiane. E con i tedeschi, che facevano la loro comparsa con mezzi motorizzati e corazzati moderni ed efficenti, sbarcavano truppe fresche rimaste fino a quel momento sul territorio metropolitano. Si sentiva, finalmente, dopo un semestre di errori a catena, l'effetto del cambio della guardia verificatosi allo Stato Maggiore italiano, ove Cavallero aveva sostituito Badoglio. Così, malgrado la minacciosa presenza del naviglio inglese, forte delle basi di Creta, di Tobruk e di Bengasi, la. Marina trasportò in Africa un nuovo esercito, dotato di quei carri e di quei camion che Graziani aveva inutilmente richiesto in una serie di drammatici telegrammi prima del disastro. Nella foto a sin. un grosso calibro tedesco in postazione a El Agheila. In alto a destra il generale Erwin Rommel, comandante dell'Afrika Korps Tedesco, durante una ricognizione nel deserto. In basso mezzi motorizzati e cingolati tedeschi in marcia da Tripoli verso il fronte.

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    8 febbraio 1941. Il Maresciallo Graziani rassegnò le dimissioni dal comando delle truppe in Africa Settentrionale. Mussolini le accettò, chiamando a sostituire Graziani il gen. Italo Gariboldi, già comandante della 5' Armata dislocata in Tripolitania. Tuttavia, da allora fino alla fine della campagna, il comando effettivo delle operazioni passò ai tedeschi. Rommel, che nel deserto si guadagnò il bastone di maresciallo e un'imperitura fama di grande stratega, non perse tempo. Il 24 marzo, a poco più di un mese dallo sbarco delle sue truppe, dopo aver saggiata le capacita di reazione avversane, effettuò il primo fortunato colpo di mano. L'azione, condotta in stretta collaborazione da reparti italiani e tedeschi, portò alla conquista di El Agheila. Due divisioni corazzate, una italiana e una tedesca, una divisione di fanteria italiana e altri reparti germanici avevano iniziato così, senza che il nemico se ne rendesse conto, la controffensiva generale. Nella foto in alto la preparazione dell'attacco, artiglierie italiane in azione. Al centro una compagnia italiana all'assalto nel deserto. In basso la conquista di una ridotta fortificata britannica. Il nemico si arrende all'impeto travolgente dei nostri bersaglieri.

    La controffensiva Italo-Tedesca

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    Sei giorni dopo l'occupazione di El Agheila, Rommel, contro il parere di Gariboldi, si ritenne pronto per tentare una penetrazione in profondità nelle linee nemiche. Così il l° aprile lanciava i suoi panzer jager all'attacco di Marsa el Brega, trascinando nello slancio anche la divisione « Ariete », da lui dipendente. Il giorno successivo cadeva Agedabia. Il 3 aprile a Ghemmes, il 4 a Bengasi. Stava accadendo l'incredibile, gli inglesi sorpresi da quell'attacco travolgente, si ritiravano in disordine verso oriente, tallonati dagli italo-tedeschi. In alto la fine di un carro armato britannico, colpito in pieno dai carri dell'Ariete, avanzanti verso Bengasi. Al centro fanterie italiane all'attacco di un ciglione tenuto da reparti indiani nel Gebel cirenaico. In basso mentre infuria il ghibli, i bersaglieri di un reparto motorizzato avanzato, protetti dalle nostre autoblindo, all'attacco delle retroguardie inglesi.

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    Dopo l'occupazione di Bengasi, il geniale piano d'attacco del generale Rommel si sviluppò con precisione e puntualità cronometriche. Le truppe italo-tedesche vennero divise in quattro colonne che, senza preoccuparsi dell'inseguimento diretto dei britannici in fuga, puntarono direttamente verso Ain el Gazala e Tobruk per tagliare al nemico le vie della ritirata. La colonna settentrionale seguì il disegno della costa e lungo la Balbia riprese Barce (6 aprile), Cirene (8aprile) e Derna (9 aprile). Le colonne centrali puntarono su El Mechili e poi su Derna e Tobruk, ove giunsero 1'11 aprile, pur senza riuscire a penetrare nella piazzaforte. La colonna meridionale, invece, da Agedabia si inoltrò nel deserto, aggirando il Gebel e ricongiungendosi sulla costa alle altre truppe operanti. Ogni tentativo di resistenza dei britannici, di fronte al fulmineo saettare di queste colonne motorizzate e corazzate fu vano, lo dimostra la incredibile rapidità dell'avanzata italo-tedesca. E difatti, partite da Agedabia il 2 aprile, le truppe di Rommel avevano riconquistato, otto giorni dopo, tutta la Cirenaica fino a Tobruk. Nella foto in alto carri tedeschi all'attacco nella zona di El Mechili. Al centro una colonna motorizzata britannica sorpresa dai panzer tedeschi cerca di sfuggire al loro tiro micidiale. In basso sulle vie della ritirata britannica, carri armati distrutti e abbandonati.
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    La sconfitta Inglese

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    Giunti, il dieci aprile, in vista di Tobruk, gli italo-tedeschi riuscirono ad imbottigliare nella piazzaforte un forte contingente nemico, valutato a circa quaranta., cinquantamila uomini. Poi, mentre si iniziava l'investimento della piazzaforte, reparti di avanguardia continuavano l'offensiva verso il confine egiziano. Bardia veniva rioccupata il 12 aprile, Ridotta Capuzzo il 13. Sollum era invece investita due giorni dopo. Con questo ritorno sulle posizioni eroicamente difese quattro mesi prima, si chiudeva la strepitosa controffensiva africana dell'Asse. Nella foto in alto autoblindo tedesche in un combattimento notturno contro i britannici in ritirata. Nella foto in basso reparti italo tedeschi si attestano dinnanzi a Tobruk. Intorno alla piazzaforte assediata la Blitz Krieg, la famosa guerra lampo, si trasformerà ancora una volta in guerra di posizione dinanzi alla piazza assediata che rappresentò una pericolosa minaccia per i nostri schieramenti avanzati.

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    Le perdite britanniche durante la prima controffensiva italo-tedesca furono notevolissime. Le truppe britanniche persero infatti oltre 30.000 prigionieri e quasi tutto il loro materiale meccanizzato e corazzato. Solo la tenace resistenza di Tobruk, resa possibile dall'appoggio navale ed aereo che era mancato ai nostri quattro mesi prima, consenti agli inglesi di salvare dalla distruzione completa tre divisioni. Bisogna però notare che quando si asserragliarono a Tobruk i britannici avevano dinnanzi a se solo le avanguardie di due divisioni, la 5a tedesca e l'« Ariete ». Fu quindi un notevole successo tattico, il loro imbottigliamento, anche se poi non fu possibile eliminare quella che si rivelò successivamente una pericolosa spina nel fianco al nostro schieramento. In alto una foto di fonte inglese da Tobruk assediata. Nel porto ai relitti della prima occupazione si aggiungono quelli delle navi inglesi affondate dall'aviazione dell'Asse. Sullo sfondo brucia un deposito di carburante colpito dagli Stukas. Nella foto in basso la Ridotta Capuzzo riconquistata dagli italiani. Sulle mura sbocconceliate della ridotta sventola nuovamente il tricolore. Sono visibili i segni delle dure battaglie combattute nei pressi del vecchio fortino.

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    L'impressione suscitata dalla fulminea riconquista della Cirenaica fu enorme in tutto il mondo. L'operazione fu resa possibile dalla tenace resistenza dell'Impero, che richiese la distrazione dal fronte settentrionale di numerose unità britanniche, dalla contemporanea offensiva italo-tedesca in Grecia e dalla rapidità con la quale gli italiani riuscirono a portare in Africa le divisioni di Rommel e nuovi rinforzi di truppe e di materiale. Si trattò, insomma, di una azione complessa e perfetta per tempestività, decisione, abilità e sincronismo. Ma i frutti della conquista non dovevano durare molto. Con l'estate una nuova bufera si sarebbe infatti scatenata sulle tormentate distese desertiche della Marmarica. In alto prigionieri britannici catturati a Bengasi. In basso a sinistra tipi di prigionieri del Commnwealth. In basso a destra l'ossario dei caduti della prima guerra libica, profanato dai neo-zelandesi a Bengasi durante l'occupazione.

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    In queste due fotografie può dirsi riprodotto, in una plastica sintesi, il di dramma dell'Impero, dai trionfi di Addis Abeba all'ultimo disperato assedio dell'Amba Alagi. Tuttavia, mai, in nessuna circostanza, malgrado i rovesci della fortuna, capi e gregari mancarono al loro dovere e alla loro dignità. Specialmente il Duca d'Aosta, animatore della resistenza dell'Impero, che seppe con la stessa nobiltà e con la stessa impassibile fierezza, rappresentare l'Italia in Africa Orientale nella gloria, nel combattimento, nella prigionia, nella morte. A sinistra il Vicerè assiste ad una parata militare nella capitale etiopica. A destra il Duca al suo posto di osservazione sull'Amba Alagi poco prima del drammatico momento della resa.

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    Nelle lande steppose della Somalia, sugli altipiani dell'Abissinia, tra le montagne dell'Eritrea, nelle foreste del Gimma e dell'Amara, ove gli italiani avevano sognato nel quinquennio fra il '35 e il '40 di fondare il loro Impero del Lavoro, si svolse, nel 1941, una disperata battaglia. Alle nostre truppe, isolate dalla Madre Patria, prive di mezzi mioderni, di aerei, di vettovaglie, s'opponevano poderose forze britanniche, affluite da quasi tutti i paesi del Commonwealth e rinforzate da feroci bande locali. Sull'esito della lotta non potevano quindi esservi dubbi. Ma gli italiani, sebbene la resistenza apparisse vana fin dalle prime battaglie, vollero combattere ugualmente fino all'ultimo per l'onore della bandiera. E intorno a capi come il Duca d'Aosta, come il gen. Nasi, come il gen. Lorenzini, come il gen. Frusci, come il gen. Gazzera, si strinsero in un blocco solo nazionali e indigeni. E' per il loro disperato valore che noi possiamo oggi ricordare con orgoglio anche se con infinita, amara nostalgia, il nostro effimero impero africano.

    LA CADUTA DELL'IMPERO

    Alle truppe dell'Impero, nel quadro generale del a guerra, era stata assegnata, com'è noto, una funzione puramente difensiva. Secondo il comando supremo, infatti, in quel lontano scacchiere isolato dalla madrepatria sarebbe stato imprudente logorare le nostre forze in operazioni offensive che comunque non avrebbero potuto pesare in modo determinante sulle sorti del conflitto. Tuttavia, nei primi mesi di guerra, anche per la debolezza delle forze nemiche che ci fronteggiavano, i comandi dell'Etiopia. si lasciarono tentare a qualche puntata in territorio britannico (Chenia e Sudan). Fu anzi organizzata la conquista della Somalia britannica, brillantemente portata a termine nell'agosto del '40. Il perché di questo mutamento dei nostri piani originari è facilmente spiegabile, sol che si pensi allo stato d'animo che dominava allora i capi militari italiani. Era infatti diffusissima l'opinione che la guerra si sarebbe conclusa in breve tempo o con l'invasione della Gran Bretagna o con una pace diplomatica. Perciò, oltre a poter presentare al tavolo della conferenza i suoi possessi coloniali intatti, l'Italia avrebbe dovuto avere in sua mano qualche pegno conquistato al nemico... Purtroppo, le premesse e l'impostazione di queste azioni militari, di per se brillanti, non diedero i risultati sperati, e portarono alla perdita, dolorosamente rapida, dell'Impero etiopico. Bisogna anche aggiungere che la situazione del Duca D'Aosta era quanto mai difficile non soltanto per l'immensità del fronte da controllare, per l'isolamento dalla Madre Patria, per il progressivo sfaldamento di una parte delle truppe di colore, ma anche per l'inadeguatezza dei mezzi a sua disposizione. per l'assoluta mancanza di carri armati, per l'inefficenza dell'aviazione (in tutto 200 apparecchi di tipo antiquato). Inoltre il nemico aveva su di lui un vantaggio inestimabile, quello di poter scegliere a suo piacimento il punto più adatto per l'attacco e di potervi ammassare le truppe necessarie senza preoccupazioni di copertura. In questo, poi, i britannici erano facilitati dall'estrema mobilità delle loro forze, fortemente dotate di mezzi meccanizzati che ai nostri facevano difetto. Va quindi respinta l'affermazione propagandistica dei britannici, i quali si gloriarono di aver sconfitto l'esercito italiano in Etiopia con forze inferiori alle nostre. Se infatti è vero che, soprattuto nei primi mesi di guerra, avevamo il vantaggio di una leggera prevalenza numerica, è ben vero, d'altra parte, che gli inglesi erano qualitativamente molto più dotati. Inoltre bisogna notare che il nerbo principale delle forze italiane in Africa Orientale era costituito da truppe indigene, in parte reclutate nelle vecchie colonie e in parte nei territori di nuovo acquisto. Se dunque le prime erano di una fedeltà a tutta prova (soprattutto i magnifici battaglioni eritrei) le seconde non davano completo affidamento, specialmente nel combattimento lontano dalle loro residenze abituali. Ai 145 mila uomini delle truppe e delle bande indigene, di limitato valore bellico in una guerra almeno in parte meccanizzata, insomma, facevano riscontro non più di cinquantamila nazionali. Ma non basta, le truppe britanniche d'invasione si gonfiarono, dopo i primi successi in Somalia e in Eritrea, di numerose bande indigene di ribelli e di sciftà, i quali diedero molto disturbo alle nostre truppe. Il primo e più grave attacco ci venne dal fronte meridionale, ove due divisioni sud-africane ed africane iniziarono, il 22 gennaio 1941, una vigorosa offensiva nell'Oltregiuba. Dopo una sosta di qualche settimana sulla sponda meridionale del fiume, gli inglesi, che intanto si erano notevolmente rinforzati con l'arrivo di altre truppe fresche, dilagavano nella boscaglia somala e ben presto, debolmente contrastati dalle nostre truppe indigene( non vi erano, in tutta la Somalia che 5000 soldati nazionali), giungevano a Mogadiscio. La capitale della Somalia cadeva il 26 febbraio. Intanto, mentre elementi britannici sbarcavano a Berbera, rioccupando la colonia persa sette mesi prima, l'avanzata in Somalia si trasformava in una autentica passeggiata militare. Agli inglesi, che il 17 Marzo erano giunti a Giggiga, era ormai aperta la strada di Addis Abeba. Il gen. Cunningham aveva infatti ripetuto, puntando su Harrar (26 marzo) e su Dire Daua (28 marzo), la manovra che nel '36 aveva portato Graziani alle soglie della capitale etiopica. La difesa della Capitale non fu nemmeno tentata e non perchè le nostre truppe non ne fossero capaci ( i reparti in ritirata s'erano infatti andati raggruppando verso il centro dell'Impero), ma perchè prevalse su ogni considerazione di carattere militare o di prestigio l'esigenza di proteggere la popolazione civile italiana dalla chiara minaccia di massacro che incombeva su di essa ad opera dei ribelli etiopici. Così, senza alcuna resistenza, il 6 aprile 1941, cadeva Addis Abeba. Le truppe, comandate dal Duca D'Aosta, si ritiravano, ordinatamente, con tutti i loro mezzi, sulle posizioni dell'Amba Alagi e di Dessiè. Sul fronte nord, mentre nel settore meridionale la nostra resistenza subiva il crollo impressionante di cui abbiamo detto (facilitato dalle condizioni del terreno, vantaggiosissime per un esercito fortemente meccanizzato e dotato di imponenti mezzi corazzati) la situazione militare aveva avuto un andamento ben diverso. Nel novembre del '40 alcuni attacchi in forze di due divisioni indiane, rinforzate da elementi metropolitani, si erano infranti contro la resistenza dei nostri capisaldi di Gallabat. Successivamente, e cioè a metà gennaio, la minaccia si era spostata nel settore di Cassala-Agordat, dal quale i nostri reparti ritennero opportuno ripiegare su Cheren. Qui si svolse la battaglia decisiva. I britannici attaccarono a ondate successive, forti dell'assoluto predominio dell'aria, avvantaggiati dalla disponibilità di un buon numero di carri armati da 18 tonnellate. Tuttavia per parecchie settimane, dovettero segnare il passo di fronte all'eroica resistenza delle nostre truppe nazionali e indigene che, a corto di cannoni, utilizzarono per la difesa anche le artiglierie di bronzo che facevano mostra di se nei vecchi forti delle precedenti imprese coloniali. Solo il 26 marzo il bastione difensivo crollò sotto i colpi di maglio delle forze corazzate britanniche. Su 35 mila combattenti avevamo avuto 8 mila morti. Gli avversari subirono anch'essi perdite ingentissime, valutabili intorno ai seimila caduti e questo testimonia dell'asprezza della lotta. Ma, l'accanimento con il quale gli inglesi e gli indiani avevano attaccato a Cheren ben si spiega: in quella battaglia si giocavano le sorti dell'intera campagna. Se infatti gli inglesi non avessero vinto, ben difficilmente sarebbero stati in grado di ripetere lo sforzo, anche perchè s'andava delineando in Africa Settentrionale la minaccia italo-tedesca, che ben presto avrebbe costretto Wawell a richiamare le truppe operanti in Eritrea. Caduta Cheren, la via dell'Asmara era aperta. Il 1 aprile la capitale eritrea venne occupata dal gen. Platt. L' 8 aprile era la volta di Massaua, sommersa dalla superiorità avversaria ma che combattè fino all'ultimo. A Massaua, in quei giorni, si consumava anche un altro dramma: quello delle forze navali del Mar Rosso, lanciate in una missione senza ritorno contro le coste nemiche. Dopo la caduta di Massaua, la lotta nell'Impero si spezzettò in una serie di episodi isolati, d'altissimo valore ideale ma di non grande importanza bellica e senza più un comune disegno strategico: la resistenza sull'Amba Alagi del Duca d'Aosta, la lotta nel Galla e Sidamo, l'ultima bandiera italiana in Africa Orientale levata alta da Nasi, Ugolini e Gonella nel ridotto di Gondar. Sarebbe tuttavia grave errore svalutare, come fa certa recente grossolana retorica dell'antiretorica, quei luminosi episodi. Alla resistenza del Duca di Ferro sulla storica Amba, alle imprese di Nasi, ai carabinieri di Culqualber, ai mille e mille eroi che lottarono senza speranza di vittoria nell'Impero ormai irrimediabilmente perduto, noi tutti siamo debitori di un grande insegnamento morale: che la fedeltà alla bandiera nell'avversa fortuna fa grandi gli eserciti e i popoli anche nella sconfitta.

    La marina nel Mar Rosso

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    Nel mar Rosso, col compito di disturbare il traffico nemico verso Suez, erano stati dislocati, prima dell'inizio delle operazioni militari, alcuni cacciatorpediniere e sommergibili. Appoggiati alle basi di Massaua e di Assab, questi mezzi di modesta efficenza bellica seppero assolvere al loro compito con bravura. Grazie alla loro presenza nel Mar Rosso i britannici furono costretti a diradare il traffico e a proteggerlo con un buon numero di incrociatori, sottratti ad altri schacchieri. Perciò, anche se non raggiunsero risultati clamorosi, le navi italiane dislocate in quel mare lontano ebbero il loro peso notevole nell'andamento delle operazioni. A sinistra dalla cartina risulta evidente l'importanza delle nostre basi nel Mar Rosso ma anche la difficolta per le navi e per i sommergibili di superare la stretta di Bab el Mandeb per effettuare la guerra di corsa nell'Oceano Indiano. A destra il C.F. Spagone comandante delle nostre forze subacquee.

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    All'inizio del conflitto la Marina italiana dell'Impero disponeva di una flottiglia di 8 unità subacque al comando del Cap. di Fregata Spagone. All'insidia ed alla reazione nemica si aggiungevano terribili condizioni idrografiche e climatiche che resero particolarmente ardue le operazioni. Ciò nonostante la guerra sottomarina, condotta per la prima volta nel Mar Rosso, fu combattuta con eccezionale perizia ed ardimento dai nostri equipaggi.

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    Le unità navali dislocate nel Mar Rosso effettuarono numerose incursioni contro il traffico nemico. Anche in questo settore, oltre ai sommergibili e ai caccia, operarono efficacemente i MAS, tipico mezzo di guerra italiano conseguendo importanti successi tra i quali l'affondamento dell'incrociatore « Capetown sflurato dal MAS 213 al comando del G.M. Valenza. Nella foto una formazione di mas in crociera di fronte al porto di Assab.

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    La più importante operazione della nostra marina nel Mar Rosso fu effettuata dalla flottiglia di cacciatorpediniere di stanza a Massaua. Il 21 ottobre 1940, avvistato un importante convoglio nemico, fortemente scortato da caccia e da incrociatori, le nostre unità uscirono da Massaua e attaccarono i britannici. L'operazione riuscì ottimamente e portò all'affondamento di sei piroscafi, ma il nostro cacciatorpediniere « Nullo », colpito da un incrociatore inglese, andò perduto. Nell'affondamento del « Nullo » si verificò uno dei più fulgidi esempi di eroismo della nostra guerra. Sebbene il Comandante Costantino Borsini avesse dato all'equipaggio l'ordine di allontanarsi con le imbarcazioni, il suo attendente, Vincenzo Ciaravolo, visto che il suo ufficiale era rimasto in plancia per affondare con la nave secondo la tradizione marinara, risalì a bordo a nuoto per attendere eroicamente la morte con lui. Alla loro memoria fu concessa la M. d'O.

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    Durante una delle azioni offensive in Mar Rosso il sommergibile « Perla », al comando del Tenente di Vascello Pouchain, con l'equipaggio parzialmente intossicato da gas venefici e lo scafo incagliato, fu sorpreso da una formazione di incrociatori, cacciatorpediniere ed aerei britannici. Nonostante la critica situazione il comandante ingaggiò un drammatico duello a cannonate con le unità inglesi danneggiandole ed impegnandole in modo tale che, incredibile a dirsi, le forze nemiche furono costrette ad abbandonare il campo! In seguito l'unità fu disincagliata e riprese la sua attività nel biblico mare.

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    Nel 1940, all'inizio delle ostilità, un banale guasto delle apparecchiature interne del sommergibile « Galilei » ebbe conseguenze quasi fatali per la nostra flottiglia di sommergibili del Mar Rosso. Il « Galilei » venne infatti sorpreso da naviglio sottile inglese in emersione, con i motori fermi e l'equipaggio intossicato dai vapori di cloro che avevano reso irrespirabile l'aria all'interno dell'unità. La cattura fu quindi inevitabile, poichè i marinai del « Galilei », oltre a non poter opporre resistenza, non furono nemmeno in grado di sabotare il sommergibile o di distruggere il cifrario segreto di bordo. Quel cifrario, caduto in mano degli inglesi, servì poi per attirare in una trappola altri due sommergibili. Nella foto il « Galilei », rimorchiato da un destroyer britannico, entra nel porto di Aden dopo la cattura.

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    Poco prima della caduta di Massaua, avvenuta 1' 8 Aprile, i 4 sommergibili superstiti ebbero l'ordine di tentare ad ogni costo il forzamento di Bab el Mandeb e il ritorno in Patria dopo il periplo dell'Africa. Malgrado la loro limitata autonomia, nonchè il logorio di un anno e mezzo di guerra, i sommergibili riuscirono nella difficile impresa e, dopo ottanta giorni di perigliosa navigazione giunsero a Bordeaux, ove si unirono alle altre unità sottomarine dell'Asse che da quella base si irradiavano nell'Atlantico. A sinistra un sommergibile partito da Massaua durante la navigazione in Atlantico. A destra la rotta seguita dai sommergibili dopo la caduta di Massaua. Le nostre unità furono rifornite da incrociatori corsari tedeschi nell'Atlantico Meridionale.

    L'offensiva Inglese

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    Nel loro attacco all'Impero, i britannici erano favoriti non soltanto dell'assoluta superiorità delle forze in campo ma anche dalla loro manovrabilità. Inoltre, a differenza delle nostre truppe, che nella prima fase offensiva avevano dovuto disperdere i loro sforzi su un vastissimo arco di fronte contro posizioni non essenziali per la difesa avversaria, gli inglesi potevano tentare un colpo decisivo nel cuore stesso del nostro vicereame etiopico. E difetti, mentre truppe sbarcate nella Somalia britannica puntavano su Narrar, per tagliare l'unica linea ferroviaria dell'Impero, dal Kenia e dal Sudan due grossi corpi d'esercito iniziavano l'invasione della Somalia e dell'Eritrea. A queste tre direttrici principali d'attacco se ne aggiungevano poi altre meno importanti, che però determinarono il crollo repentino del nostro fronte, tenuto da forze troppo esigue per reggere ad una pressione contemporanea su località tanto distanti l'una dall'altra. Nella foto in alto colonne motorizzate britanniche all'offensiva nella steppa somala. Nella foto in basso fanteria britannica in azione di fronte a Cheren.

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    Fin dai primi giorni di offensiva, i britannici guadagnarono rapidamente terreno. Particolarmente rapida fu la loro avanzata in Somalia, ove il debole velo di truppe a disposizione del nostro comando venne travolto. Vari fattori cooperarono a nostro sfavore, la superiorità dell'avversario, la maggiore manovrabilità delle sue truppe, dotate di mezzi celeri e di nuclei corazzati che a noi manca vano quasi completamente, la ribellione delle popolazioni, l'impossibilità materiale di tenere un fronte continuo, il che rendeva completamente inutile e sterile la resistenza di qualche caposaldo isolato. In alto a sin. truppe britanniche del Chenia in marcia. Al centro a sin. bande abissine aggregate ai reparti britannici. In basso a sin. Hailè Selassiè ispeziona una banda abissina. Negus, tornato dal suo esilio londinese, si mise a capo delle forze etiopiche che si erano sollevate contro gli italiani. In alto a destra i comandanti britannici, gen. Platt e gen. Cunningham. In basso a destra un ponte dì barche lanciato dagli inglesi sul Giuba all'inizio dell'attacco contro la Somalia.

    La legge del più forte

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    La schiacciante superiorità aerea britannica ebbe un peso determinante nel successo delle operazioni del gen. Platt. Ai modernissimi aerei da bombardamento e da caccia inglesi, la nostra aviazione dell'Impero poteva opporre solo qualche diecina di vecchi aerei che furono ben presto falciati dalla RAF. Particolarmente gravi furono le nostre perdite al suolo, in quanto non potevamo opporre un efficente sorveglianza della caccia alle continue incursioni britanniche. Tuttavia, anche nell'Impero, l'aviazione italiana colse i suoi allori. grazie all'eroismo disperato di un pugno di piloti che seppero opporre l'audacia al numero. Nella foto un aeroporto di fortuna inglese.

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    Il Negus osserva un mezzo cingolato britannico della divisione che operò contro Addis Abeba. Molti reparti inglesi, specialmente motorizzati, erano stati distolti dal fronte libico per essere impiegati nell'Impero, contro il quale operarono forze numericamente superiori.

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    Gli italiani poterono contare, nell'intera campagna in Africa Orientale, solo sulle forze che vi erano state dislocate prima dell'inizio delle ostilità. Non fu
    possibile nemmeno la leva in massa dei coloni, dato che non esistevano armi ed equipaggiamenti sufficenti. La nostra armata venne anche indebolita, negli ultimi mesi di guerra, dalla defezione di valli reparti indigeni i quali, dopo aver valorosamente combattuto, furono indotti a disertare dalla propaganda negussista. I britannici, invece, fecero affluire in Etiopia reparti da tutte le terre del Commonwealth e dalle colonie. Oltre a queste truppe operò nell'Impero persino una divisione di congolesi al comando del belga Gen. Gillaert. A sinistra un mitragliere indiano. A destra bombardamento aereo di Massaua.

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    Il multicolore esercito del gen. Platt, oltre che su alcuni lotti contingenti metropolitani contava sulla forze coloniali britanniche, e sulle bande dei ribelli
    abissini. Nella foto a destra un reparto negro del « King African''Rifles ». Nella foto a sinistra una banda etiopica addestrata all'uso dei mortai da 81

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    ue aspetti dell'occupazione inglese dell'Impero: a sinistra, prigionieri italiani, catturati a Gondar dopo un'epica resistenza, in attesa di essere condotti ai campi di concentramento. A destra un importante prigioniero è caduto nelle mani degli inglesi. Sì tratta di una « mascotte » delle nostre truppe indigene.

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    Il banditismo, in Africa Orientale, non era mai cessato completamente, malgrado le grandi operazioni di polizia coloniale condotte negli anni fra il '35 e il '40. Col ritorno del Negus e con le prime sconfitte del nostro esercito, la ribellione assunse quindi aspetti molto pericolosi per le nostre truppe e soprattuto per le nostre popolazioni civili. Spesso non si trattava di rivolte aventi un sub strato politico ma semplicemente di uno scatenarsi del mai sopito amore degli abissini per la razzia e per il massacro. Infiniti episodi di ferocia lo dimostrano. A sinistra il Negus passa in rassegna una banda operante nel Galla distintasi particolarmente nei combattimenti contro le nostre truppe. A destra truppe inglesi sulla via di Asmara nei pressi di Passo Toselli.
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    Eroismo Italiano

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    Abbiamo già accennato alle tragiche condizioni della nostra aviazione dell'Impero, costretta a combattere con un avversario infinitamente superiore. Eppure, malgrado lo stato di inferiorità in cui si trovavano (e che andò aggravandosi man mano che gli abbattimenti, i guasti, il logorio del materiale mettevano fuori combattimento i nostri pochi aerei), i piloti italiani seppero farsi onore. Leggendario divenne ben presto in tutto l'Impero, anche fra l'avversario, il nome di Mario Visintini. Il pilota istriano, fratello del ten. di vascello Licio Visintini che trovò morte gloriosa con il gruppo Orsa Maggiore in un incursione nel porto di Gibilterra, abbattè 37 apparecchi britannici, prima di scomparire in fiamme dopo un'ennesima missione di guerra.

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    Particolare menzione meritano, nella campagna in Africa Orientale, le truppe del Genio, che contribuirono con grande abnegazione a rallentare la marcia delle truppe nemiche, e l'artiglieria contraerea che con i suoi scarsi pezzi contrastò sempre le azioni dei bombardieri avversari. Nelle foto una batteria autotrasportata pronta ad entrare in azione contro formazioni nemiche nel settore centrale del fronte.

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    Alcuni eroi dell'Impero. Da sinistra a destra Il Primo Segretario di governo Gian Carlo Bitossi che prese parte come volontario alle operazioni militari in A.O.I. Congedato a richiesta del Viceré, represse efficacemente il brigantaggio nella zona di Lasta Uagh che gli era stata affidata. Impegnato da forze avversarie che cercavano di raggiungere l'Amba Alagi, rifiutava la resa con l'onore delle armi e cadeva in faccia al nemico, con il suo manipolo di Eroi, sparando l'ultimo colpo del suo mitragliatore. Alla Sua Memoria fu concessa la Medaglia d'Oro al V.M. Il ten. Roccella, M.d'O. cadde sull'Amba Alagi. Aveva difeso la sua batteria prima sparando a zero e poi con le bombe a mano e con la baionetta. Il sottotenente Archimede Carlo Martini, M. d'Oro, cadde nei pressi di Addis Abeba per difendere con un'ultima carica donne e bambini italiani assaliti dalle bande dei predoni abissini. Il ten. Renato Togni M. d'O, caduto ad Agordat, attaccando con il suo squadrone di cavalleria indigena í carri armati. Togni giunse a ridosso dei mezzi inglesi e, falciato, cadde sul cofano di un carro britannico. Il gen. Orlando Lorenzini M. d'O., che cadde alla testa delle sue truppe nella difesa di Cheren.

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    Ecco in quali condizioni gli italiani combatterono nell'Impero: questi due « carri armati », che recano i nomi di due capisaldi eroici del Gondarino, sono
    in realtà dei semplici trattori agricoli armati di mitragliatrici e corazzati con le balestre tratte dai relitti di camions. A simili mezzi di fortuna gli inglesi opponevano una parte delle poderose formazioni corazzate che avevano concluso, proprio in quei giorni, l'offensiva in Africa Settentrionale. I difensori dell'Impero, nella loro lunga e tenace resistenza, avevano molto spesso fatto ricorso alla tecnica dell'arrangiarsi e così una miridiade di piccole officine improvvisate aveva provveduto, con meraviglioso spirito di adattamento, a procurare alle truppe quei mezzi e quei pezzi di ricambio che la Madrepatria non poteva inviare o che giungevano solo di rado attraverso il ponte aereo che rappresentava l'unico collegamento con l'Italia. Anche la popolazione civile si distinse per abnegazione durante la dura campagna. L'ing. Poggi, uno dei tanti eroi senza stellette, produsse quattromila quintali di carburante utilizzando « essenze varie ».

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    L'offensiva britannica da sud, scarsamente contrastata dalle truppe di copertura (che avevano ricevuto l'ordine di ripiegare verso Gondar) raggiunse ben presto risultati importanti. Il 26 Febbraio cadeva Mogadiscio, ad appena un mese dall'inizio dell'offensiva. Il 26 Marzo 1941 gli inglesi erano già ad Harrar. Subito dopo si presentavano dinnanzi alla capitale dell'Impero, Addis Abeba. Il nostro comando, per evitare perdite alla popolazione civile (ad Addis Abeba erano affluite anche le famiglie dei coloni italiani sfollati dalle località già occupate) e per impedire eventuali sanguinose sommosse degli indigeni, avviò trattative per cedere agli inglesi la città senza combattimento. Il 6 Aprile 1941 truppe britanniche, dopo che gli italiani si erano ritirati dalla capitale puntando verso l'Amba Alagi, entravano ad Addis Abeba, presidiata soltanto dalla PAI. nella foto l'ultima bandiera che sventolò sulla capitale dell'Impero e che fu gelosamente conservata dai nostri prigionieri. Le firme sono quelle delle donne che la riportarono in Patria.

    La rivincita del Negus

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    Approfittando della sosta nei combattimenti, gli inglesi vollero dare al loro ingresso nella capitale dell'impero italiano d'Africa un tono di solennità, quasi che l'occupazione di Addis Abeba segnasse la fine della campagna. La loro era una vendetta per l'umiliazione patita all'epoca delle sanzioni, quando la conquista italiana dell'Abissinia aveva messo in crisi il prestigio britannico in tutta l'Africa Orientale. Uguale rilievo i britannici vollero dare al ritorno del Negus, il quale aveva assistito a parte delle operazioni militari. In alto a sinistra un ufficiale britannico entra ad Addis Abeba alla testa di una banda indigena. In alto a destra un reparto scozzese alla periferia della capitale, preceduto dalle classiche cornamuse. Al centro il Negus passa in rassegna un reparto di colore britannico al suo ritorno nella capitale perduta nel '36. In basso terminate le operazioni militari, gli inglesi si diedero a distruggere, in tutta l'Africa Orientale, i segni dell'occupazione italiana. Primi a scomparire furono i simboli del fascismo, contro i quali i britannici si accanirono con particolare foga. Ma ben presto, cessato questo sport, facile ma non redditizio, gli inglesi iniziarono la sistematica spoliazione dei territori occupati, annullando in pochi mesi il lavoro dei colonizzatori italiani. Le tracce della vandalica azione inglese, che provocò le proteste dello stesso Negus, furono particolarmente gravi in Somalia e in Eritrea, ove interi comprensori dei coloni italiani furono cancellati dalla faccia della terra.

    La rivincita del Negus

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    Fin dal principio del 1941 l'aviazione italiana iniziava il bombardamento dei depositi e degli impianti petroliferi di Caif a, effettuato con un raid eccezionale per l'autonomia degli apparecchi di quel tempo. La formazione italiana, comandata dalla Medaglia d'Oro Ettore Muti, provocò ingentissimi danni all'importante base palestinese e tornò alla base senza aver subito perdite malgrado la reazione avversaria. La foto dell'osservazione aerea dimostra l'efficacia distruttiva dell'attacco. « Se volete vedere il più bell'incendio del mondo — trasmise Muti per radio — venite a Caifa »...

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    Mentre il conflitto divampava sul fronte atlantico e su quello africano, in Europa s'andavano svolgendo importanti avvenimenti politici. Andava maturando, infatti, l'attacco alla Russia, in vista del quale Hitler aveva iniziato un'intensa attività diplomatica non soltanto nei confronti degli stati rimasti neutrali (come la Spagna e la Turchia) ma anche con quelli battuti in guerra (come la Francia di Vichy). Anzi, a questo periodo risale il tentativo di collaborazione franco-tedesca, del quale fu fautore Petain. Ma se con la Turchia Hitler, attraverso l'abilissimo ambasciatore von Papen, riuscì a concretare un patto di non aggressione che annullò una lunga opera politico-diplomatica dei britannici, la Spagna rifiutò di entrare in guerra al fianco dell'Asse, mentre in Francia, malgrado la buona volontà di Petain e di Laval, si rafforzava la resistenza contro l'occupatore. Nella foto a sinistra un incontro fra il maresciallo Petain e l'Amm. Darlan, comandante della flotta francese. Nella foto al centro l'ambasciatore von Papen. A Londra intanto infittiva la schiera dei re e dei governi fuggiaschi qui il principe ereditario Olaf di Norvegia assiste ad una esercitazione militare.

    La conquista di Creta

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    19 Maggio 1941. Attacco dei paracadutisti su Creta. La grande isola mediterranea, sulla quale i britannici avevano installato le loro basi aero-navali fin dallo ottobre del 1940, era stata durante tutto l'inverno del '40-'41 una spina nel fianco dello schieramento italiano in Africa settentrionale. Ad un certo momento, anzi, il possesso da parte inglese delle due basi di Suda e di Tobruk aveva praticamente sbarrato alle nostre navi il Mediterraneo orientale, ponendo in una pericolosa situazione il Dodecanneso, completamente isolato dalla Madre Patria. Ben si comprende, quindi, come gli italo-tedeschi, completata l'occupazione delle isole minori dello Jonio e dell'Egeo e iniziata l'offensiva in Africa Settentrionale, si preoccupassero di eliminare la scomoda presenza degli aerei e delle navi britanniche a Creta. L'impresa, però, non si presentava molto facile. Sull'isola, ove si erano rifugiati la famiglia reale e il governo greco, gli alleati disponevano di un buon nerbo di truppe che, pur provate dai combattimenti in Grecia, rappresentavano un osso duro per qualunque avversario. Inoltre la baia di Suda, l'aeroporto di Heraclion ed altre munite basi navali ed aeree erano dei punti d'appoggio munitissimi dai quali i britannici e i greci potevano sviluppare pericolose azioni offensive e difensive. Si riproduceva infine, per Creta, lo stesso problema che il comando tedesco aveva dovuto risolvere in Norvegia, attaccare attraverso il mare contro un avversario che disponeva della supremazia marittima. La soluzione fu la medesima: l'attacco con i paracadutisti, previa conquista del dominio dell'aria. A sinistra un paracadutista germanico si lancia dallo Junker da trasporto nel cielo di Creta. In alto a destra gli aerei tedeschi sull'aeroporto di Heraclion, contrastati dal tiro dei cannoni britannici. E' visibile un apparecchio che precipita in fiamme, dopo aver lanciato prematuramente i suoi paracadutisti. In basso una visione dei massicci bombardamenti che precedettero gli sbarchi aerei su Creta: l'incrociatore « Gloucester », centrato dagli Stukas affonderà in pochi minuti. Le forze navali inglesi subirono in quelle operazioni dure perdite. 3 incrociatori e 5 CCTT affondati. 2 corazzate 1 portaerei e 4 incrociatori danneggiati oltre ad alcuni trasporti ed a numerose unità leggere.

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    I tedeschi concentrarono i loro attacchi su La Canea, Suda, Heraclion e Malami, considerati i punti più vitali dell'Isola. Il piano del comando germanico apparve subito chiaro: impossessarsi con un massiccio lancio di paracadutisti degli aeroporti e delle basi navali nella zona occidentale dell'isola, facilitando così l'afflusso dei rinforzi per via aerea; quindi rastrellare Creta verso oriente, cacciando mano a mano i britannici e i greci. Il disegno strategico, malgrado la vigorosa reazione avversaria, riuscì in pieno. Nella giornata del 20 maggio, ai paracadutisti sbarcati con la prima ondata d'attacco fecero seguito altri numerosi contingenti, trasportati da grossi aeroplani e da alianti, che consolidarono l'occupazione della parte occidentale dell'isola. In alto scende la prima ondata, lanciata dagli apparecchi a bassissima quota. Al centro vinti i nuclei di resistenza avversari, i paracadutisti segnalano il « Via libera ». Subito dopo un'altra formazione di Junkers appare nel cielo e altre centinaia di paracadutisti si aggiungono alle eroiche truppe di rottura. In basso l'operazione si conclude con un rastrellamento a largo raggio e con l'annientamento delle residue resistenze britanniche.

    Sulle orme di Venezia

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    Consolidato il possesso della parte occidentale dell'Isola, i tedeschi, con i rinforzi affluiti per via aerea, iniziarono l'offensiva verso oriente. Avevano
    dinnanzi a se gli effettivi di circa tre divisioni nemiche, armate di mezzi pesanti che ad essi invece difettavano, ma le sceltissime truppe paracadutiste e da montagna messe in campo dai tedeschi ebbero ugualmente la meglio. Ben presto i germanici occupavano la città e il porto di La Canea, quindi costringevano il nemico ad abbandonare Suda e Harmiron. E quando la partita non si era ancora decisa, sui britannici che si difendevano accanitamente cadeva un altro duro colpo, lo sbarco italiano sulla costa nord-orientale dell'isola. Nella foto in alto le truppe italiane, affrontano le difese costiere di Creta. In basso i tedeschi avevano sbarcato a Creta, con un continuo ponte aereo, anche le artiglierie leggere che cooperarono in modo determinante al successo delle operazioni.

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    Con l'inatteso sbarco delle truppe italiane provenienti da Rodi e dal Pireo, con l'occupazione da parte tedesca dei principali aeroporti, con la crescente supremazia aerea dell'Asse, che rendeva difficoltosi i movimenti delle navi britanniche, gli inglesi compresero di aver perso la partita. Il gen. neo-zelandese Freyberg, che comandava le truppe alleate decise quindi il reimbarco, che avvenne nei primi giorni di giugno sotto l'imperversare di massicci bombardamenti aerei e fu reso ancora più difficile dal fatto che l'Asse aveva ormai tolto al nemico tutti i porti dell'Isola. In alto a sin. il gen. Bastico sbarca a Candia; ricevuto dalle autorità civili e religiose dell'isola che avevano fatto atto di sottomissione. Al centro a sin. sbarco di quadrupedi dal naviglio sottile italiano. In basso a sin. a Creta furono liberati molti prigionieri italiani che, catturati sul fronte albanese, erano stati trasportati nell'isola dai greci. Le loro condizioni erano miserissime. La foto documenta il trattamento loro riservato, scalzi e seminudi. In alto a destra anche a Creta, come nelle isole foniche, gli italiani trovarono i segni della dominazione veneta, ecco il leone di San Marco sulle antiche fortificazioni di Candia. In basso a destra un campo di prigionieri britannici.

    Tra realtà e leggenda

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    Durante la navigazione di avvicinamento a Creta un convoglio italiano carico di truppe del Rgt « San Marco », scortato dalla torpediniera « Lupo » al comando del C.F. Francesco Mimbelli (decorato di M.O. per questa azione), fu attaccato da una formazione di incrociatori e cacciatorpediniere inglesi. L'unità italiana andò all'attacco con veemenza passando attraverso lo schieramento britannico a distanza tanto ravvicinata che le navi inglesi si cannoneggiarono tra loro con ottimi risultati. Il «Lupo» rientrò al Pireo con lo scafo bucato da parte a parte dai colpi britannici. Il giorno seguente la torpediniera «Sagittario» al comando del T.V. Cigala Fulgosi (anch'egli decorato di M. O. per l'azione) fu impegnata, in servizio di scorta ad un convoglio, da incrociatori inglesi. Il com. Cigala Fulgosi andò all'attacco «fischiettando» e lanciò i suoi siluri contro un incrociatore colpendolo. L'azione destò l'entusiasmo delle truppe tedesche del convoglio che, giunte indenni a destinazione, portarono un trionfo il com. Cigala. A destra il com. Mimbelli. A sinistra un convoglio in rotta per Suda.

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    Gli inglesi sconfitti ripararono in Egitto, dove furono aggregati all'armata del Nilo che proprio in quei giorni subiva i primi rovesci nella controffensiva italo-tedesca. A sinistra sui volti dei britannici reduci dall'inferno cretese è evidente il sollievo per averla scampata ed anche l'impressione dei recenti duri combattimenti. A destra Re Paolo di Grecia, nuovamente fuggiasco, ringrazia il sergente neo-zelandese Ryan che con il suo plotone aveva protetta la ritirata da Creta.

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    L'azione dei paracadutisti tedeschi su Creta viene considerata come una delle più difficili e brillanti da essi compiute. Le truppe tedesche, soprattutto nei primi giorni dell'attacco, si trovarono infatti di fronte a forze notevolmente superiori e dovettero attaccare senza armi pesanti. La vittoria, oltre che al loro straordinario valore, all'abilità tattica del gen. Student, nonchè al tempestivo sbarco italiano, fu dovuta all'assoluto dominio dell'aria che i germanici erano riusciti a conquistare. Le perdite dei paracadutisti furono tuttavia elevatissime, fra morti e dispersi, circa quattromila uomini. Nella foto a sinistra un piccolo cimitero tedesco a Creta. A destra il monumento eretto nell'isola ai paracadutisti germanici caduti nell'epica impresa.

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    Mentre i sommergibíli italiani, abbandonata Masaaua, iniziavano l'avventuroso viaggio sino a Bordeaux, alcune navi ausiliarie e da trasporto ricevettero l'ordine di raggiungere porti giapponesi o neutrali. Alcuni trasporti, raggiunta Kobe, effettuarono lunghi viaggi dal Giappone ai porti francesi e viceversa con preziose materie prime nelle stive. La nave coloniale « Eritrea » ed i tre incrociatori ausiliari « Ramb » I, II, e IV tentavano invece di violare il blocco inglese. La « Ramb » I fu affondata durante un impari lotta con un incrociatore britannico, mentre la « Ramb » II e la « Ramb » IV raggiungevano il lontano Giappone. L' « Eritrea » (nella foto a destra», al comando del C.V. Jannucci (nella foto a sin,), mascherata da cannoniera portoghese, riuscì a raggiungere Kobe sebbene ripetutamente avvistata da navi ed aerei inglesi che, nonostante l'affannosa ricerca, non la riconobbero.

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    Nessuna via di scampo restò invece al resto del naviglio sottile, vista la limitata autonomia. I comandanti e gli equipaggi del cacciatorpediniere, nell'alternativa tra l'autoaffondamento sulla costa araba neutrale e l'andare incontro al nemico, non esitarono. Le navi tentarono quindi di raggiungere Port Sudan per impegnare un'ultima volta il nemico. Ma la preponderanza dei mezzi navali ed aerei inglesi fece fallire il generoso quanto eroico piano d'attacco. Dopo un'epica lotta le ultime navi italiane del Mar Rosso affondarono con la bandiera di combattimento al picco, offrendo alla patria un estremo sacrificio. La misura dell'abnegazione di questi italiani è data dalle 6 Medaglie d'Oro meritate dagli uomini del solo CT. Manin ». A sin. il CT. « Manin », capo squadriglia della 3' sq. CCTT. A destra il com. Fadin, comandante della squadriglia, fu decorato di Medaglia d'Oro per l'azione descritta.
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    Fine del "posto al sole"

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    17 Maggio 1941. Resa dell'Amba Alagi. Dando l'ordine di abbandonare la capitale senza combattere per evitare il massacro della popolazione civile, il Vicerè d'Etiopia aveva dato alle sue truppe l'ordine di proseguire la lotta nei ridotti dell'Amba Alagi, del Galla Sidamo e dell'Amara, dove, secondo un suo ordine del giorno, si sarebbe combattuto il più a lungo possibile per l'onore della bandiera. Pertanto nella zona fra Dessiè e l'Amba Alagi si raccolsero le truppe che, dopo una tenace resistenza, avevano dovuto ritirarsi da Agordat, Cheren e Asmara, nonchè quelle rifluite da Addis Abeba. Abbandonata Dessiè per la forte pressione nemica, la difesa si ridusse alla storica Amba, ove gli sfiniti reparti nazionali e indigeni, privi di rifornimenti, quasi senza cannoni, con scarsissime vettovaglie, resistettero fino al maggio 1941. Fu questa una pagina di autentica gloria, che suscitò l'ammirazione di tutto il mondo. Assaliti da forze infinitamente superiori per numero e per mezzi, attanagliati dal morso della fame e della sete, i difensori dell'Amba Alagi lottarono per una battaglia che era perduta in partenza, ma che aveva ugualmente una posta altissima, l'onore della bandiera. E solo quando ogni umana resistenza apparve inutile, solo quando le munizioni furono alla fine, e solo dietro ordine da Roma accettò quella resa che il nemico aveva più volte richiesto e che il Duca aveva sempre rifiutata. Il Generale Volpini, latore delle proposte italiane, fu vilmente assassinato da una banda abissina mentre si recava al comando britannico. Un mese, era durata quella resistenza disperata. E i nostri soldati s'erano guadagnati, con l'eroismo, col sangue, con la sofferenza, l'ultimo omaggio che il nemico tributò loro, l'onore delle armi. In alto il Duca D'Aosta, sceso dalla montagna insanguinata, passa in rassegna il picchetto armato britannico prirma di avviarsi alla prigionia di Nairobi. In basso con uno schieramento perfetto, come ad una parata, i soldati che per un mese hanno combattuto in condizioni disperate, perdendo oltre il 40 per cento degli effettivi, sfilano di fronte al nemico irrigidito nel presentat'armi.

    Fedeltà oltre la vita

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    Le nostre truppe coloniali, sia della Somalia che dell'Eritrea, combatterono a lungo con assoluta fedeltà e dedizione, dimostrando che l'Italia, nella sua attività di colonizzazione, aveva saputo guadagnarsi il cuore delle popolazioni indigene. Numerosi soldati e graduati indigeni furono decorati al valor militare e due di essi ebbero la medaglia d'oro, fatto senza precedenti nella nostra storia militare. Verso la fine della campagna vi furono tuttavia alcune defezioni di truppe indigene, provocate dai crescenti disagi, dalla propaganda britannica e soprattutto dai fatto che la ritirata aveva distaccato i nostri ascari dalle loro famiglie. Lo defezioni furono più numerose fra le truppe e le bande reclutate nei nuovi territori dell'Impero. Quelle degli eritrei e dei somali furono trascurabili.

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    Tra le più eroiche figure dell'Africa Orientale si stagliano quelle di due uomini delle truppe indigene. A sinistra il Muntaz Unatù Entisciau che preso prigioniero riuscì a fuggire e, raggiunte le nostre linee, attraversava un campo minato per portare ai nostri ufficiali notizie sulle forze nemiche. Straziato dall'esplosione degli ordigni incoraggiò alla resistenza i soldati indigeni che lo avevano raccolto e mori inneggiando ripetutamente all'Italia. A destra il Buluk Basci Faruk imbarcato sul CT Manin che dopo l'affondamento dell'unità, salvatosi su un'imbarcazione stracarica, rimase appeso al bordo insieme ai più forti per non compromettere l'equilibrio del battello. Dopo essere stato d'esempio per virilità e forza d'animo ai naufraghi nazionali ed indigeni, venutegli meno le forze, ringraziava il Suo comandante e dopo averlo salutato, si lasciava andare nelle onde del Mar Rosso. Questi due Eroi furono decorati di Medaglia d'Oro alla Memoria con uno speciale decreto di S. M. Vittorio Emanuele III. (Da un disegno del pittore Milo Corso Malverna sulla base delle descrizioni dei due eroi fatte dai compagni d'armi sopravvissuti),

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    2 Giugno 1941. Hitler e Mussolini si incontrarono al Brennero dove Hitler, dopo gli accenni del gennaio, informò Mussolini delle serie e prossime possibilità di incidenti con l'Unione Sovietica. Il Duce in questa occasione offri la collaborazione alla futura campagna di un corpo di spedizione italiano al fine di poter arginare, nelle trattative di pace, pericolose pretese tedesche nei Balcani. Tale collaborazione fu accettata da Hitler il 30 giugno.

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    Con la caduta dell'Amba Alagi la resistenza nell'Impero non si esaurì. Continuavano infatti a combattere i valorosi reparti del Generale Gazzera nel Galla e Sidamo e quelli dell'Amara, comandanti dal gen. Nasi. La resistenza dei primi, in condizioni difficilissime, in una zona infestata dai ribelli e dai briganti, durò fino all'estate. Gimma, ove si erano rifugiati numerosi civili, cadde il 10 luglio. Più a lungo durò la resistenza delle truppe di Nasi le quali, intorno a Gondar tennero bravamente testa agli incessanti attacchi avversari. La resistenza in questo estremo ridotto italiano in Africa Orientale durò fino al 27 novembre, dopo la caduta di Uolchefit (28 settembre) e di Culquaber (21 novembre) che per mesi e mesi erano state le posizioni chiave di Gondar. La difesa 51 Uolchefit e' di Culquaber va annoverata fra le più belle pagine della nostra storia militare. Al col. Gonella comandante del presidio di Uolkefit (visibile nella .foto a sinistra, dietro al portabandiera, mentre sfila dinnanzi agli inglesi che gli avevano concesso l'onore delle armi) il comandante britannico aveva scritto, la bravura, l'eroismo della resistenza opposta dai vostri ufficiali e dai vostri uomini di fronte al fuoco di artiglieria è oggetto dell'ammirazione dell'Armata inglese e per me almeno sarà un onore incontrarvi quando questa guerra sarà finita. Non meno eroico fu il presidio di Culqualber, comandato dal col. Ugolini (nella foto a destra) ove un battaglione di carabinieri, rimasto senza munizioni, si sacrificò gettandosi contro il nemico all'arma bianca.

    L'attacco alla Russia

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    I paesi del Medio Oriente, che erano rimasti tranquilli fino all'aprile del 1941, sentirono nella primavera e nell'estate di quell'anno climaterico il violento contracolpo delle vittorie dell'Asse in Africa Settentrionale e nel Mediterraneo. La Siria, il Libano, l'Iraq e la Persia divennero infatti un'importante retrovia della gigantesca battaglia che s'andava sviluppando in direzione del Canale di Suez e l'Inghilterra ritenne necessario premunirsi contro eventuali colpi di mano tedeschi. Il pericolo del resto, non era solo immaginario: l'Asse aveva da tempo messo gli occhi su questo settore tanto importante per la strategia imperiale britannica ed avevano iniziato un'attiva opera di penetrazione politico-economica, preludio forse ad operazioni simili a quella di Creta. La posta era il petrolio del Medio Oriente. In alto il Medio Oriente nel suo assetto politico all'inizio delle operazioni militari con i famosi oleodotti.

    L'ATTACCO ALLA RUSSIA

    Il 22 giugno 1941, mentre il mondo attendeva che le armate tedesche, ormai da un anno attestate sulle coste della Manica, attaccassero la Gran Bretagna assediata, Hitler annunciò, dal suo quartier generale, l'inizio della guerra contro l'Unione Sovietica. La notizia sorprese l'opinione pubblica internazionale che si era ormai abituata a considerare Germania e URSS in un certo modo associate contro le potenze occidentali da quando, nell'agosto del 1939, Ribbentrop e Molotov avevano firmato a Mosca il famoso patto di non aggressione, era infatti sembrato che i due paesi, malgrado il contrasto ideologico che li divideva, fossero intenzionati a rimanere in pace. Successivamente l'occupazione da parte sovietica della zona orientale della Polonia, l'invasione, non contrastata da Hitler, dei paesi baltici e l'annessione Bessarabia e della Bucovina, avevano fatto pensare ad una più vasta intesa politica, in base alla quale, in cambio della non belligeranza sovietica, i tedeschi avrebbero dato via libera al governo di Stalin in tutti i territori ex zaristi, persi con l'armistizio di Brest Litovsk nel 1918. Ma anche se in apparenza filavano in perfetto accordo, Germania e Unione Sovietica avevano profondi motivi di contrasto. La loro convivenza, fra il '39 e il '41, era stata anzi tutt'altro che pacifica. Lo rivelò, all'atto dell'attacco, lo stesso Hitler, il quale diede notizia delle continue richieste di Molotov per aver via libera non soltanto contro la Finlandia ma anche contro la Bulgaria e la Turchia. Secondo documenti della Wilhelmstrasse, l'URSS avrebbe avuto anche una parte di rilievo nel colpo di stato di Belgrado che, staccando la Jugoslavia dal patto appena firmato con la Germania, aveva costretto Hitler ad una dispendiosa campagna di invasione. Il patto di non aggressione del 1939 era stato insomma solo un atto formale. L'Unione Sovietica, con quella firma, s'era semplicemente garantita un periodo di tranquillità, durante il quale, approfittando degli impegni tedeschi in occidente avrebbe completato, senza sparare un colpo, il programma di espansione in Europa che Stalin aveva ereditato dagli ultimi zar. La Germania, per parte sua, pur mettendo nel conto il pericolo di un'azione di sorpresa sovietica nel caso di un improbabile scacco in Francia, s'era tutelata alle spalle, evitando quella guerra su due fronti che, dopo il '18, era sempre stato lo spauracchio degli strateghi della Wermacht. Nella primavera del '41, almeno in apparenza, i presupposti del patto di non aggressione Ribbentrop Molotov avevano subito però un radicale mutamento. Vinta la Francia, occupata la penisola balcanica, impegnata duramente l'Inghilterra nel Mediterraneo, al comando tedesco si aveva la persuasione di non dover temere, in occidente, da un ritorno offensivo britannico. Lo spettro dell'invasione era anzi tanto lontano che Rider e i suoi generali ritennero di poter affrontare senza preoccupazioni l'Unione Sovietica, per chiudere con una serie dì battaglie di sterminio il vecchio conto col vicino orientale. Il piano germanico per questo nuovo e decisivo «Drang nahh Osten», (attacco ad Oriente), era dunque ambiziosissimo e gigantesco. Si basava tutto sul presupposto orgoglioso e temerario di poter mettere in ginocchio l'URSS prima dell'Inverno per poi andare a rovesciare sull'Inghilterra peso delle vittoriose armate tedesche, padrone degli sterminati campi di grano ucraini e delle immense risorse minerarie degli Urali. Solo cosi, del resto, ai spiega la decisione germanica di attaccare l'Unione Sovietica, ma v'ere anche un altro piano politico-militare, basato sulla rapida occupazione dell'URSS e la totale distruzione delle armate di Stalin, molti a Berlino pensavano che con una vittoria di simili proporzioni si sarebbe potuta trattare con la gran Bretagna una pace di compromesso, sul riconoscimento inglese del « nuovo ordine » in Europa e sul rispetto, da parte tedesca, dell'Impero coloniale inglese. Il «folle Volo» di Hess dimostra che questa illusione era profondamente radicata anche negli ambienti più vicini ad Hitler. Va aggiunto che a Berlino ben pochi credevano nelle buone intenzioni sovietiche nei riguardi della Germania e che anzi molti si attendevano da un giorno all'altro un attacco di sorpresa alle spalle della Wermacht, schierata in Francia. Quest'ipotesi fu ritenuta per lungo tempo frutto della propaganda tedesca ed è tuttora respinta dal sovietici, i quali dichiarano di non aver mai avuto l'intenzione di aggredire i tedeschi. Bisogna però rilevare che all'alba del 22 giugno, quando attaccarono la Unione Sovietica, i tedeschi trovarono l'armata rossa schierata su posizioni evidentemente offensive, specialmente nei due salienti di Leopoll e di Bialistok. L'eccessivo concentramento di truppe in questi due settori fu anzi il motivo primo della sanguinosa sconfitta subita dai sovietici nelle due prime settimane di guerra, quando interi corpi d'armata, sorpresi su posizioni troppo avanzate ed esposte, furono circondati e annientati. Quello sovietico fu dunque o un grave errore strategico o, come qualcuno crede, la prova migliore delle intuizioni offensive del governo di Mosca. E' comunque troppo presto per risolvere questo enigma che, del resto, non ha importanza agli effetti della nostra attuale narrazione. Per noi è invece più importante vedere come mai il comandò tedesco, il quale nella campagne di Francia ai era dimostrato ottimamente informato sulla situazione militare dell'avversario, si sia ingannato nel giudicare della potenzialità bellica sovietica. Per la verità io stato maggiore di Rider non mancava di informazioni sull'esercito avversario. Sapeva che i sovietici disponevano di una poderosa forza corazzata, di buone artiglierie e di una massa umana, pressoché inesauribile. Considerava anche, nella giusta misura, la potenzialità dell'industria pesante, alla cui realizzazione avevano partecipato molti Ingegneri tedeschi. Ma le precedenti infelici esperienze belliche dei generali nazisti e sovietici avevano radicato nella mente degli strateghi tedeschi una profonda disistima per le capacità belliche dell'avversario ed in particolare per la sua fanteria, ritenuta più un gregge che un mercato. V'era inoltre l'impressione, sulla quale si faceva un affidamento eccessivo, di un crollo del regime comunista dopo le prime dure sconfitte, magari per una ribellione interna. Si sapeva, infine, che la aviazione sovietica non era all'altezza della LuftWaffe e che quindi sarebbe stato relativamente facile conquistare il predominio dell'aria. Si riteneva insomma che i sovietici non sarebbero stati in grado di resistere e che in pochi mesi avrebbero fatto a fine della Francia. Tutte queste premesse all'attacco contro l'URSS si rivelarono errate, come ben sappiamo, tranne la valutazione dell'aviazione staliniana, che era esattissima. Ma forte l'epilogo della gigantesca campagna di guerra sarebbe stato ugualmente diverso se i gen. tedeschi Hitler prima di tutti, si fossero resi conto, sulla base dell'esperienza napoleonica, che nelle pianure russe ogni esercito d'invasione ha contro di se, oltre al nemico, due altri durissimi avversari: lo spazio e l'inverno. Furono infatti questi due fattori che determinarono, dopo le prime travolgenti vittorie, rovesciamento della situazione e, la irrimediabile sconfitta delle armate hitleriane.

    La guerra per il petrolio

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    La guerra del petrolio, che investi successivamente Iraq, Siria e Iran, ebbe il suo epicentro intorno ai pozzi di Bassora e di Mossul, alle grandi raffinerie di Abadan e al gigantesco oleodotto che da Kirkuk porta il prezioso liquido a Odia in Palestina e a Tripoli in Sirta. E' facile comprendere quale importanza avesse, per i britannici (e poi anche per i sovietici) la sicurezze in questo settore. Il petrolio del Medio Oriente era infatti per i due paesi in guerra, solo al quale potessero ricorrere senza affrontare i sottomarini germanici e italiani. Le armate del fronte meridionale sovietico e quelle britanniche impegnate nel Mediterraneo potevano quindi attingere agli inesauribili pozzi dell'Iran e dell'Iraq quasi senza impegnare le loro sovraccariche ferrovie e anche i trasporti via mare potevano svolgersi in acque vietate ai mezzi subacquei nemici. Prezioso, poi, si sarebbe dimostrato il petrolio dell'Iran e dell'Iraq nell'ormai imminente conflitto col Giappone in Asia. Nella foto in alto una veduta delle grandi raffinerie di Abadan. Nella foto in basso l'oleodotto iracheno che dalla regione del Tigri e dell'Eufrate porta il petrolio al Mediterraneo attraverso immense distese desertiche.

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    10 Aprile 1942. Il pretesto per l'intervento inglese nell'Iraq ove gli umori popolari s'andavano orientando in un senso sempre più anti-britannico, fu dato da un colpo di stato. A Bagdad una sollevazione depose l'Emiro Abdullah, tradizionalmente filo-inglese, mettendo al suo posto, in qualità di reggente Scerid Sciaraf. Poiché l'ispiratore della rivolta, Rachid Ah, era notoriamente amico della Germania, i britannici iniziarono senza preavviso lo sbarco di truppe nel porto di Bassora e la penetrazione in territorio iracheno dalla Transgiordania. Nella foto in alto a sinistra un contingente della « Legione Araba » comandata dal generale britannico Glubb Pascià che operò contro l'Iraq al fianco delle truppe inglesi. In alto a destra fucilieri arabi in trincea.

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    Il nuovo governo iracheno, di fronte all'occupazione inglese di Bassora e alla penetrazione di nuove truppe sul suo territorio, inviò al comando inglese
    un ultimatum, rimasto senza risposta, chiedendo che fossero sospesi gli sbarchi e che i contingenti venissero ritirati entro due settimane. Dopo questa inutile richiesta furono senz'altro iniziate, da ambo le parti, le ostilità. In un paese completamente privo di strade come l'Iraq e in lotta contro il tempo che avrebbe forse consentito ai tedeschi di inviare aiuti agli arabi, il comando inglese puntò prima di tutto alla occupazione degli aeroporti e delle principali città. Violenti combattimenti si svilupparono ben presto intorno ai centri strategici più importanti, raggiunti dalle colonne motorizzate britanniche, mentre massicce formazioni aeree colpivano gli aeroporti. A sinistra sentinella araba in un aeroporto occupato. A destra il bombardamento aereo del forte di Rutba.

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    Dopo alcuni giorni di accanita resistenza, le truppe irachene dovettero cedere alla superiorità avversaria, ma non senza aver inflitto alle colonne attaccanti severe perdite. La lotta si sarebbe anzi trasformata in guerriglia se la soluzione non fosse venuta ancora una volta da un movimento rivoluzionario. Rachid All e Scerid Sciaraf, ispiratori della resistenza, vennero infatti deposti e costretti alla fuga e il nuovo governo provvisorio stipulò con i britannici un armistizio. Il 31 maggio le ostilità avevano così termine in tutto l'Iraq che tornava ad essere, come per il passato, un protettorato inglese. A sinistra prigionieri iracheni in un campo di concentramento inglese. A destra l'Emiro Abdullah ritorna a Bagdad dopo il breve esilio.

    Francesi contro Francesi in Siria

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    8 Giugno 1941. In Siria e nel Libano, come in molti altri territori francesi d'Oltremare, s'era determinata, con l'armistizio del 1940, una situazione paradossale. Il territorio era infatti amministrato da un governo militare fedele a Vichy e quindi ostile ai britannici. Una parte delle truppe s'era dichiarata per il generale De Gaulle e per il movimento « France Libre ». La popolazione civile, invece, non parteggiava nè per gli uni nè per gli altri e anelava all'indipendenza, sempre promessa e mai concessa. Al confine meridionale e a quello orientale poi erano in anni gli ex alleati britannici, tutt'altro che teneri con i « collaborazionisti » e tentati di ripetere in suolo siriano il colpo gobbo di Mers el Kebir. Una situazione esplosiva, dunque, tanto più che a questa miscela va aggiunto un altro ingrediente, forse il più importante: il petrolio. Dopo la rapida conquista dell'Iraq è la volta della Siria e truppe anglo-gaulliste varcarono quindi il confine palestinese, puntando su Damasco. Nella foto a sinistra il gen. Legentilhomme che comandò sul fronte siriano le forze degaulliste. Al centro artiglieria ippotrainata varca il confine siriano all'alba dell'8 giugno. A destra il gen. Catroux che fu l'ispiratore da parte degaullista dell'attacco alla Siria.

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    Al comando del corpo di spedizione britannico-deguallista fu posto il gen. sir Henry Maitland Wilson, comandante delle forze britanniche in Palestina. Erano ai suoi ordini circa ventimila inglesi e cinquemila gaullisti. Il gen. Dentz fedele al governo di Vichy, disponeva di forze pressapoco uguali, costituite in gran parte da elementi della legione straniera e da truppe coloniali. La resistenza francese fu tenacissima. Sulla via di Damasco, in particolare, gli inglesi dovettero impegnare durissimi combattimenti che durarono oltre quindici giorni. A sinistra uno spahis delle forze di Vichy. A destra i degaullisti entrano a Damasco.

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    Non meno dura della Olia di Damasco fu la battaglia combattuta di fronte a Palmira, che cadde appena il 3 luglio, dopo scontri violentissimi fra unita motorizzate. Beirut, banchè bombardata dal mare e dall'aria, resistè per più di un mese. Ma la situazione delle truppe di Dentz era disperata, polche all'attacco delle truppe palestinesi, sviluppatosi per il Gebel Druso verso Damasco e lungo la costa in direzione di Beirut, s'aggiunge l'azione delle truppe distaccate dall'Iraq e operanti oltre Palmira. Nella foto mezzi cingolati britannici in azione fra le rovine romane di Palmira.

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    9 luglio 1941. Vista l'impossibiltà di resistere a lungo il Gen. Dentz dovette chiedere a Vichy l'autorizzazione a trattare la resa. Tre giorni dopo, a Damasco, venne quindi firmato un armistizio in base al quale i francesi che non avessero accettato di far parte delle formazioni degaulliste, avrebbero avuto il diritto di rimpatriare. Il 18 luglio il gen. Catroux proclamava l'indipendenza della Siria, mossa resa necessaria dalla grave situazione interna del paese, che poi Parigi avrebbe cercato di rimangiarsi a guerra finita. Nella foto i plenipotenziari francesi e britannici a Damasco dopo la firma dell'armistizio.

    Conflitto in Persia

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    I britannici invasero l'Iran dal vicino territorio iracheno o puntarono direttamente su Teheran. La loro prima preoccupazione fu l'occupare i pozzi di petrolio e le raffinerie. Nella foto un reparto britannico si avvia a presidiare una grande raffineria in territorio persiano.

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    L'ultima piccola guerra del petrolio ebbe come vittima la lontana e indifesa Persia che aveva fatto sforzi tenacissimi per rimanere fuori del conflitto. Il pretesto, questa volta, fu ancor meno plausibile di quelli adottati in precedenza per giustificare agli occhi del mondo l'invasione della Siria e dell'Iraq: il governo Iraniano, cioè, fu accusato di tergiversazione nell'espulsione dei sudditi italiani e tedeschi dal suo territorio. Questo bastò per scatenare su Teheran due colossi: la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica, ormai in guerra contro la Germania. Nella foto lo Scià Riza rahlevi che, deposto dagli invasori, dovette cedere il trono al figlio Mohamed, attuale imperatore dell'Iran.

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    Mentre le loro truppe procedevano nell'interno del Paese, navi britanniche e squadriglie aeree anglo-russe attaccavano i porti sul Golfo Persico. Era questa la battaglia fra l'elefante e la pulce e l'esito era scontato in partenza. Nella foto la cannoniera iraniana (Babr» affondata dagli inglesi nel porto di Khorramshahr mentre tentava di opporsi allo sbarco britannico.

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    25 agosto 1941. Insieme ai britannici, anche i russi parteciparono all'attacco contro l'Iran. Truppe corazzate e motorizzate sovietiche dilagarono nell'Azerbagian marciando su Tabriz e su Teheran che fu raggiunta il 17 novembre. Ai persiani non rimase che arrendersi eseguendo gli ordini dei nuovi padroni. A sinistra il gen. Wawell a colloquio con un ufficiale sovietico. A destra carri armati sovietici entrano a Tsbris.

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    La guerra e l'umorismo in queste due vignette britanniche. A sinistra, Mussolini e Goebbels sono alle prese con un problema insolubile. Malgrado i megafoni della propaganda, due più due non fa nove — dicono gli inglesi — e le bandierine sulla carta geografica non possono nascondere le perdite di Luftwaffe. A destra Hitler; nelle vesti di un capomastro, ricorre ad un'infinità di puntelli per tenere in piedi il castello delle illusioni naziste.

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    Queste due vignette sono tedesche. Quella a sinistra reca il titolo « Democrazia ». Quella a destra reca il titolo « Plutocrazia ». L'Asse aveva basato tutta la sua propaganda sul contrasto tra i giovani popoli totalitari che volevano spezzare « le catene del privilegio e la plutocrazia internazionale » la quale, ingannando il mondo sui suoi scopi reali dl guerra, « voleva mantenere le precedenti condizioni di predominio ».
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    Siluri dal cielo

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    23 luglio 1941. Un importante convoglio inglese scortato dalla forza H (corazzate « Nelson » e « Renown », portaerei « Ark Royal », incrociatori e eacciatorpediniere) fu attaccato a Sud della Sardegna da forze navali ed aeree italiane. Durante un simultaneo attacco di bombardieri e aerosiluranti, che il rapporto inglese definì « molto ben sincronizzato », fu affondato con siluri il CT. « Fearless » e gravemente danneggiato l'incrociatore « Manchester ». I bombardieri colpirono il CT. « Firedrake ». Nel Canale di Sicilia il convoglio fu severamente impegnato da unità di superficie e, nonostante il contrasto aeronavale inglese, il MAS del C. F. Ernesto Forza silurò il grosso piroscafo « Sidney Star ». Nella foto nostri aerosiluranti in vista della formazione britannica.

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    Nel Mediterraneo l'aviazione italiana da bombardamento continua a martellare senza soste i convogli britannici che si muovono da Alessandria e da Gibilterra per rifornire l'isola di Malta. Nella foto un trimotore ha sganciato su un piroscafo inglese colpendolo in pieno da bassa quota.

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    15 giugno 1941. Gli inglesi iniziarono, su un fronte largo circa una quarantina di chilometri, fra Sollum e Sidi Omar, un forte attacco con notevoli aliquote di truppe corazzate e motorizzate. Essi tendevano a ricongiungersi con le forze che erano rimaste assediate a Tobruk e che resistevano, rifornite dal mare, ai continui attacchi delle truppe di blocco italo-tedesche. Nella foto carri armati pesanti dell'esercito britannico avanzano nel deserto nella zona di Sidi Omar.

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    Le forze britanniche erano divise in tre grosse colonne. La colonna che operava a nord puntava, lungo la costa, sull'Hallaya; quella centrale iniziava l'investimento della ridotta Capuzzo, con obiettivo Bardia; quella meridionale manovrava tentando di aggirare, con una manovra a vasto raggio, lo schieramento italo-tedesco. L'azione fu contenuta da Rommel con un'ardita contromanovra che raggiunse, in tre giorni, pieno successo. Nella foto i carri britannici attaccano l'Halfaya.

    Attacco Britannico in A.S.

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    Il piano dell'Asse era molto semplice ed insieme geniale: resistere sull'Uadi Halfaya senza badare alle infiltrazioni nemiche in altri settori contigui e lanciare, nel contempo, alle spalle dell'avversario, un buon nerbo di forze corazzate, tentando di tagliare le vie della ritirata alle truppe nemiche incautamente spintesi troppo avanti. La contromanovra fu iniziata il secondo giorno dell'offensiva inglese. Carri italiani e tedeschi attaccarono con decisione sul fianco avversario, cogliendo fin dall'inizio un brillante successo.

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    La fine di un carro armato britannico immobilizzato da un
    preciso colpo dell'artiglieria anticarro, il colosso d'acciaio viene finito da un lanciafiamme avvicinatosi a distanza di tiro.

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    Non sarebbe stato possibile, a Rommel, di contrattaccare, se sulla linea dell'Halfaya gli italiani avessero ceduto. Ma questo pilastro difensivo, pur attaccato da varie parti da grosse formazioni di carri nemici, resistette impavido. Se in qualche punto i britannici riuscirono ad infiltrarsi nelle nostre difese, fu a prezzo di gravissime perdite che peraltro non bastarono a determinare il crollo della linea dell'Asse. Grande eroismo fu dimostrato in particolare dalle batterie anticarro, che spezzarono l'urto dei tanks britannici combattendo spesso con alzo a zero.

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    La cooperazione dell'aviazione italiana alla operazioni di. terra
    fu efficacissima, durante l'offensiva inglese dimezzo giugno.
    42 apparecchi britannici furono infatti distrutti durante i tre
    giorni di combattimento. Nella foto un cacciabombardiere
    britannico del tipo « Hurricane » attacca le nostre posizioni.

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    Un aspetto della lotta nel settore centrale del fronte libico: fanterie italiane al contrattacco per riconquistare una posizione presa dai britannici. Anche questa volta la martoriata Ridotta Capuzzo fu al centro dei combattimenti e fu ripresa e ripersa varie volte.

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    16 giugno 1941. Mentre sul fronte di Sollum si sviluppa l'offensiva britannica intorno a Tobruk assediata infuria un uragano di ferro e di fuoco. Le truppe inglesi assediate tentano di rompere il cerchio italo-tedesco e di ricongiungersi con l'armata d'Egitto, ma i loro attacchi vengono rintuzzati dalla reazione avversaria. Nella foto sono visibili gli effetti del tiro sulle opposte linee difensive. In primo piano trincee, mezzi motorizzati e postazioni italo-tedesche, sulle quali giungono i colpi delle artiglierie della piazzaforte assediata. Sullo sfondo, il fumo degli incendi provocati a Tobruk dal martellamento delle artiglierie.

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    Questa eccezionale fotografia, scattata alle spalle di un operatore cinematografico, illustra un combattimento fra carri armati tedeschi e carri armati britannici. A destra i « panzer » germanici all'attacco. A sinistra, avvolti dal fumo delle esplosioni, i « tanks » inglesi che cercano scampo nella fuga.

    Ecatombe di carri Inglesi

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    18 giugno 1941. La grande battaglia di mezzo giugno si conclude con la ritirata degli inglesi. I carri armati britannici, dopo l'insuccesso dei loro attacchi contro il presidio italiano dell'Halfaya, s'erano trovati in grosse difficoltà poiché le colonne corazzate lanciate sul loro fianco da Rommel li minacciano di accerchiamento. L'offensiva s'era quindi tramutata in una fuga disordinata verso il confine egiziano. Nella foto motociclisti tedeschi dell'Afrika Korps esaminano il relitto di un carro inglese distrutto degli anticarro italiani durante la fase finale dell'offensiva.

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    Il generale Rommel ispeziona un carro inglese catturato dalle sue truppe. Gli inglesi persero, nella sfortunata offensiva, 250 carri armati, che rimasero sul terreno a testimoniare della asprezza della lotta e della tenacia della resistenza italo-tedesca.

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    Nel primo semestre del 1941 la lotta contro il traffico britannico in Atlantico continuò intensissima. Tuttavia da parte inglese fu rilevato che il ritmo degli affondamenti era andato descrescendo costantemente. Churchill, anzi, con ottimismo un po' prematuro, aveva addirittura dichiarato ai Comuni che la battaglia dell'Atlantico era ormai vinta. Altri duri colpi avrebbe invece subito la marina mercantile britannica, specialmente nell'agosto del 1941, quando le perdite superarono le duecentomila tonnellate settimanali. Nella foto un sommergibile tedesco parte per una missione.

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    Contro il traffico dei rifornimenti nemici, i tedeschi lanciarono anche la Luftwaffe che martellò con particolare accanimento le coste orientali della Gran
    Bretagna e il Mare d'Irlanda. Bombardieri e aereosiluranti poterono colpire i piroscafi che; in prossimità dei porti, fidando così nella protezione delle batterie costiere e delle piccole unità di vigilanza, lasciavano i convogli per affluire a piccoli gruppi nei porti di sbarco. Nella foto un Heinkel He 115 attacca col siluro un mercantile britannico navigante, senza scorta, verso il porto di destinazione.

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    Le navi di superficie tedesche, dopo i successi del primo anno di guerra, rallentarono la loro attività. Tuttavia, sopratutto per ragioni di prestigio, il comando tedesco continuò a sguinzagliare in Atlantico, specialmente sulla rotta artica, i suoi incrociatori leggeri che, partendo dalle basi norvegesi, colsero lusinghieri successi. Nella foto un incrociatore germanico finisce a cannonate una petroliera britannica sorpresa a nord dell'Islanda.

    Cannoni e siluri in atlantico

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    Nel 1941 fu intensificata l'azione dei sommergibili italiani in Atlantico nella zona a Ponente di Gibilterra. Le nostre unità, pur soffrendo dolorose perdite
    (5 battelli in due mesi) che testimoniano dell'asprezza della lotta, conseguirono notevoli successi affondando durante l'anno 500.000 tonnellate di naviglio nemico. Nelle foto uno dei nostri più intrepidi siluratori, il T. V. Gazzana Priaroggia e una delle sue vittime, il transatlantico « Empress of Canada ».

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    In Atlantico si distinse tra gli altri il sommergibile « Cappellini », al comando del C. C. Todaro, una singolarissima figura di Eroe che aveva insegnato al suo equipaggio a « guardare il nemico nel bianco degli occhi ». Fedele a questo principio il Cappellini attaccò col cannone l'incrociatore ausiliario inglese « Eumocus », carico di truppe. Dopo un durissimo scontro l'incrociatore fu affondato ed i 3500 soldati imbarcati, gettatisi in mare, furono letteralmente sbranati dai pescicani che infestavano la zona. Durante il combattimento il tenente D. M. Stiepovich, sostituito volontariamente un mitragliere, ebbe una gamba asportata da una scheggia. Prossimo a morire chiese al Comandante di poter assistere alla fine della nave avversaria. A destra il Ten. Stiepovich, decorato di Medaglia d'Oro alla Memoria. A sinistra una petroliera finita a cannonate da un nostro sommergibile.

    Tedeschi a oriente

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    Nei primi, giorni di giugno le armate tedesche eseguirono, nel massimo segreto, importanti spostamenti dalle loro basi metropolitane e francesi affluendo verso i paesi balcanici e la Polonia. Furono rafforzati i presidi germanici in Ungheria e in Romania che raggiunsero la consistenza di due grosse armate. Che cosa andava maturando, nell'oriente europeo? La risposta l'avrebbe data, dopo pochi giorni, il rombo del cannone. Nelle foto in alto a sin. truppe motorizzate tedesche in Ungheria varcano il Danubio nei pressi di Budapest. In basso a sinistra un gigantesco ponte su chiatte costruito in poche ore dai pontieri tedeschi sul basso Danubio in Romania per facilitare l'afflusso delle truppe. In alto a destra lungo la gigantesca strada fluviale danubiana le chiatte trasportano senza posa uomini e mezzi. In basso a destra un gigantesco carro armato tedesco del gruppo corazzato « Guderian ».

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    In previsione dell'attacco all'Unione Sovietica il comando tedesco aveva schierato, dal Baltico al Mar Nero le sue truppe migliori, anzi il più grosso esercito che mai nella storia si fosse visto. All'estremo nord il maresciallo von Leeb era pronto a scattare con 35 divisioni alla frontiera della Lituania. Lungo la frontiera polacca, sulla linea di demarcazione fissata nel settembre del '40, erano le truppe di von Bock, con 45 divisioni, di cui diciassette corazzate. In Galizia, in Romania e in Ungheria, von Rundstetd disponeva di altre trenta divisioni, mentre gli alleati slovacchi, ungheresi e romeni mettevano in campo tre armate. In Finlandia erano poi ancora una volta in armi le eroiche truppe di Mannerheim, rinforzate a Petsamo dagli Alpen-Jager del generale Dietl. Un complesso imponente, dunque, che aveva la sua punta di diamante, come si sarebbe visto, nelle divisioni corazzate. Le tre foto illustrano le varie fasi della preparazione tedesca alla vigilia dell'attacco: le truppe corazzate prendono posizione dietro al velo protettivo della fanteria.

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    Il più massiccio concentramento tedesco fu realizzato nel settore centrale del fronte, cioè in corrispondenza della cosidetta strada di Napoleone. In quel settore, infatti, i tedeschi intendevano operare lo sfondamento, per poi tentare una manovra di accerchiamento a vasto raggio. Le difficoltà del terreno erano però grandissime, specialmente nella zona paludosa del Pripet. Giganteschi lavori furono quindi necessari per rendere possibile la manovra delle truppe corazzate. Nelle tre foto la penosa marcia di avvicinamento dei tedeschi alla frontiera orientale del protettorato polacco.

    La preparazione sovietica

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    Quale fosse il grado di preparazione militare dell'Unione Sovietica nessuno avrebbe potuto dirlo, nel giugno del 1941. Nella guerra contro la Finlandia la prova dell'armata rossa non era stata brillante, ma molti critici militari ritenevano che l'URSS non avesse messo in campo, in quella occasione, che una parte infinitesimali del proprio esercito, e non la migliore. I servizi di informazione tedeschi, però, erano di parere diverso. La tendenza generale era di sottovalutare il potenziale bellico sovietico e la capacità combattiva del soldato naso. Nella foto una parata di carri armati sulla Piazza Rossa a Mosca.

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    Un cavaliere cosacco dell'armata rossa durante un'esercitazione. I sovietici avevano ridotto al minimo quest'arma tradizionale, polche l'esperienza aveva insegnato loro che la lotta, nelle steppe della Russia, si sarebbe risolta in giganteschi scontri di truppe corazzate. Anzi, a differenza del britannici e dei francesi, che dopo aver introdotto i « tanks » nella prima guerra mondiale, non ne avevano compreso le possibilità in campo strategico, considerandoli come armi di accompagnamento e di appoggio alla fanteria, i sovietici avevano organizzato come i tedeschi imponenti formazioni autonome di carri armati. Si ritiene che all'inizio del conflitto l'armata dell'URSS disponesse di oltre quindicimila mezzi corazzati, in gran parte di tipo superato. Fra i tipi più recenti, tuttavia, vi erano carri da oltre cinquanta tonnellate. Nella foto di sinistra uno schieramento di caccia sovietici. Si tratta dei nuovissimi a Lavoschkin 7 ».

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    Al comando delle forze tedesche sul fronte orientale fu posto il feldmaresciallo von Brauchitsch. Il maresciallo von Rundstedt ebbe il comando del gruppo di armate sud. Il maresciallo von Bock fu messo alla testa del gruppo di armate del centro, mentre von Leeb comandava le armate del settore lituano. Da sinistra a destra von Rundstedt, von Bock e von Schobert. Quest'ultimo, comandante della 11' armata, cadde in combattimento sul fronte sovietico.

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    I capi sovietici (da sinistra a destra): il maresciallo Voroscilov, comandante del gruppo di armate nord; il maresciallo Budiennj, comandante del gruppo di armate sud. Il maresciallo Timochenko, comandante delle truppe nel settore centrale. I tre marescialli sovietici appartenevano alla vecchia guardia dell'armata rossa ed avevano combattuto valorosamente nella guerra civile. Il più caratteristico dei tre, Budiennj, proveniva dalla cavalleria ed aveva una limitatissima esperienza di comando che gli sarebbe stata fatale nell'urto contro le armate di von Rudstedt.
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    22 Giugno 1941 ore 4,30

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    22 giugno 1941. Un proclama del Fuhrer dal suo quartier generale annuncia al mondo l'inizio dell'attacco all'Unione Sovietica. La grande avventura è cominciata. Avrà il suo epilogo sanguinoso il 1. maggio 1945 tra le rovine della Cancelleria, nel cuore di Berlino. Nella foto il teatro dell'offensiva tedesca contro l'URSS.

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    E' l'alba del 22 giugno. I tedeschi varcano il Niemen al confine polacco-lituano i sovietici non si sono però lasciati sorprendere: il brillamento delle mine ha interrotto i ponti e costringe gli invasori al traghetto, sotto la protezione dell'artiglieria. Tra poche ore la testa di ponte si allargherà e comincerà la rapida avanzata.

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    Carri armati tedeschi all'offensiva nella pianura polacca. E' questo il principale teatro di guerra ed è qui che von Brauchitsch opererà lo sfondamento del fronte avversario dopo una settimana di continui e massicci attacchi. I tedeschi come prima di loro Napoleone, dovranno però affrontare un nuovo nemico, sconosciuto nelle campagne di Norvegia, di Francia e di Balcania: lo spazio. La difesa sovietica era infatti scaglionata in profondità e malgrado i successi dell'offensiva, sarebbe sfuggita ai tedeschi la possibilità di assestare all'avversario il colpo decisivo.

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    Fronte meridionale: si combatte in Bessarabia e in Bucovina, cioè nei territori occupati l'anno precedente dall'Unione Sovietica dopo l'ultimatum alla Romania. Anche questa progressiva espansione verso occidente è da considerarsi come una delle cause dell'attacco tedesco all'Unione Sovietica. Berlino non poteva infatti accettare senza reagire la perdita di vasti territori che avrebbero consentito ai sovietici di minacciare da vicino la Germania, impegnata in occidente in una lotta per la vita o per la morte. Nella foto fanterie tedesche, appoggiate da carri armati, combattono fra le case di un villaggio romeno in fiamme.

    Fronte Finlandese

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    La guerra all'estremo nord. L'esercito finlandese è di nuovo in piedi contro il colosso sovietico, ma questa volta non è solo: al suo fianco combattono, contro lo stesso nemico, tedeschi e ungheresi, slovacchi e romeni. Tra poco giungeranno sul fronte anche gli italiani del CSIR. In alto a Sinistra il maresciallo Mannerheim segue dal suo posto di comando l'attacco delle truppe finniche alle difese sovietiche still'itsmo careliano occupato nel marzo dell'anno precedente. In basso a sinistra soldati finnici abbattono la stella rossa issata sul portone di un edificio pubblico in una cittadina occupata dai sovietici in Carena. In alto a destra si rinnovano nelle città finlandesi i tristi eventi già verificatisi nella guerra del 1939. Nelle foto profughi careliani si ammassano per le vie di Helsinki. In basso a destra la renna è di nuovo al fianco del combattente finlandese, specialmente nella zona di Petsamo, ove si combatte sotto zero anche in piena estate.

    Lo sfondamento della linea Stalin

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    La battaglia che divampò fra la fine di giugno e la prima quindicina di settembre sull'immenso fronte sovietico dalla Penisola dei Pescatori, alla costa del Mar Nero, è da considerarsi come una delle più grandi della storia. Mai, comunque, prima di allora, s'erano visti in campo tanti uomini e tanti mezzi e mai i combattenti dell'una e dell'altra parte erano stati animati da una così estrema decisione. Ma se su tutto il fronte infuriavano i combattimenti, il centro della battaglia fu in territorio polacco, nei due salienti di Bialystock e di Leopoli che per oltre un mese si tramutarono in una fornace ardente che macinò inesorabile uomini e materiali. La cartina indica la zona dei combattimenti intorno a Bialystock e le direttrici di marcia delle truppe che sfondarono la linea Stalin.

    LO SFONDAMENTO DELLA LINEA STALIN

    Quando, il 22 giugno 1941, le truppe tedesche iniziarono l'offensiva contro l'Unione Sovietica, Hitler fondava tutti i suoi piani strategici sul presupposto di poter piegare la resistermi nemica prima dell'inverno. Egli non s'illudeva certo di poter occupare materialmente in così breve tempo tutto l'immenso territorio dell'Unione Sovietica ma riteneva (d'accordo col suo stato maggiore) di poter annientare, in una serie di battaglie campali, il nucleo principale dell'esercito di Stalin. Così, una volta eliminate dalla lotta le più importanti e munite divisioni avversarie, annullata la massa corazzata sovietica, occupate le più importanti città industriali della Russia europea, i tedeschi avrebbero potuto svernare senza pericoli nel cuore dell'URSS per poi riprendere a primavera le operazioni militari che avrebbero dovuto portare alla definitiva scomparsa del comunismo. E si sarebbe trattato, secondo l'Oberkommando di Hitler, soltanto di una passeggiata militare. Una volta conclusa la conquista, tutta la massa d'urto tedesca si sarebbe rovesciata sull'Inghilterra per l'attuazione dei piani di invasione già predisposti nel 1940. A meno che, s'intende, il governo di Londra non si fosse piegato prima ad una pace di compromesso sulla base delle note proposte di Hess. L'andamento delle operazioni militari, nei primi due mesi, parve confermare sul terreno le ottimistiche previsioni dello stato maggiore tedesco. Si ripetevano infatti sulle pianure polacche e nello stesso territorio sovietico, le battaglie di annientamento cui il mondo attonito aveva assistito nei due anni precedenti: il grande esercito di Stalin, pur formidabilmente armato, pur agguerrito, pur deciso a resistere, sembrava non potere contenere l'urto germanico. Per giunta, alcuni errori iniziali dei generali sovietici portarono fin dai primissimi giorni ad una vera e propria catastrofe, che vide la completa distruzione di ben due armate russe: una catastrofe da far impallidire il ricordo di Canne e di Tannenberg. Gli accordi tedesco-sovietici per la spartizione del territorio polacco, stipulati nel settembre del '39, avevano disegnato sulla carta geografica due grossi salienti che s'inoltravano ben dentro ai confini del « Commissariato Generale »: quello di Bialystock e quello di Leopoli. In questi due salienti, forse a scopi offensivi, i sovietici avevano ammassato grosse formazioni di carri armati e di fanteria. I tedeschi perciò, con la tattica già usata in Francia, evitarono l'attacco frontale, lanciando sul loro fianco potenti colonne motorizzate che, avanzando rapidamente, si trasformarono in una gigantesca tenaglia. Ouando le formazioni avanzanti da nord e da sud si congiunsero nella zona di Minsk, ogni tentativo sovietico di uscita dalla sacca fu vano. La battaglia, furibonda per l'accanimento delle truppe sovietiche che resistettero fino all'ultimo e fino all'ultimo sperarono di sfondare l'accerchiamento, si trasformò ben presto in una ecatombe. Fra morti, feriti e prigionieri, le perdite sovietiche raggiunsero mezzo milione di uomini e quelle materiali non furono inferiori: all'ottavo giorno di combattimento risultavano perduti dai russi ben duemiladuecento carri armati. Di notevolissime proporzioni fu anche i1 successo tedesco nell'altro saliente, quello di Leopoli, che cadde il 30 aprile dopo furibondi combattimenti, dando via libera alle truppe germaniche verso le fertili pianure ucraine e la grande città di Kiev. Si sviluppava così, dopo la battaglia di rottura felicemente conclusa, la grande manovra tedesca. Tre erano le principali direttrici di attacco: quella del nord, che costeggiava il Baltico e tendeva a
    raggiungere Leningrado, contro la quale operavano anche, dalla Finlandia, le truppe di Mannerheim; quella centrale, lungo la quale von Bock puntava
    decisamente su Mosca ed aveva già raggiunto Minsk dopo l'annientamento di due armate di Timoscenko, quella meridionale, che superata Leopoli e Dubno puntava su Kiev e di là tendeva a scendere verso il Mar Nero, ove operavano contro Odessa le truppe romene di Antonescu. Ma se per le gravissime perdite subite dal comando sovietico, le truppe avversarie sembravano aver perso gran parte della loro potenzialità militare, se la ritirata s'era fetta generale e rapidissima, per l'esercito di Hitler c'era almeno un grosso ostacolo da superare: la cosidetta Linea Stalin. Non si trattava, certo, di una Maginot orientale. Ma se la Linea Stalin non aveva la grandiosità delle fortificazioni francesi, se non era, come la Maginot, una selva ininterrotta di bunker e di casematte, non riproduceva nemmeno i difetti del sistema occidentale. Era, infatti, di concezione più moderna e meno rigida e poteva essere considerata, più che altro, un valido appoggio per una difesa manovrata e imperniata sui grandi corsi d'acqua della regione: dal Dniester al Dnieper, al Pripet, alla Beresina, alla Dvina, alle paludi della zona settentrionale. La battaglia della Linea Stalin si accese violentissima nei primi giorni di luglio. I sovietici, era ormai evidente, avevano principalmente lo scopo di guadagnare tempo per rendere possibile l'afflusso delle truppe fresche che la lenta mobilitazione del paese rendeva appena allora disponibili E vi riuscirono, anche se dopo appena una settimana dall'attacco, il 12 luglio, i tedeschi potevano annunciare di aver sfondato le difese avversarie in parecchi punti. Ma nemmeno l'apporto delle nuove divisioni riuscì' a rallentare l'avanzata tedesca. E infatti falli in pieno il primo tentativo di controffensiva dei sovietici di fronte a Vitebsk, mentre sul Pruth von Rundstedt avanzava rapidamente su Kiev e von Leeb, a nord, minacciava ormai da vicino Leningrado. Si entra così, su tutto l'arco del fronte, in una nuova fase operativa, la terza della campagna. Quando — il 17 luglio — i tedeschi annunciano, nella zona centrale, la conquista di Smolensk, appare chiaro che lo sforzo germanico è al culmine. Van Bock, l'uomo delle Fiandre e di Dunkerque, non dà tregua al nemico. Nella zona di Nevel alcune divisioni sovietiche, chiuse in una morsa, vengono annientate. Il colpo si ripete qualche giorno dopo a Moghilev, poi ancora a Rostov. Ma il successo più grande il maresciallo tedesco lo ottiene a Gomel: ottantamila prigionieri, 17 divisione avversarie pressochè distrutte. Siamo ormai alla fine di agosto e i tempi sernbrano maturi per il grande attacco contro la capitale sovietica. Anche su tutto il resto del fronte, infatti, i tedeschi e i loro alleati hanno fatto importanti progressi. A nord, finnici e tedeschi stanno serrando una ferrea morsa intorno alla vecchia capitale zarista. I finnici avanzano sulle due sponde del Ladoga e i tedeschi, completata la conquista dei paesi baltici, sono a Narva, dopo aver accerchiato Tallin. Nella Russia Bianca, come abbiamo visto, von Bock è oltre Smolensk e tiene solidamente Nevel, Veliki Luki, Vitebsk, Gomel, ecc. Sul fronte meridionale, von Rundstedt e Antonescu hanno fatto anch'essi progressi rapidissimi: Odessa è circondata o quasi; il Bug è superate su tutta la linea; Uman è raggiunta; a nord e a sud dì Kiev le teste di ponte tedesche hanno oltrepassato il Dnieper. La situazione, per i sovietici, è dunque drammatica. Vedremo in seguito come crisi sia stata superata dal comando russò e come, invece dell'atteso attacco contro la capitale, i tedeschi abbiano lanciato invece una poderosa offensiva sul fronte meridionale. Una offensiva che allora sembrò geniale e splendidamente riuscita ma che, alla luce della storia, è giudicata oggi come un errore che portava già in sè i germi del disastro che sarebbe maturato l'anno successivo a Stalingrado.

    La battaglia dei carri armati

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    Il 22 giugno 1940, quando i tedeschi iniziarono il loro attacco contro le forze sovietiche, tre erano le direttrici principali di penetrazione fissate dall'Oberkommando: quella del nord, che puntava su Leningrado attraverso i paesi baltici; quella di Minsk-Smolensk, già percorsa da Napoleone, che portava a Mosca; quella dell'Ucraina che da Leopoli a Kiev puntava ad isolare l'intero settore meridionale del fronte. Il disegno operativo era quindi grandioso e ambiziosissimo, poiché tendeva alla conquista, in una campagna rapida e massiccia, dei tre principali centri sovietici. Dalle città conquistate, poi, gli eserciti di Killer, avrebbero dovuto dilagare nella pianura russa verso gli Urali ed oltre, fino al completo annientamento dell'avversario. Per raggiungere gli scopi della guerra i tedeschi avevano organizzato tre gruppi di armate, con imponenti forze corazzate e motorizzate. Nella foto una divisione corazzata germanica spiegata in formazione di battaglia muove all'attacco delle posizioni sovietiche nel settore di Brest Litovsk.

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    La tecnica dell'attacco fu, anche sul fronte russo, simile a quella adottata nel '39 in Polonia e nel '40 in Francia: azioni massicce dei carri armati, appoggiati dalla fanteria e dell'artiglieria semovente per scardinare le difese nemiche. Quindi penetrazione in profondità dei panzer, accerchiamento dell'avversario e conseguente rastrellamento con la suddivisione delle sacche in settori sempre più piccoli, fino all'annientamento e alla resa delle forze assediate. In questo tipo di manovra i tedeschi potevano contare su un'attrezzatura formidabile e perfetta, particolarmente studiata per l'impiego sul territorio russo, scarsamente dotato di strade, spesso intersecato da fiumi e corsi d'acqua di varia importanza e talvolta, come nella Russia Bianca, reso difficile da vaste paludi. Nella foto: un mezzo cingolato tedesco, di proporzioni colossali, usato per il traino delle artiglierie da campagna.

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    Per il passaggio dei numerosissimi fiumi sovietici i tedeschi avevano preparato, con il loro genio pontieri, passerelle prefabbricate, dal montaggio rapido e facilissimo. In tal modo le interruzioni provocate dai sovietici in ritirata non ebbero mai il potere di interrompere la marcia delle panzer-divisionen. Nella foto un carro medio tedesco su un ponte di fortuna.

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    Le prime linee sovietiche, attestate in posizioni campali, non
    furono in nessun posto, un serio ostacolo all'offensiva tedesca. Quasi dovunque bastarono poche ore di battaglia per provocarne il crollo, Malgrado la tenace resistenza dei russi. Si trattava però di una linea di copertura destinata soltanto a ritardare l'urto delle masse principali. Nella foto fanti tedeschi oltrepassano un trinceramento abbandonato dai sovietici.

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    Gravissime furono le difficoltà provocate alle masse corazzate germaniche dalle particolarità del terreno nella zona dei combattimenti. Paludi, corsi d'acqua, mancanza quasi assoluta di strade provocarono ritardi e inciampi di rilievo. Nella foto a sinistra zappatori germanici aprono la strada nella fanghiglia ai grossi panzer di von Kliige. Nella foto a destra il guado di un fiumiciattolo in Polonia,

    Duello fra colossi

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    Per una settimana, dal 22 al 29 giugno i comunicati tedeschi mantennero un silenzio quasi assoluto sull'andamento delle operazioni militari. Furono fatti solo dei cenni generici sul « corso favorevole della battaglia » e sul delinearsi di « successi di grande proporzione ». Erano invece in pieno corso due gigantesche battaglie d'annientamento che avevano il loro epicentro nelle zone di Bialystock e di Leopoli, mentre l'avanzata procedeva senza soste su tutto l'arco del fronte. Il 25 giugno i combattimenti di confine potevano infatti considerarsi esauriti e iniziato lo scontro fra i nuclei centrali dei due eserciti contrapposti. Nella foto scontro di carri armati nell'immensa pianura. In primo piano i panzer tedeschi: sullo sfondo, centrati dal tiro, i carri sovietici.

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    In questa fotografia, che vede impegnati in un combattimento a distanza ravvicinata gli uomini di una colonna motorizzata, appare evidente la tattica dei tedeschi in Russia: non più le lente avanzate della fanteria, ostacolate dalla pesantezza dei servizi, ma rapide puntate in profondità di elementi di rottura, pronti ad osare il tutto per tutto e decisi a scompaginare le difese avversarie.

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    27 giugno 1940. I comunicati tedeschi cominciano a localizzare sulla carta geografica i luoghi dei furibondi combattimenti in corso. Si parla così per la prima volta del saliente di Bialystock e del fronte galiziano: zone in cui stanno per maturare importantissimi eventi. Come abbiamo già avuto occasione di dire, in queste due zone, che si addentravano pericolosamente in territorio tedesco, il comando sovietico aveva ammassato un grande nerbo di truppe, forse in vista di un'operazione offensiva. Senonchè il comando tedesco, con abilissima mossa, constatata l'entità delle forze ad esso contrapposte, aveva spostato sui fianchi il suo sforzo offensivo. E così, mentre dinnanzi a Bialystock le truppe di Timoscenko resistevano bravamente, già due forti colonne corazzate correvano, nell'interno del territorio sovietico, verso l'importantissimo nodo ferroviario e stradale di Minsk, capoluogo della Russia Bianca. Nella foto panzer germanici martellano un caposaldo sovietico accerchiato nella zona di Brest Litowsk.

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    Non meno importanti i successi ottenuti in quattro giorni sul fronte nord, ove le forze sovietiche comprese tra il Baltico e Vilno erano già state isolate dal resto dell'esercito dalle truppe del maresciallo von Leeb. Kaunas era anzi caduta fin dal 24, come Vilno, mentre Dunaburg cadeva due giorni dopo. A sinistra artiglierie tedesche in azione sul Niemen. A destra un pezzo anticarro al margine di una foresta nei pressi di Memel.
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    L'attacco alla linea Stalin

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    29 giugno 1940. Il primo comunicato straordinario del Quartier Generale di Hitler annuncia la grande vittoria ottenuta sulle truppe del generale Timoscencko intrappolate nella gigantesca sacca di Bialystock. Due armate sovietiche sono accerchiate: mezzo milione di uomini disperati combattono inutilmente per aprirsi un varco. E intanto la macchina militare germanica continua inesorabilmente, freddamente, la sua azione di annientamento. La sacca originaria viene divisa in tante sacche minori, queste, a loro volta, vengono ulteriormente sezionate. Alla fine non sono più due armate a combattere, con comando unico, ma combattono i reggimenti, i battaglioni, le compagnie. Ognuna per suo conto, senza sapere quello che accade oltre il breve spazio di terreno che difende coi denti e con le unghie. Poi, invariabilmnte, la scena finale della resa: i combattenti, gettate le armi, alzate le mani, diventano gregge. Nella foto la resa di una compagnia sovietica, decimata nell'aspro combattimento, ad un reparto corazzato tedesco.

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    La propaganda tedesca di guerra diffuse, nel '41, informazioni senza dubbio esagerate sul disfattismo dei soldati sovietici nella prima frase della operazioni. Infatti se si ebbero rese in massa e numerose defezioni di elementi anticomunisti (i quali poi passarono alle dipendenze del generale Vlassov e combatterono con la Wernilcht), in genere il soldato russo dimostrò notevoli qualità di combattente. Furono invece i comandi sovietici a non essere all'altezza della situazione, sia per la loro inesperienza, sia per le sovrastrutture politiche che spesso ne incepparono le capacità di ripresa. Anche i tedeschi, del resto, dovettero riconoscere che i russi avevano combattuto bene. L'altissimo numero di prigionieri catturati nei primi giorni dell'offensiva tedesca (quarantamila in otto giorni) va quindi attribuito alla guerra motorizzata che rendeva inutile la resistenza delle fanterie accerchiate da mezzi corazzati. Nella foto un carro armato sovietico distrutto.

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    3 luglio 1941. A dieci giorni dall'inizio delle operazioni, la situazione poteva essere così sintetizzata: nel settore centrale i tedeschi, completato il rastrellamento della sacca di Bialystock, ove avevano catturato oltre 300 mila prigionieri, avevano lanciato un nuovo poderoso attacco e, superata la Beresina, avevano creato una nuova sacca di fronte a Smolensk, sulla via di Mosca. Nel settore baltico erano state occupate per intero la Lituania e la Lettonia, mentre in Estonia le punte avanzate erano segnalate nei pressi di Narva, cioè ormai a pochi chilometri da Leningrado, investita anche da nord dalle truppe finniche. All'estremo nord gli alpenjager del gen. Dieti, l'eroe di Narvick, operavano in direzione di Murmansk. A sud, mentre nella Russia Bianca le armate sovietiche erano in crisi, le avanguardie tedesche puntavano rapidamente su Kiev, dopo la vittoria di Dubno. Per parte loro gli alleati ungheresi avanzavano nella Galizia meridionale, fino al Dniester, mentre i romeni rioccupavano la Bucovina e la Bessarabia, vincendo forti resistenze avversarie. I sovietici, insomma, erano ormai a ridosso della linea Stalin, che per 2500 chilometri sbarrava il passo all'invasore con i suoi forti e i suoi capisaldi. Nella foto a sinistra un bunker della linea Stalin, investito dai lanciafiamme, brucia, Nella foto a destra i tedeschi entrano in un caposaldo sovietico distrutto dal bombardamento degli stukas e dalle artiglierie.

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    L'investimento della Linea Stalin da parte dei tedeschi ebbe inizio quando ancora in, molti punti le truppe non si erano schierate a ridosso delle fortificazioni sovietiche. E così, già la notte fra il 4 e il 5 luglio, la grande battaglia aveva inizio. Quando si parla di Linea Stalin non bisogna pensare ad una sorta di Maginot orientale. Infatti il criterio adottato dai sovietici era ben diverso da quello, rigidissimo dei francesi. Non grosse fortificazioni in cemento armato dalla pretesa inspugnabilità, ma bunker in serie, adatti come capisaldi per truppe mobili, corazzate e di fanteria. Non una linea continua, ma fortificazioni campali dislocate in profondità. Ma la maggiore caratteristica della Linea Stalin era lo sfruttamento, agli effetti della difesa, dei corsi d'acqua e zone paludose, specialmente nel settore settentrionale. « Grosso modo » la Linea Stalin andava da Narva (nei pressi del lago Peipus) a Vitebsk, per poi scendere verso sud lungo il Dnieper, la Beresina e il Dniester fino al Mar Nero. E fu su questo fronte che si sviluppò la battaglia di rottura che finalmente il 12 luglio portava ad un primo risultato: lo sfondamento nel tratto Pskov-Ostrov, l'apertura di una breccia sul medio Dnieper e a sud del Pripet. Ancora una volta le fortificazioni non avevano retto all'urto dei nuovi mezzi di guerra. Nella foto guastatori tedeschi all'opera per distruggere una cupola blindata della Linea Stalin.

    L'offensiva aerea

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    La rapida corsa delle truppe corazzate del maresciallo von Leeb lungo la costa del Baltico verso Leningrado tendeva ad eliminare in quel mare la grave minaccia rappresentata dalla flotta sovietica. Si voleva cioè annientare la squadra russa del Baltico senza ricorrere ad una battaglia navale, togliendo ad essa, una ad una, tutte le basi. Il colpo, nell'agosto-settembre del 1941 (e poi più tardi, nel dicembre) fu quasi sul punto di riuscire. Ma la tenace resistenza delle truppe della vecchia capitale zarista riuscì ad evitare alla flotta rossa (sulle cui navi s'erano sviluppati nel '17 i primi moti rivoluzionari), la fine ingloriosa del topo preso in trappola. Tuttavia, a causa della fulminea conquista delle basi lituane, lettoni ed estoni (nonché della caduta di Hanko, gia occupata dai sovietici in Finlandia), le navi sovietiche furono ridotte all'inattività nella baia di Kronstadt, ove furono martellate dall'aviazione tedesca. Nella foto in alto a sin. un'azione di bombardamento sulla flotta sovietica. Un incrociatore tipo « Kirov » danneggiato dalle bombe perde nafta a poppa. In basso a sin. un sommergibile russo affondato a Libau e successivamente catturato dai tedeschi. A destra una corazzata tipo « Marat » all'ancora nel porto di Kronstadt, colpita dagli aerei tedeschi.
    La freccia indica il punto danneggiato dalle bombe.

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    Come già nelle precedenti campagne di Francia e di Polonia, all'attacco delle panzer divisionen si aggiunse, dall'aria, quello della Luftwaffe. I tedeschi, forti della loro preponderanza aerea, cercavano cioè di colpire in profondità il dispositivo di difesa avversario per scompaginarlo, creando il caos nelle retrovie, nei trasporti e nella produzione industriale di guerra. Lo scopo, nei primi giorni di guerra sul fronte orientale, fu pienamente raggiunto: l'aviazione sovietica, colpita nelle sue basi di prima linea, abbandonò ben presto il teatro della lotta, limitandosi a missioni puramente difensive e disertando anzi, assai spesso, il campo. Il predominio dell'aria, rapidamente conquistato permise allora ai tedeschi di intensificare le azioni di bombardamento e di spezzonamento nell'interno del territorio nemico. Vi fu anzi un momento, nell'agosto, che i sovietici — sotto una continua pioggia di ferro e fuoco — furono sull'orlo del collasso per l'estrema confusione che rendeva pressochè impossibili i trasporti, su strade impraticabili e attraverso ponti che venivano distrutti e ricostruiti senza soluzione di continuità. Nella foto in alto Mosca sotto il bombardamento tedesco. In basso gli effetti di un'incursione della Luftwaffe su un nodo ferroviario in Ucraina.

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    Superata la Linea Stalin le vittorie tedesche si susseguono senza posa. Tutto il fronte è nuovamente in movimento e la spinta offensiva dei germanici sembra assai lontana dell'esaurirsi. Al nord come al centro, in Estonia come in Ucraina, nella Russia Bianca come in Bessarabia nulla può fermare le armate di Hitler. Sui giornali tedeschi appaiono fotografie come queste: statue del dittatore comunista abbattute, bandiere prese al nemico e sciorinate al sole della vittoria.

    Rovine e disperazione

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    Le grandi battaglie dell'Ovest non risparmiarono i centri abitati, saldamente tenuti e difesi fino all'ultimo dalle truppe sovietiche in ritirata. Le squadriglie della Luftwaffe prima ed il fuoco di artiglieria poi ridussero a cumuli di macerie numerosi centri. L'accanimento nella difesa delle città, particolarmente di quelle industriali fu uno degli aspetti caratteristici della campagna sul fronte Orientale. Infatti, come vedremo in seguito, fu proprio davanti a Mosca, Stalingrado e Leningrado, città importantissime politicamente per l'URSS, che le Armate germaniche segnarono il passo. Queste foto testimoniano dell'importanza e dell'asprezza dei combattimenti. In alto a sinistra ciò che rimase della città di Minsk, copoluogo della Russia Bianca. Importantissimo nodo stradale e ferroviario, Minsk fu il punto di riunione delle branche della tenaglia tedesca che aveva isolato centinaia di migliaia di soldati russi. A destra il simbolo della tragedia della popolazione inerme coinvolta nell'immane catastrofe. Al centro la città di Dunaburg, nella zona settentrionale del fronte, brucia dopo l'attacco in massa degli Stukas.
    Le 2 foto in basso le macerie della città di Vitebsk, teatro della prima controffensiva russa dell'11 luglio stroncata dalla massa di fuoco dei panzer.

    Democrazia e comunismo

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    Con l'attacco tedesco all'URSS in Inghilterra si comprese che l'andamento della guerra avrebbe avuto un radicale mutamento. La prima conseguenza dell'apertura del nuovo fronte era senz'altro positiva: non ci si doveva più attendere un'invasione nazista dell'isola per molto tempo e anche se i piani di Hitler (che contava di distruggere l'URSS prima dell'inverno) fossero stati attuati, la Gran Bretagna avrebbe avuto dinnanzi a se un lungo periodo per prepararsi e per ristabilirsi dalle ferite ancora sanguinanti di Dunkerque. Il primo atto diplomatico dei due governi che, dopo un periodo di tensione succeduto al patto tedesco sovietico dell'agosto '39 si erano ritrovati a combattere contro lo stesso nemico, fu la stipulazione di un patto di mutua assistenza. Ecco Molotov, Stalin e Stafford Cripps a Mosca, alla cerimonia della firma.

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    Hopkins e Stalin a Mosca il 31 Luglio 1941.

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    Un appunto autografo di Stalin consegnato a Hopkins durante la missione a Mosca, con le indicazioni dei rifornimenti richiesti all'America.
    1) mitragliere antiaree. 2) alluminio. 3) mitragliatrici calibro 12,7. 4) fucili calibro 7,82.

    Quasi contemporaneamente agli accordi londinesi, l'inviato speciale statunitense Hopkins si incontrava con Stalin a Mosca per decidere sulla estensione della legge affitti e prestiti all'URSS. Iniziava con questi accordi il flusso dei convogli Anglo-Americani sulle rotte del Mar Glaciale, sulle quali asprissime battaglie saranno combattute con le forze aero-navali germaniche di stanza nei fiordi norvegesi. Nella foto Hopkins e Stalin a Mosca. Sotto un autografo del Comandante Supremo delle Armate Sovietiche: si tratta di una richiesta circostanziata di armi e munizioni.

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    La popolarità dei sovietici in Inghilterra non era molto alta. Pesava infatti sull'esercito rosso l'aggressione contro la Finlandia che aveva suscitato nell'Isola grande indignazione. Ma la nuova situazione che si era venuta a creare provocò ugualmente, sopratutto ad opera del partito laburista, manifestazioni filo sovietiche. Tra le più significative vanno annoverate le sottoscrizioni popolari per l'acquisto di carri armati da donare alla nuova alleata. Le due foto illustrano la cerimonia della consegna di un tanks all'ambasciatore sovietico a Londra, Maisky. Nella foto in alto l'ambasciatore parla al popolo inglese. In basso carri armati inglesi, destinati all'URSS, sfilano in parata.

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    In relazione al patto di mutua assistenza Anglo-Sovietico, una commissione militare russa fu inviata a Londra, subito dopo lo scoppio del conflitto, per organizzare il flusso dei rifornimenti inglesi alla Russia. Nella foto Maisky, ambasciatore sovietico a Londra, il gen. Golikov e l'amm. Kharlamov,
    membri della commissione.
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    Il potenziale sovietico

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    A pochi giorni di distanza dall'attacco tedesco contro la Linea Stalin la situazione per le armate sovietiche si era andata tacendo drammatica. Tre minacciose puntate offensive si sviluppavano infatti in direzione dei centri vitali della URSS: Leningrado a Nord, Mosca al Centro e Kiev a Sud. Ma se le difese della Maginot orientale s'erano dimostrate impotenti a resistere, se i sovietici avevano perduto in meno di un mese centinaia di migliaia di uomini, non meno di diecimila carri armati e oltre settemila apparecchi, se ormai i tedeschi combattevano in pieno territorio russo, non per questo si era esaurita la capacità di ripresa dell'esercito sovietico. Anzi il continuo afflusso di truppe fresche stava a dimostrare che la lenta mobilitazione sovietica appena ora consentiva al comando di Mosca di sviluppare tutta la potenza dei mezzi di cui disponeva. E difatti in quei giorni terribili, quando tutto sembrava crollare sotto i colpi di maglio dei generali hitleriani, la Russia diede la prova di poter ancora sostenere la lotta con buone probabilità di successo. Fu anzi l'undici luglio, in pieno attacco tedesco, che nel settore di Vitebsk i sovietici accennavano alla loro prima controffensiva subito respinta, peraltro, dall'avversario che anzi il giorno dopo conquistava la città contesa. Nella foto carri armati sovietici in marcia verso il fronte.

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    L'aviazione sovietica, sopratutto per quanto riguardava la caccia, s'era presentata nel conflitto con un materiale di volo ormai superato tecnicamente. Mancava poi ai piloti russi quell'esperienza del combattimento che tedeschi e britannici s'erano fatta nelle furibonde battaglie del 1940. Non c'è quindi da stupirsi se nei primi mesi di guerra i sovietici pagarono duramente la loro inferiorità tecnica, pur potendo schierare un numero di apparecchi quasi pari a quello del tedeschi. Nella foto a sinistra una squadriglia dei famosi « Rata » in volo. A destra il Gen. Rychagov, comandante dell'aviazione sovietica.

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    Sotto la spinta delle armate germaniche i grandi complessi industriali sovietici furono ritirati verso gli Urali e riorganizzati nelle più remote zone russe. In queste nuove sedi le industrie sovietiche contribuirono potentemente allo sforzo bellico, grazie alle enormi quantità di materie prime ed agli sforzi di provetti tecnici. Nelle foto alcuni dei maggiori esponenti della tecnica sovietica. Da sinistra Peter Kapitza, celebre fisico, studioso di problemi atomici. Josef Kotin, progettista dei famosi carri armati « Stalin ». Isac Zaltzmann, direttore del complesso industriale di Kirov, per la produzione dei carri armati. A. N. Tupolev, famoso progettista di aerei e organizzatore dell'Armata aerea sovietica. Vassili Grabin, specialista delle artigliere dell'Armata Rossa.

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    Mentre le truppe del fronte s'impegnavano duramente per contrastare il passo ai tedeschi, s'andavano affannosamente preparando, nell'interno dell'immenso territorio dell'URSS, le nuove unità di combattimento. Queste unità fresche, che in primo tempo furono gettate nella fornace a tappare le falle del sistema difensivo sovietico, avrebbero fatto sentire in seguito, con l'inizio dell'inverno, il loro peso. Nella foto in alto a sinistra mitraglieri sovietici in postazione di fronte a Leningrado. In alto a destra fanteria sovietica in addestramento mentre sfila in parata. Al centro a sinistra soldati sovietici controllano il bottino di bandiere e di armi catturato al nemico nella sfortunata controffensiva di Vitebsk. Al centro a destra l'amm. Kuznetsov, comandante delle quattro flotte sovietiche. In basso a sin. la distribuzione delle pagnotte in un campo di prigionieri tedeschi presso Mosca. In basso a destra cavalleria russa in azione.

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    Questo è il famoso coctail di Molotov, cioè la classica bottiglia di benzina unita ad una piccola carica esplosiva con la quale prima della introduzione delle armi anticarro individuali le fanterie tentarono di reagire agli attacchi dei carri armati. Il coctail di Molotov, che oggi sembra anacronistico, fu l'ultima arma romantica della guerra che già in Spagna aveva fatto le sue esperienze contro i potenti carri armati sovietici, un segno della ribellione dell'uomo all'onnipotenza della macchina invulnerabile.

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    Stalin e Voroscilov, comandante del fronte di Leningrado in una fotografia propagandistica.il compito del maresciallo Voroscilov, nella estate e nell'autunno del '41 fu difficilissimo: la grande città nordica era infatti pressochè accerchiata e malgrado le sue forti difese sembrava sull'orlo della catastrofe.

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    Un sommergibile della flotta del Baltico. I sottomarini sovietici non riuscirono, a causa della particolare conformazione del bacino operativo, a minacciare seriamente il traffico tedesco, prevalentemente costiero.

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    Questa drammatica fotografia può essere assunta a simbolo della resistenza sovietica all'attacco tedesco, Il terreno sconvolto indica l'asprezza dell'attacco; i bossoli sparsi sul terreno la tenacia della difesa e i corpi dei difensori il sacrificio supremo al posto di combattimento.

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    Questi soldati non partono per la guerra. Sono soldati portoghesi che il governo di Lisbona invia nelle Azzorre per tutelare quelle Isole da ogni minaccia esterna dopo l'occupazione americana dell'Islanda (9 luglio 1941) e gli accenni di Roosevelt ad un'eventuale occupazione precauzionale di altre basi aero-navali atlantiche. In un suo discorso infatti, il presidente degli Stati Uniti aveva definito i vari gruppi di isole atlantiche come un «ponte verso l'Europa». Da queste circostanze si può desumere l'intenzione di entrare in guerra da parte degli USA ben prima dell'attacco Giapponese a Pearl Harbour.

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    Estate del 1941: disordini anti britannici provocano alle frontiere dell'India una piccola spedizione punitiva oltre il Passo Kyber, famoso per il film omonimo e per le innumerevoli azioni di guerriglia di cui fu protagonista in oltre due secoli di occupazione britannica dell'Impero indiano. Nella foto carristi britannici e montanari afgani a Passo Kyber, dopo la fine dei combattimenti.

    La carta atlantica

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    10 agosto 1941. Churchill e Roosevelt, accompagnati dai loro consiglieri politici e militari si incontrano nelle acque americane a bordo del panfilo presidenziale a Potomac per discutere dell'atteggiamento comune nei confronti del conflitto in atto. Al termine dei colloqui viene emessa una dichiarazione nota come la « Carta Atlantica » in cui l'America e Gran Bretagna affermano di non avere mire di ingrandimenti territoriali, di non desiderare mutamenti politici che non si accordino col desiderio dei popoli, di concordare sulla ripartizione, su basi di eguaglianza, delle risorse del mondo, di volere la collaborazione fra le nazioni, la pace perpetua, la libertà dei mari, l'abbandono dell'uso della forza ecc., previa la distruzione della « tirannia nazista ». L'incontro e la dichiarazione comune, che era da parte americana un vero e proprio atto di provocazione, lasciavano intendere che gli Stati Uniti non sarebbero rimasti ancora per molto tempo fuori del conflitto. Del resto già qualche giorno prima Roosevelt aveva diramato a tutte le navi americane l'ordine di attaccare le navi dell'Asse sorprese in acque considerate necessarie alla difesa degli Stati Uniti, mentre da tempo, prima con l'affitto dei cacciatorpediniere poi con la legge affitti e prestiti, infine con l'occupazione dell'Islanda (senza contare la legge per la coscrizione militare obbligatoria e i programmi di rafforzamento dell'aviazione e della marina) la posizione americana non poteva più essere considerata di autentica neutralità. Il 15 settembre al Congresso Rooselvelt avrebbe detto: L'America deve fornire ai popoli che versano il loro sangue sui fronti ove infuria la guerra non solo lo scudo per difendersi ma anche la spada che dovrà loro dare vittoria finale. Il popolo americano deve sapere che non potrebbe vivere in un mondo dominato dall'hitlerismo ». In alto a sin. Chirchill ed i suoi consiglieri militari alla conferenza del Potomac. A destra sul ponte dello yacht presidenziale è cessato il famoso servizio religioso durante il quale i due statisti avevano cantato in coro un inno sacro. In basso la conferenza interalleata del settembre 1941 a Saint James Palace a Londra.

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    Estate 1941. fronte finnico. Mentre nella penisola dei Pescatori il gen. Dietl continua i suoi attacchi contro la guarnigione di Murmansk, a Salla nel settore centrale, il gen. Falkenhorst avanza profondamente in territorio sovietico. Ma le operazioni principali si svolgono a sud, sia sull'istmo careliano che i finnici cercano di riconquistare ai russi, sia sulla sponda orientale del Lago Ladoga. E' qui infatti che si gioca la grossa carta del destino di Leningrado, investita a occidente dalle truppe di von Leeb e minacciata di accerchiamento da quelle di Mannerheim. Nella foto un lanciafiamme tedesco in azione di fronte a Salla.

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    Riconquistate dopo durissimi combattimenti Repola, Kostamus e attaccata la ferrovia Vijpuri-Sortavala, i finnici avanzano sino al fiume Vuoksi e si attestano sull'importante canale Stalin. Leningrado è ormai a cento chilometri soltanto, mentre da Narva attaccano i tedeschi. Nella foto soldati finlandesi all'offensiva, in una zona boschiva della Carelia, hanno distrutto un carro armato sovietico ed avanzano cautamente sul difficile terreno cosparso di insidie.

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    Anche nell'altro saliente del fronte, quello di Leopoli, i tedeschi ottennero un grande successo: sfondate le linee nemiche, a sud del Pripet, avanzarono decisamente sul Leopoli (occupata il 30 giugno), mettendo in crisi l'intero schieramento sovietico che si appoggiava ai Carpazi. Nella foto i panzer, oltrepassano mezzi corazzati russi colpiti ed in fiamme. Nonostante le cospicue riserve, le immense perdite misero in crisi le forze corazzate sovietiche.

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    Sul fronte centro-meridionale, nelle operazioni intorno alla capitale Galiziana tedeschi dovettero vincere la tenace resistenza di importanti contingenti sovietici. Nella zona di Dubno, anzi, si accesero prolungati, durissimi scontri di formazioni motorizzate. La battaglia si concluse però con fortissime perdite da parte sovietica verso la cosidetta Linea Stalin. Nelle foto battaglie di carri armati intorno a Leopoli.

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    17 luglio 1941. Il comando tedesco annuncia la presa di Smolensk, sulla via di Mosca. La capitale sovietica è in pericolo mortale e la minaccia si aggrava, nei giorni successivi, con l'accerchiamento da parte di von Bock, di un'intera armata avversaria nella zona di Nevel, Un'altra sacca, nella fulminea sventagliata delle panzer divisionen tedesche, si chiude a Moghilev. Un'altra ancora a Rostov. E poi, ancora un accerchiamento a Gomel, dove Timoscenko perde ben diciassette divisioni. Il bilancio per i russi, è disastroso: quasi mezzo milione di morti e di prigionieri, intere armate annientate, migliaia di carri armati distrutti, ingentissimi depositi catturati dal nemico. E i tedeschi avanzano quasi dovunque, inarrestabili, mentre le riserve immense nella lotta si liquefanno come neve al sole. Nella foto in alto torme di prigionieri sovietici avviate ai campi di concentramento dopo la battaglia di Gomel, In basso a sin. due generali sovietici catturati dai tedeschi. Fu catturato anche il gen. Makarov, comandante di un corpo di armata corazzato. In basso a destra un tipo di prigioniero.

    Sulla via di Mosca

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    Siamo alla fine di agosto: i tedeschi sono a Smolensk, a Gomel, a Tallin, sul Dnieper. Da Narva e da Vijpuri minacciano Leningrado. Da Veliki Luki e da Smolensk minacciano Mosca. Hanno quasi circondato Kiev oltrepassando il fiume Dnieper alla sua destra e alla sua sinistra. Odessa è circondata. La Crimea è ormai in vista. Chi potrà mai fermarli? eppure l'incredibile avverrà. E Smole nsk segnerà la massima penetrazione germanica sulla via di Mosca.

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    Il C.S.I.R., destinato ad operare nello scacchiere Sud del fronte russo alle dipendenze dell'XI Armata Interalleata, compì il percorso fino a Borsa in
    Ungheria con 225 treni. Dal territorio magiaro, attraverso il passo di Prilop nei Carpazi, le truppe raggiunsero la zona di operazioni con una marcia
    di oltre 1000 Km. che causò una relativa dispersione delle forze italiane. Infatti mentre la Pasubio entrava in contatto col nemico, la « Torino » e
    la « Celere » proseguivano la marcia raggiungendo le truppe impegnate sul Dnieper, nella cartina sono tracciati i percorsi e le tappe delle divisioni
    italiane in marcia oltre alle zone dei combattimenti fino alla conquista di Stalino.

    SOLDATI ITALIANI AL FRONTE RUSSO

    Alle 4,25 del 22 giugno 1941 il ministro germanico von Ribbentrop disse all'ambasciatore d'Italia a Berlino, Dino Alfieri: «Ho l'onore di comunicarvi che da stamani alle ore 3 le truppe tedesche hanno varcato la frontiera russa. Vi prego di trasmettere questa comunicazione al ministro Ciano affinchè ne sia data subito notizia al Duce, a nome del Fuhrer ». Con queste laconiche parole, il nostro paese venne coinvolto in una delle più disastrose spedizioni militari che la storia ricordi. In base ai patti di alleanza ed agli accordi presi con il governo tedesco, il 10 luglio venivano prescelte le unità destinate a rappresentare il contributo dell'Italia nella guerra contro l'Unione delle Repubbliche Sovietiche. Il Corpo Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) venne formato, oltre che dai Comandi e dai servizi, dalle divisioni « Pasubio » e « Torino », dalla III Divisione « Celere » Duca d'Aosta e da due gruppi di aviazione di cui uno da caccia. Il volontarismo era particolarmente rappresentato dalla Divisione di Camicie Nere « Tagliamento » che si copri di gloria per tutta la campagna meritando la Medaglia d'Oro al V. M. Il complesso del C.S.I.R. comprendente circa 62.000 uomini bene equipaggiati e dotati di alto spirito combattivo, venne posto al comando del generale Giovanni Messe. Ai primi di agosto il C.S.I.R. lasciò l'Italia percorrendo con convogli ferroviari il lungo tragitto fino al territorio ungherese, e di là per mille chilometri attraverso le impervie strade della 'Romania, Bessarabia e Moldavia, raggiunse il teatro delle operazioni. La prima unità italiana entrata in combattimento — esattamente il 12 agosto — fu la divisione « Pasubio » che, combattendo insieme a truppe tedesche, ungheresi e romene, risolse il fatto d'armi che va sotto il nome di « Battaglia dei due Fiumi ». Agendo infatti Sul fianco destro delle truppe sovietiche, schierate nell'ansa tra il Dniester ed il Bug, ne provocò l'annientamento avendo aggirato con marcia fulminea le posizioni sovietiche e causato l'abbandono della testa di ponte di Nikolajew, unico punto di facile transito per le truppe impegnate tra i due fiumi. Ma una ben più brillante azione ebbe a protagonista le truppe del C.S.I.R. Dopo la lunga marcia di avvicinamento delle divisioni « Pasubio », « Torino » e III Celere » chiaramente ricostruita nella soprastante cartina, il Corpo di Spedizione Italiano si riunì attestandosi sul Dnieper, fino alla testa di ponte russa di Diepropetrowsk; "un fronte di 150 km. sul quale le truppe tedesche avevano avuto una inesorabile battuta di arresto. La R Pasubio », attestata luhgo l'Orel alla sinistra del nostro schieramento, iniziò il 22 settembre un movimento aggirante, sostenendo per tre giorni un pesante contrattacco russo, durante il quale furono contenute ed infine respinte le truppe attaccanti. Il giorno 26 la « Torino », la « Celere » e le Camicie Nere della « Taglamento », iniziavano l'avanzata dalla testa di ponte di Dnipropetrowak formando, con le posizioni tenute dalla « Pasubio » un angolo retto, al centro del quale si trovavano la cittadina di Petrikowka ed i resti di cinque divisioni sovietiche battute. Il 28 iniziò il movimento accerchiante delle due ali italiane che condusse il 30 settembre alla conclusione dei combattimenti. In questa azione il C. S. I. R. fu contrastato per la prima volta dalla caccia sovietica, che mitragliò e spezzò più volte le nostre truppe. Nella battaglia rimasero in mano italiana 10.000 prigionieri e furono distrutti circa 450 carri armati russi. Non possiamo chiudere questa breve rievocazione della prima battaglia del nostro Corpo di Spedizione in Russia, senza ricordare l'opera umile ed eroica dei pontieri italiani. Mirabilmente addestrati dal generale Paladino, i genieri costruirono i ponti di fortuna sul Dniester, Bug e Dnieper sotto il fuoco intensissimo delle teste di ponte russe che avevano bloccato l'avanzata germanica. Infatti, nonostante il materiale in dotazione non fosse stato progettato per il varco di fiumi della larghezza e della portata di quelli russi, il IX battaglione del Genio si comportò tanto abilmente da costruire i ponti sul Dnieper con un notevole anticipo sul tempo previsto dai generali tedeschi, ciò che gli valse un particolare elogio da parte del generale von Mackensen. La brillante manovra delle divisioni italiane nella battaglia di Petrikowka, benché limitata ad un piccolo settore del fronte, fece fallire il tentativo sovietico di arrestare l'avanzata tedesca sul Dnieper, rendendo possibile l'occupazione di Poltava e di Kiev, ove i tedeschi catturarono 600.000 prigionieri. Inoltre i soldati del CSIR oltre a dover lottare col nemico si trovarono di fronte a spiacevoli difficoltà logistiche aggravate dalle inadempienze dell'alleato germanico che, trascurando gli impegni presi tra i due comandi, non inviò alle truppe italiane le munizioni, le derrate ed i materiali indispensabili. A queste manchevolezze sopperì l'alta capacità organizzativa dei dirigenti dell'Intendenza Speciale Est e specialmente del generale Intendente Biglino. Nel frattempo, mentre il secondo conflitto mondiale si espandeva, alcuni avvenimenti navali, apparentemente di poca importanza nella gigantesca economia della guerra, si svolsero nel Mediterraneo. In Italia infatti era stata organizzata una unità che sotto il nome fittizio di « X flottiglia MAS » si proponeva di portare — memore dei successi colti in Adriatico nel conflitto italo-austriaco — la guerra con mezzi insidi si nell'interno delle più munite basi avversarie. Erano stati approntati vari congegni come i « maiali», specie di mezzi subacquei avvicinati alle basi avversarie da sommergibili, i barchini esplosivi, motoscafi velocissimi che recavano a bordo forti cariche di esplosivo, ed erano stati selezionati accuratissimamente gli assaltatori. Dopo successo di Creta e l'affondamento di due sommergibili avvicinatori, la « X MAS » fu la protagonista di due importanti operazioni. La prima fu il tentativo di violare la base inglese di Malta, conclusosi col glorioso sacrificio degli uomni impegnati, la seconda il vittorioso attacco al porto britannico di Alessandria. Sei uomini e tre mezzi insidiosi diedero alla marina inglese un colpo durissimo, affondando le corazzate « Valiant » e « Queen Elízabeth » e danneggiando una altra unità. Quasi contemporaneamente due UBootes tedeschi della flottiglia del Mediterraneo affondavano la corazzata « Barham » e la portaaerei « Ark Royal » mentre nell'Oceano Indiano aerei nipponici colavano a picco le corazzate inglesi « Repulse » e « Prince of Wales ». La marina britannica dunque, che aveva avuto anche la corazzata « Nelson » gravemente danneggiata dagli a erosiluranti italiani del 36° stormo, attraversò un periodo di gravissima crisi, nel quale per la prima ed ultima volta nella guerra, poterono sbarcare in Africa Settentrionale in quantità sufficienite quei rifornimenti che permisero all'armata italo-tedesca di giungere, come vedremo, ad El Alamein.

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    10 luglio 1941. Per la seconda volta nella storia un corpo di spedizione italiano parte per operazioni di guerra in Russia. Partivano infatti dalla
    Italia per il fronte circa 62.000 uomini che, riuniti nel C. S. I. R. tennero sempre alto il nome della Patria, combattendo non per odio ma per puro
    spirito di sacrificio e di dovere, cosa che accresce i loro meriti, volutamente denigrati dopo l'infausta conclusione dell'immane battaglia. Componevano il C. S. I. R. le divisioni « Pasubio », « Torino », « III Celere », la legione di CCNN «Tagliamento», gruppi di artiglieria, forze corazzate, i reggimenti di cavalleria « Novara » e « Savoia », raggruppamenti del Genio e di aviazione. L'armamento, che era quanto di meglio vi fosse allora in Italia, lasciava purtroppo a desiderare vista la potenza ed il numero dei mezzi contrapposti, cosa che non impedì ai nostri soldati di farsi onore. Nelle foto la divisione Pasubio », in partenza per il fronte, sfila in parata davanti a Mussolini.

    Mamma non piangere

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    Unità del C.S.I.R. in partenza per il lontano fronte russo. E' visibile nelle foto il commosso orgoglio delle Madri e la baldanzosa prestanza dei soldati, che si avviano a combattere sulle orme della Grande Armata di Napoleone. Si abbraccia un'ultima volta il figlio diletto e si canta un'allegra canzone. Purtroppo i rigidissimi inverni russi e le apocalittiche battaglie avranno ragione dello spirito di abnegazione e di sacrificio del nostro soldato.

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    Durante il lungo viaggio di avvicinamento verso il fronte attraverso l'Austria e l'Ungheria i soldati italiani ricevettero commoventi accoglienze da
    parte delle popolazioni civili i cui uomini, fin dal lontano 1915, avevano sperimentato le altissime qualità degli avversari di allora. L'inizio della grande
    impresa lasciava adito a bellissime speranze. Infatti la buona organizzazione dei nostri convogli, l'ambiente favorevole e le notizie di sempre nuove
    vittorie delle truppe germaniche aumentavano l'entusiasmo dei nostri giovani, certi di dirigere verso gloriosi combattimenti ed una rapida vittoria.
    Nella foto in alto un reparto di CCNN attraversa un fiume ungherese su un ponte di fortuna. Le difficoltà nelle comunicazioni ostacolarono potentemente il nostro corpo di spedizione, la cui avanzata fu resa possibile grazie all'abnegazione delle truppe del Genio. In basso a sinistra lo stendardo del glorioso « Savoia Cavalleria ». A destra il labaro della legione « Tagliamento ».
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    L'attacco alla steppa

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    Condotte in convogli ferroviari in territorio ungherese le nostre truppe, visto lo stato delle poche strade esistenti dovettero raggiungere la zona di
    radunata in Romania, attraversando a piedi i Carpazi al passo Prilop, mentre gli autocarri disponibili trasportavano materiali e rifornimenti. Fortunatamente durante queste marce l'aviazione nemica, duramente provata dalla Luftwaffe, fu del tutto assente: in caso diverso infatti i forti ammassamenti di uomini e di mezzi sarebbero stati causa di gravi rovesci. Nella foto in alto una colonna di rifornimenti italiana nella pianura ungherese. Al centro un reparto di cavalleria in ricognizione sul confine romeno. In basso il generale Messe, assiste al passaggio delle truppe.

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    Durante il periodo di permanenza in Ucraina i soldati del C. S. I. R. diedero magnifiche prove di alto senso di civiltà. fraternizzando con buona parte
    della popolazione, non certo disposta all'odio nei nostri confronti. Come avveniva contemporaneamente in Grecia, i soldati d'Italia dissodarono la terra, soccorrendo in ogni modo le popolazioni, prive degli uomini in armi. Nelle foto a sinistra dall'alto un tipo di giovane Ucraina nel caratteristico costume. In basso il giornale del C.S.I.R. un miracolo di pazienza e di abilità realizzato con i caratteri cirillici delle tipografie russe. A destra in alto il battesimo di un bimbo. Due avieri italiani fungono da padrini. Al centro in un posto di medicazione una contadina ucraina riceve fraterne cure. In basso secondo la tradizione delle antiche legioni di Roma un soldato italiano ara la terra nei territori occupati.

    L'opera dell'aviazione

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    Mentre si attestavano le truppe l'aviazione iniziò le azioni in territorio sovietico, martellando essenzialmente le linee di comunicazione avversarie.
    Durante il primo periodo di guerra il contrasto dell'aviazione nemica, che abbiamo visto duramente provata nello scontro con gli aerei germanici, non
    fu quasi avvertito. Solo in seguito si sarebbero accesi i furibondi combattimenti tra l'Armata Aerea Rossa e le esigue forze del C.S.I.R. Nella foto
    in alto un ponte sul Don inquadrato e colpito da bombe aeree. In basso un treno sovietico distrutto dal nostro bombardamento.

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    12 agosto 1941, La prima unità del CSIR entrata in combattimento a fianco degli alleati fu la divisione « Pasubio » che prese contatto col nemico
    il 12 agosto mentre le altre divisioni proseguivano la marcia di avvicinamento verso il fronte. Alle dipendenze dell'XI Armata interalleata, la « Pasubio » piombò sul fianco destro dello schieramento sovietico, nel tentativo di aggirare le posizioni delle forze russe che, nell'ansa tra il Dniester ed il Bug, avevano tenuto in rispetto truppe scelte germaniche. Con una rapidissima marcia la divisione italiana, portatasi sul fianco dello schieramento avversario, impegnò forze russe molto ben armate e decise alla resistenza, respingendole dopo aspro combattimento. Il giorno seguente le truppe sovietiche furono ancora incalzate dai nostri contingenti, senza poterne impedire l'avanzata. Nella foto in alto un carro sovietico, raggiunto dal fuoco degli anticarro. Al centro pattuglie di fanteria avanzano di corsa sotto il fuoco avversario. In basso elementi della « Pasubio » in combattimento per le vie di Pokrowskoje. La cittadina fu occupata durante la fase iniziale dei combattimenti.

    La Russia in armi

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    L'Armata Rossa fu notevolmente potenziata dopo le grandi epurazioni del 1937, che avevano disorganizzato i suoi ranghi. Stalin ricostruì con grande
    energia ed ottimi risultati i quadri di comando, elevando contemporaneamente la preparazione tecnica delle truppe, mentre nello stesso periodo, ma
    soprattutto durante il conflitto, l'Armata Russa riceveva armi moderne di produzione straniera, molte delle quali non furono altro che prototipi per
    la realizzazione di tipi perfezionatissimi di produzione russa. Nella foto una formazione di « Katiusce », i terribili lanciarazzi sovietici, sfila in parata.

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    Le truppe sovietiche operanti contro il C.S.I.R. si rivelarono abilissime
    nell'uso delle armi di cui erano dotate e, benchè messe in crisi dall'avanzata della « Pasubio », resistettero accanitamente, allo scopo di difendere il bacino industriale del Dnieper, importantissimo per l'economia sovietica (si pensi che fornisce alla Russia il 60% dei minerali ferrosi di cui dispone) Nella foto a sinistra mitraglieri russi in postazione sul Bug. A destra un idrovolante dell'aviazione navale russa. L'aviazione sovietica fu ricostruita, dopo le prime gravi perdite, sulla base dei potenti aiuti inglesi e statunitensi. Durante il primo anno di guerra infatti le officine aeronautiche Anglo-Americane fornirono circa 3.500 aerei all'URSS.

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    Le forze sovietiche operanti tra il Dnieper e l'Orel furono appoggiate da notevoli formazioni di carri armati medi e pesanti che, nonostante la insurficenza dei nostri anticarro, furono brillantemente contenute. Anche le artiglierie russe, servite dai cadetti della migliore scuola di artiglieria russa, l'accademia di Jekaterinoslav, impegnarono le nostre truppe vigorosamente, senza poterne arrestare lo slancio. Nelle foto a sinistra dall'alto un medio calibro sovietico in azione davanti a Petrikowka. In basso una singolare mitragliera russa a quattro canne. In alto a destra carri medi russi nel settore di Dniepropetrowsk. Al centro un reparto di arditi sovietici si accinge a passare il Dnieper per un'azione di disturbo nelle nostre linee. Tali azioni frequentissime furono brillantemente stroncate dai nostri soldati. In basso caccia russi dietro ripari antischeggie. Nella battaglia per Petrikowka intervenne per la prima volta la caccia sovietica che mitragliò e spezzò le truppe del C.S.I.R. avanzanti.

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    30 settembre 1941. Si conclude vittoriosamente la prima grande azione offensiva del C.S.I.R. I generali tedeschi, non certo facili all'elogio, ebbero
    lusinghiere parole per i nostri soldati e per le loro vittorie. Gli italiani catturarono circa 10.000 prigionieri, cifra elevata se si tiene conto dell'esiguità
    delle forze impiegate, e distrussero circa 450 carri armati, quasi tutti di grosso tonnellaggio. Nella foto in alto carri armati sovietici da 34 t. distrutti
    dal fuoco della nostra artiglieria. In basso prigionieri russi catturati oltre il Dnieper.

    Battesimo di fuoco

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    « Bersagliere Alfredo Lutri di Antonio, nato a Trebisacce (Cosenza). Motociclista in esplorazione avanzata, fatto segno ad intenso fuoco nemico in agguato, persisteva nel suo compito di ricognizione, finché veniva gravemente colpito insieme al compagno di macchina. Con supremo sforzo riprendeva la guida della motocicletta per comunicare al proprio comandante l'esito della ricognizione e per portare in salvo il compagno. Si abbatteva morente subito dopo ma accennava soltanto alla ferita del compagno perché gli fosse data la preferenza nelle cure. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di spirito militare e di cameratismo, fino al supremo sacrificio ». (Pokrowskoje (fronte russo) 11 agosto 1941 XIX).

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    In seguito ai combattimenti del 12 agosto le forze russe abbandonarono la testa di ponte di. Nikolajew a sud di Pokrowskoje, sacrificando le possibilità di ritirata per le forze impegnate tra il Dniester ed il Bug. Si concludeva così felicemente la prima azione offensiva del CSIR che ricevette il primo elogio ufficiale dell'alleato a mezzo del generale tedesco von Schobert, comandante delle truppe impegnate. Nelle foto a sinistra dall'alto una pattuglia di cavalleria appiedata in ricognizione. In basso bersaglieri dell'Il° reggimento all'attacco. In alto a destra la prima Medaglia d'Oro della campagna di Russia, il bersagliere A. Lutri. In basso un soldato sovietico si arrende ad un fante della « Pasubio ».

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    22 settembre 1941. Le azioni della « Pasubio » non furono che il preludio alla battaglia per Petrikowka. Attestatosi finalmente sul Dnieper, l'intero corpo di spedizione italiano si assunse la responsabilità di circa 150 chilometri di fronte fino a Dniepropetrowsk esclusa. Da qui si accinse al balzo del grande fiume unitamente al corpo corazzato di von Kleist, del gruppo Mackensen. La « Pasubio » iniziò l'azione sull'estrema sinistra lungo il fiume Orel, stabilendo la testa di ponte di Zaritschamka. Passato il fiume il 22 settembre sostenne e respinse un rabbioso contrattacco russo dal 24 al 26, stabilendo la testa di ponte di Woinowka che i tedeschi erano stati costretti ad abbandonare. Nel frattempo la « Torino », rinforzata dalla « Tagliamento », e dalla « Celere » passano il Dnieper a Dniepropetrowsk incalzando il nemico oltre il fiume. Il nostro schieramento formava « grosso modo » un angolo retto, nell'interno del quale si trovavano la città di Petrikowka e i resti di 5 divisioni che il Maresciallo Budiennj aveva lasciato a guardia del Dnieper. L'avanzata su Petrikowka, si svolse vittoriosamente. Nella foto in alto l'attimo dell'assalto dei fanti della « Torino ». In basso a sinistra un apparecchio nebbiogeno in azione con la divisione « Celere ». A destra gli ultimi vittoriosi combattimenti per le strade di Petrikowka.

    Volontari e alleati

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    Nella Spagna di Franco, nonostante l'opportunismo del dittatore spagnolo che non era entrato in guerra a fianco dell'Asse cedendo alle pressioni anglo-americane, fu organizzato un corpo di volontari che formò la famosa Divisione Azzurra. Nella foto volontari spagnoli in partenza per il fronte,

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    Le truppe Romene contribuirono con alcune armate allo sforzo offensivo contro l'Unione Sovietica. Memori della recente occupazione della Bessarabia, i romeni combatterono con grande spirito di sacrificio in Ucraina, in Bessarabia e sulle coste del Mar Nero, in direzione della Crimea. Nella foto Re Michele di Romania ed il generale Antonescu al fronte seguono l'avanzata delle truppe romene.

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    Anche le nazioni alleate minori inviarono contigenti di truppe che si batterono al fianco delle Armate tedesche, con equipaggiamenti forniti in gran parte dalla Wermacht. Nella foto in alto Re Boris di Bulgaria passa in rivista i contingenti bulgari in partenza per il fronte. In basso Monsignor Tiso, capo del Governo Slovacco, saluta i contingenti destinati al fronte russo.

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    L'esercito ungherese, i cui armamenti erano stati completamente rimodernati sotto la esperta guida dell'ammiraglio Horty, inviò molte divisioni al fronte russo, profittando anch'esso degli aiuti germanici. Oltre alle truppe anche contingenti aerei magiari operarono nell'Unione Sovietica. Nella foto un reggimento dei famosi « Honved » ungheresi sfila in parata davanti all'ammiraglio Horty.

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    18 agosto 1941. Hitler e Mussolini visitano le truppe operanti sul fronte orientale. Durante i colloqui il generale Messe non mancò di far rilevare a Mussolini la mancanza di automezzi che ostacolava le operazioni del C.S.I.R. Non volendo ricorrere all'alleato tedesco Mussolini lasciò cadere le richieste di Messe, il quale peraltro ordinò la requisizione dei resistentissimi cavalli russi e di molte slitte. Il generale italiano aveva infatti intuito che lo svolgimento del conflitto non sarebbe stato breve come i tedeschi avrebbero voluto. Nella foto da una macchina militare germanica con due Capi di Stato assistono ad una sfilata di truppe sul fronte orientale.

    U-bootes in mediterraneo

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    13 novembre 1941. Nel luglio 1941 la Marina Germanica iniziò l'installazione di una base navale a Salamina, nella Grecia occupata, sia per la intensificazione della guerra sottomarina nel Mediterraneo, sia in relazione al crescente sviluppo della flotta subacquea germanica. Furono quindi trasferiti nel Mediterraneo 21 sommergibili tedeschi destinati ad operare prevalentemente tra il canale di Sicilia e Gibilterra. Già nel novembre i battelli germanici conseguirono lusinghieri successi. Infatti il 13 dello stesso mese l'U-Boot al comando del T.V. Gugenberger sorprendeva al largo di Gibilterra la portaerei britannica « Ark Royal » colpendola con un siluro. La nave, nonostante il tentativo di rimorchio da parte delle unità di scorta, colò a picco. Nella foto a sinistra in alto una unità di scorta si avvicina alla portaerei subito dopo il siluramento. In basso un cacciatorpediniere di scorta raccoglie gli ultimi naufraghi dell'« Ark Royal ». A destra in alto il T.V. Gugenberger affondatore dell'« Ark Royal » con il smg « U 88 ». In basso il T.V. von Tiesenhausen, affondatore della corazzata inglese «Barham ».

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    25 novembre 1941. Durante una navigazione offensiva della squadra britannica di Alessandria, il sommergibile germanico « V 331 » al comando del T.V. von Tiesenhausen si inserì in pieno giorno nello schieramento delle unità di scorta avversarie. Portatosi audacemente a 400 metri dall'unità capofila, lanciò 4 siluri contro la corazzata britannica « Barham », colpendola in pieno. L'unità, dopo essere sbandata, saltava in aria a causa dell'incendio dei depositi di munizioni. Il sommergibile, alleggerito improvvisamente del peso dei siluri, venne in superficie a distanza talmente ravvicinata che i pezzi della corazzata « Valiant » non poterono colpirlo per impossibilità di maggiore inclinazione. Nella foto in alto la corazzata « Barham » in navigazione. Al centro la « Barlumi » colpita sbanda su un fianco. In basso la terrificante esplosione dei depositi di munizioni che polverizzò letteralmente la superba corazzata. Nel disastro perirono circa 900 uomini.

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    Negli ultimi mesi del 1941 prosegui violentissima la battaglia tra gli aerosiluranti italiani ed i convogli britannici che tentavano di rifornire Malta.
    Il 26 settembre una formazione di « S. 79 » siluranti, al comando del col. Seidl, ingaggiò un durissimo combattimento con le unità di scorta ad un
    convoglio inglese. Nell'apocalittico scontro trovarono gloriosa morte il col. Seidl ed i suoi comandanti di squadriglia che si erano gettati sulle unità
    britanniche mitragliandole dopo il lancio. In successivi combattimenti, il ten. Forzinetti fu visto dirigere, durante una asprissima azione, su una unità
    britannica e schiantarsi in fiamme su di essa. Molto prima quindi della comparsa dei « Kamikaze » giapponesi i piloti italiani fecero dire al nemico:
    «I tuffatori, i bombardieri, i cacciatori e gli aerosiluranti italiani dimostrarono uno sprezzo del pericolo che davvero non conoscevamo ancora ». Nella
    foto in alto un aerosilurante italiano è pronto per il decollo. In basso a sinistra un S 79 dirige sotto il fuoco nemico per attaccare la corazzata
    « Nelson », dalla quale è stato ripreso questo eccezionale documento fotografico. La corazzata fu colpita e gravemente danneggiata. A destra il col.
    Seidl, Medaglia d'Oro alla Memoria, comandante del 36° Stormo aerosiluranti.
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    La X Mas all'attacco

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    Mentre sui vari fronti terrestri si combatteva già da alcuni anni, una lotta silenziosa, ma non per questo meno dura e cruenta, era stata ingaggiata
    da alcuni eroici italiani che, emulando le gloriose imprese degli assaltatori della prima guerra mondiale, si proponevano di portare l'offesa nelle più
    munite basi avversarie valendosi di mezzi insidiosi. Le prime azioni di questi uomini, riuniti in un gruppo denominato convenzionalmente « x MAS»
    fallirono per la novità tecnica dei mezzi impiegati e per l'avversità del caso. Nel 1940 infatti fu silurato nel golfo di Bomba il sommergibile « Iride »,
    attrezzato per il trasporto dei cosiddetti « maiali », ed in seguito fu affondato il smg. « Gondar », anch'esso attrezzato per il trasporto dei mezzi di
    assalto. Fu allora destinato al trasporto dei mezzi lo « Scirè » (nella foto a sinistra già allestito per il suo particolare compito) al comando del C. P.
    Borghese (nella foto a destra) che alla testa dei reparti subacquei della « X MAS » conseguì notevolissimi successi.

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    La prima missione offensiva condotta nelle acque nemiche fu compiuta nei pressi di Gibilterra dallo « Scirè » e da tre equipaggi della « X.». Purtroppo a causa di imperfezioni tecniche i « maiali» del T.V. De La Penne e del Magg. G.N. Tesei non riuscirono a penetrare nel porto avversario. Il terzo mezzo giunse a circa 70 metri da una corazzata inglese, quando per avaria affondò improvvisamente. Il comandante, T.V. Birindelli, tentò di trascinare « a mano » l'ordigno ma, provato dal grave sforzo, fu costretto ad abbandonare l'impresa ed in seguito fu fatto prigioniero. Nella foto a destra uno dei famosi « maiali » durante la revisione. I « maiali», simili nella forma a grossi siluri, erano dotati di una testa esplosiva che, staccata dal mezzo, veniva applicata sotto la chiglia della unità avversaria. A sinistra il T.V. Birindelli decorato di Medaglia d'Oro per l'azione descritta.

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    25-26 luglio 1941. Fin dal lontano 1935 i nostri comandi presero in considerazione il progetto di neutralizzazione di Malta, che già appariva un grave pericolo per i nostri schieramenti. A ciò furono adibite le forze di superficie della «X », che già avevano operato vittoriosamente nella baia di Suda, coadiuvate da due mezzi subacquei. Un avviso scorta e due MAS rimorchiarono di fronte alla base nemica due « maiali », destinati a far saltare le ostruzioni e ad attaccare i sommergibili inglesi alla fonda e nove barchini esplosivi, destinati ad attaccare i bersagli nel porto. Purtroppo l'azione ebbe esito sfortunatissimo. Infatti il « maiale » destinato a distruggere i sommergibili non raggiunse l'obbiettivo per avaria tecnica, l'altro comandato dal magg. G. N. Tesei, raggiunte presumibilmente in ritardo le ostruzioni fu fatto saltare dallo stesso equipaggio che immolò cosi la propria vita. Dopo l'esplosione del mezzo di Tesei, i barchini esplosivi si lanciarono all'attacco, incuranti di ogni rischio. Il S.T. A.N. Carabelli si sacrificò col suo mezzo nel tentativo di allargare la breccia nelle ostruzioni. Gli altri, ostacolati da un ponte crollato sul varco per le ripetute esplosioni furono completamente annientati dal fuoco britannico. Come scrissero gli stessi inglesi « Bastarono pochi secondi perchè più nulla si muovesse sul mare ». Nella foto un barchino esplosivo della « X » in azione.

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    La reazione inglese non si limitò alla distruzione dei mezzi d'assalto. Alle prime luci dell'alba infatti aerei da caccia britannici levatisi in volo da Malta mitragliarono i due MAS di scorta affondandoli. Il numero delle vittime fu così aumentato dal sacrificio degli equipaggi. Caddero il C.P. Muccagatta, comandante dell'eroica flottiglia, il C.C. Giobbe, che aveva comandato i barchini impiegati nell'azione e quasi tutti i valorosi gregari. Nelle foto da destra il com. Moccagatta, immolatosi alla testa dei suoi uomini, il com. Giobbe, il magg. Tesei, che prima di andare in azione aveva detto: «...quel che importa è che noi si sia capaci di saltare in aria col nostro apparecchio sotto l'occhio del nemico, avremo così indicato ai nostri figli e alle future generazioni a prezzo di quali sacrifici si serva il proprio ideale e per quale via si pervenga al successo ». Il cap. medico Falcomatà, che volontariamente aveva seguito in azione i suoi uomini, immolandosi con essi.

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    19 dicembre 1941. Dopo alcune azioni offensive contro la base navale di Gibilterra che permisero di perfezionare i dispositivi tecnici, ebbe luogo la
    più importante azione vittoriosa condotta dai mezzi d'assalto italiani durante il secondo conflitto mondiale, il forzamento del porto di Alessandria. Lo « Scirè » condusse davanti alla base inglese tre « maiali » dopo una navigazione fortunosa in cui le circostanze furono vinte dall'abnegazione e dall'elevatissimo grado di addestramento dell'equipaggio del sommergibile avvicinatore. Gli operatori, abbandonato il sommergibile, a cavallo degli ordirgni, diressero verso l'entrata del porto, sul quale vigilava un addestratissimo apparato di vigilanza, già provato dalle precedenti incursioni italiane. Approfittando dell'ingresso di alcuni cacciatorpediniere britannici, per i quali furono aperte le ostruzioni retali, i mezzi d'assalto scivolarono silenziosamente verso i bersagli. Il « maiale » montato dalla coppia De la Penne-Bianchi applicò la carica esplosiva sotto la corazzata « Valiant ». Il mezzo di Marceglia-Schergat attaccò invece la corazzata « Queen Elizabeth », quello di Martellotta-Marino una grossa petroliera carica. Gli ordigni esplosero regolarmente affondando le unità britanniche e privando la marina inglese di due preziose unità. L'affondamento di altre due grandi corazzate inglesi ad opera dei Nipponici, avvenuto quasi contemporaneamente all'azione dei sommergibili tedeschi in Mediterraneo ed a quella dei nostri mezzi d'assalto, mise in grave crisi lo schieramento navale britannico e di riflesso le forze terrestri che operavano in A.S.I. Nelle foto a destra dall'alto il porto di Alessandria gremito di navi. In primo piano le unità francesi rifugiatesi ad Alessandria. Sullo sfondo la Valiant » e la « Queen Elizabeth ». Al centro la corazzata « Valiant ». In basso un « maiale » naviga a « quota occhiali ». A sinistra dall'alto il T. V. De la Penne, il cap. G. N. Marceglia, il cap. A.N. Martellotta. I sei operatori furono decorati di Medaglia d'Oro al V. M. al ritorno dalla prigionia.

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    La Cina teatro della guerra cino-giapponese dal 1937 al 1945, ed il Pacifico, epicentro del conflitto nippo-americano dal 1941 al 1945.

    IL GIAPPONE ALL'ATTACCO DALL'ASIA AL PACIFICO

    Si son dette molte cose sullo spirito aggressivo dei giapponesi e sulla loro volontà imperialistica. Si è ironizzato, anche, sulla loro affermazione di voler istaurare nell'Estremo Oriente un ordine nuovo. Ma in sede storica, svincolati orinai dalle affermazioni aprioristiche della propaganda di guerra, bisogna riconoscere che il Popolo giapponese fu costretto alla guerra da una serie di fattori estranei in gran parte alla sua volontà ed anche alle intenzioni dei governanti. Una carta geografica e qualche dato statistico possono bastare da soli a spiegare i motivi della politica espansionistica condotta dal Giappone nell'Asia orientale e quindi, in ultima analisi, le ragioni del conflitto nippo-americano, che si innestò in quello cino-nipponico. Il Giappone è composto da alcune grandi isole e da una miriade di isole minori, dal suolo montagnoso e quindi poco adatto all'agricoltura. In tutto 382.545 Km. sui quali si ammassa una popolazione di 85 milioni di abitanti. Una densità, quindi di 226 abitanti per Kmq. E poichè, malgrado la tipica laboriosità, dei giapponesi, lo sviluppo industriale e l'estrema frugalità della popolazione nipponica, le risorse nazionali non bastavano a compensare l'accrescimento demografico, fin dal XIX secolo il Giappone dovette cercare oltre il mare uno sfogo che lo salvasse dallo strangolamento economico. Fu insomma la fame a spingere i giapponesi verso la Cina, che si estendeva con i suoi spazi immensi come una visione tentatrice. Allora il Giappone, che era riuscito ad istallarsi in Corea quasi con la benevola assistenza dei britannici e che in funzione antirussa era stato il beniamino degli occidentali
    nel 1905, divenne il pericolo numero uno della Asia. Le sue mire di conquista militare della Cina cozzavano infatti contro formidabili interessi economici britannici, americani e francesi. Questi tre paesi vedevano, nella conquista giapponese o in un accentuarsi dell'influenza di Tokio nell'immenso mercato cinese, un pericolo gravissimo per il loro fiorentissimo commercio che si svolgeva felicemente attraverso le numerose concessioni strappate ai cinesi con la forza e col ricatto. Perciò, quegli stessi paesi che avevano ridotto l'indipendenza cinese ad una formula senza significato, quando fra il 1934 e il 1937 i nipponici ripresero sul continente la penetrazione politica e militare che avevano dovuto interrompere nel 1895 dopo l'acquisto della Corea e di Formosa, si rivelarono come i più intransigenti paladini della libertà della Cina. La situazione si andò aggravando, come vedremo, dopo che, conquistata Canton, i nipponici affermarono — 1938 — che « un 'ordine nuovo » doveva essere instaurato nell'Asia orientale. Questa enunciazione faceva riscontro all'analoga decisione dei dittatori europei, poichè anch'essi si proponevano di modificare la situazione esistente nel vecchio continente secondo un'« ordine nuovo ». Avvenne così che quell'avvicinamento del Giappone all'Italia e alla Germania portò il 27 settembre 1940 al patto tripartito, in opposizione all'ormai imminente alleanza anglo-americana che fu annunciata anche senza un vero e proprio protocollo diplomatico nell'incontro del Potomac fra Churchill e Roosevelt. Lo schieramento s'era quindi rivelato. Ben presto il Giappone,
    tuttora impegnato nel conflitto con la Cina, dovette decidersi alla grande mortale partita con il più grande dei suoi antagonisti del Pacifico: l'America.
    E' ancora viva, fra gli storici e i critici militari una grossa polemica a proposito del bombardamento giapponese sulla flotta americana all'ancora nel porto di Pearl Harbour nelle isole Hawai. V'è chi sostiene che i comandi americani del Pacifico non furono messi tempestivamente a giorno dell'aggravarsi della situazione e che questo fatto determinò la tragica sorpresa fra gli Stati Uniti e il Giappone e che questo fatto determinò la tragica sorpresa del 7 dicembre 1941. C'è chi afferma, invece, che l'ammiraglio Kimmel era perfettamente informato e che la grave responsabilità del disastro ricade sulla marina e sull'esercito che non apprezzarono nella giusta misura gli avvertimenti provenienti da Washington. Infatti è noto che Roosevelt, quando il 26 novembre 1941 presentò ai giapponesi la sua risposta al progetto di compromesso dell'ammiraglio Nomura (il quale aveva offerto il ritiro delle truppe nipponiche dall'Indocina, si era dichiarato disposto a stipulare un armistizio con la Cina e si era spinto a progettare il ritiro dal patto tripartito firmato con la Germania e l'Italia) sapeva perfettamente che si trattava di una vera e propria nota ultimativa. I giapponesi non avrebbero potuto lasciarla senza risposta, a meno che non rinunciassero a tutte le loro conquiste in Cina, declassandosi a potenza di terzo rango. Perchè i giapponesi progettarono l'attacco su Pearl Harbour? La ragione è evidente: colpendo la base di Oahu, ove era stata concentrata da parecchi mesi la flotta del Pacifico, essi sapevano di poter mettere fuori combattimento, col favore della sorpresa, il grosso della forza avversaria. Deciso da parte giapponese l'attacco, restava solo da stabilire la data. Il 7 novembre Yamamoto, sentite le autorità politiche, fissò il giorno Y (come lo denominò nei suoi ordini di operazione) per l'8 dicembre, data di Tokio. Successivamente, entro il 22 novembre, le navi portaerei destinate all'impresa furono portate nelle isole Kurili. Il 25 novembre la grande squadra era al completo. Al comando dell'ammiraglio Nagumo vi erano sei portaerei, due corazzate veloci, due grandi incrociatori, un incrociatore leggero, venti caccia. Complessivamente, a disposizione della flotta erano 424 velivoli. Partenza il 28 novembre, dopo la presentazione della inaccettabile nota americana. In perfetto silenzio radiotelegrafico, la formazione giapponese, procedette, senza essere scoperta, verso l'obiettivo. Il 5 dicembre, a 8000 miglia da Oahu, la squadra ricevette il segnale convenzionale di eseguire l'attacco: « Arrampicatevi sul monte Niltaka ». Due giorni dopo all'alba, sulle ottantasei navi alla fonda nel porto di Pearl Harbour, sulle istallazioni portuali e sugli aerodromi dell'isola si scatenava da un'istante all'altro l'inferno. Erano le 7,55 del mattino e nessuno, nella base americana, aveva avuto sentore dell'attacco. Eppure non più di due ore prima un velivolo da ricognizione americano aveva affondato un piccolo sommergibile giapponese. E mezz'ora dopo un operatore al radar aveva individuato per caso un grande numero di velivoli in avvicinamento. Ma questi veri e propri colpi di fortuna non servirono a nulla. Non fu dato l'allarme. Da Washington intanto il governo americano veniva informato che alle 13 (ora corrispondente a quella dell'alba nelle Hawai) l'ambasciata giapponese avebbe fatto una definitiva comunicazione in risposta al memoriale-ultimatum di Roosevelt. Ne fu data notizia alle Hawai avvertendo che i giapponesi avevano presentato « ciò che si può chiamare un ultimatum». Ma la comunicazione, inoltrata per via radio-commerciale anzichè per telefono, giunse a Pearl Harbour alle 7 e 32 cioè 22 minuti prima dell'attacco e fu decifrata appena sette ore dopo l'ora X. Quando cioè cinque corazzate americane erano già state distrutte e altro quattro danneggiate assieme a numerose altre unità minori.

    Il conflitto Cino-Giapponese

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    I giapponesi misero per la prima volta piede sul continente asiatico nel 1894, quando, dichiarata guerra all'Impero Cinese — riportarono una serie di
    rapidi sfolgoranti successi. Ma se la preparazione militare era stata eccezionalmente efficace, non si potè dire altrettanto di quella diplomatica. E difatti i nipponici, costretti dalle potenze occidentali a stipulare un armistizio con i cinesi, vennero poi obbligati ad abbandonare parecchie provincie conuistate. La preda fu tuttavia grandissima: l'intera penisola coreana e Formosa. Nel 1905 altro conflitto: questa volta con la Russia zarista. La vittoria rideva un'altra volta alle armate del Tenno. Sul mare, nella battaglia di Thushima, i giapponesi rivelavano al mondo stupefatto che era nata una nuova grande potenza navale. Qual'era il segreto nipponico? Cosa c'era, alla base delle loro vittorie? Una mistica guerriera che animava il popolo, dall'imperatore-Dio all'ultimo soldato. Una mistica che faceva disprezzare la morte e che esaltava fin nei precetti della religione shintoista, la gioia e la gloria del sacrificio per la Patria, unico mezzo per assurgere al cielo degli eroi. Nella foto un reparto nipponico in partenza per il fronte si inchina nella preghiera agli spiriti degli antenati e degli eroi dinnanzi a un tempio di Tokio.

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    Dopo il 1918 il Giappone, che si era schierato a fianco dell'Intesa, aveva avanzato parecchie pretese, non soltanto per quanto riguardava il Pacifico (o
    i nipponici si erano impossessati delle isole già, tenute dai tedeschi) ma anche sulla Cipa. Particolarmente importanti erano le mire giapponesi nella provincia dello Shantung, ricca di miniere e di industrie. Queste rivendicazioni furono respinte dagli altri alleati ma tuttavia Tokio riuscì ad imporre alla Cina condizioni che la sottoposero praticamente al suo protettorato. Le successive conferenze diplomatiche ridussero gravemente i vantaggi ottenuti, nipponici i quali però, nel decennio successivo, approfittando dell'anarchia che si era scatenata in Cina con la guerra dei generali, intensificarono la loro penetrazione politica ed economica sul continente. Nel 1931, anzi, per una cosiddetta operazione di polizia il Giappone inviò nella Manciuria il corpo di spedizione, occupandola. L'anno successivo nasceva, sotto l'egida nipponica, lo stato quasi indipendente del Manciukuo. Fu questo il primo di una serie di complicazioni che portarono allo scoppio del conflitto generale. Nella foto un reparto nipponico in marcia sul Fiume Gia.

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    La ripresa della guerra contro la Cina fu salutata in Giappone da grandi manifestazioni di giubilo. Pochi mesi prima aveva trionfato nel paese il partito militare, capitanato da Hayasci, il quale aveva saputo montare l'opinione pubblica contro i cinesi, presentando le misure politico-militari di Cìang Kai-scek al confine mancese come una provocazione. E come sempre, dichiarata la guerra, il popolo seguì con dedizione completa gli ordini del Tenno. A sinistra, l'imperatore del Giappone, Hiro Hito. A destra donne nipponiche salutano un reparto in partenza per la zona di operazioni.

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    Capi militari nipponici. Da sinistra a destra: Il generale Sugiyaina, ministro della guerra. Il generale Terauchí, Capo di Stato Maggiore Generale,
    il generale Matsu, comandante delle forze operanti in Cina, il generale Katsuki, comandante delle truppe giapponesi di fronte a Sciangai.

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    Dopo la fine della monarchia e la proclamazione della repubblica (febbraio 1912) la Cina era caduta in una situazione di perpetua guerra civile. E' praticamente impossibile fare la storia di quelle complesse vicende, nelle quali si intrecciarono azioni di brigantaggio e di rapina, terrorismo politico, speranze di rinascita, dissidi religiosi, conati xenofobi, sete di potere, interessi economici, contrasti regionali, in una ridda di governi centrali e locali che duravano pochi mesi o pochi giorni e il cui potere, talvolta, si limitava ai palazzi dei ministeri. Basterà dunque ricordare come, nell'estate del 1928, un uomo nuovo, Ciang Kai-scek, comandante dell'accademia militare di Wampoa (Canton), alleatosi con i comunisti e forte quindi dell'appoggio dell'Unione Sovietica, riuscì ad impadronirsi del governo del sud e a capo di un'armata moderna, dotata di mezzi russi, effettuò una marcia trionfale, giungendo fino ad Hankow, sullo Yang tze Kiang. Dalla grande città, proclamata capitale della Cina, Ciang si spingeva più a nord e conquistava anche Shangai. Nella foto la famosa « grande muraglia » cinese sulla quale, presso il ponte « Marco Polo », si accese l'ultimo conflitto cino-giapponese.

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    Quando già, con l'alleanza fra nazionalisti e comunisti, sembrava che la Cina dovesse entrare nell'orbita di Mosca, avvenne il colpo dí scena: Ciang Kai-scek si staccò dai comunisti, facendone trucidare un gran numero a Shangai, e riprese le operazioni verso il nord. Nel 1927 conquistava Nanchino e qui veniva convocata una costituente per l'unificazione nazionale della Cina. Ma si trattava di un compito troppo grande per gli uomini del Kuomintang i quali, spinti dal loro esasperato nazionalismo, si tirarono addosso le ire dei giapponesi, disturbati nei loro piani manciuriani. Così, nel 1931, il ciukuo. Nel 1933 il Giappone, di fronte ad un verdetto sfavorevole della Società delle Nazioni, si ritirò da Ginevra e riprese la propria libertà d'azione contro la Cina. Malgrado la resistenza delle truppe di Ciang Kai-scek i nipponici giunsero rapidamente in vista di Pechino. Nella foto soldati cinesi, armati di mitra americani, in esercitazione.

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    Nel maggio del 1934 la Gran Bretagna, sostituitasi all'ormai impotente Società delle Nazioni, riuscì ad ottenere, grazie alla sua mediazione, un armistizio fra i belligeranti. Le truppe giapponesi furono ritirate al di là della Grande Muraglia; quelle cinesi a sud di Pechino. Ma si trattò di una parentesi momentanea in una guerra interminabile. Anzi, contro il governo cinese, accusato dell'abbandono allo straniero di una parte del territorio nazionale, si scatenò di nuovo la guerra civile. Poi, dopo tre anni di sosta almeno apparente, la guerra riprese con maggior accanimento. Il 7 luglio 1937, infatti, un incidente al ponte Marco Polo dava ai giapponesi il pretesto per gettarsi nuovamente sull'agognata preda cinese. Nella foto a sinistra il generalissimo cinese Ciang Kai-scek, che dal 1926 è sempre rimasto alla ribalta dell'attenzione mondiale. A destra la bella e intelligentissima moglie di Ciang che fornendogli l'appoggio della sua famiglia di ricchissimi banchieri fu l'artefice del successo dell'ambizioso generale.

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    Alcune figure eccezionali emergono nell'intricata storia delle guerre interne ed esterne della Cina fra le due guerre. A sinistra Mao Tse Tung, capo
    dei comunisti cinesi fu in un primo momento a fianco di Ciang nella lotta contro il potere personale dei generali che dilaniavano la Cina in una serie di guerre civili. Se ne distaccò nel 1934, quando il generalissimo assunse un atteggiamento anticomunista e ingaggiò contro di lui una lotta senza quartiere. Reiteratamente sconfitto da Ciang, alla fine della seconda guerra mondiale, con l'aiuto sovietico, conquistò l'intera Cina, confinando il rivale nell'isola di Formosa. Al centro il generale Sung Cheh Yuan e il generale Feng Yu Hsiang. Il primo offrì, per il suo atteggiamento intransigente verso i nipponici, il pretesto del conflitto del 1937. Il secondo, comandante delle forze cinesi del nord fu notissimo col nomignolo di « Generale cristiano ». A destra il giornalista australiano Donald, che fu negli anni cruciali l'ascoltatissimo consigliere di Ciang Kai-scek.
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