Parafrasi da Iliade

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    Mi servirebbe gentilmente una parafrasi del brano tratto dall'iliade "Il duello tra Paride e Menelao" Libro IV vv.324-382

    Ringrazio anticipatamente chiunque riesca a farla/trovarla.
     
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    Ah mi servirebbe entro stasera che domani devo essere interrogato propio su questo brano...
     
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    Sardegna

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    Tutto il quarto libro. Trova tu la posizione esatta...ciao :D
    Oppure se nn lo trovi dimmi la prima frase e l'ultima non parafrasata che te la trovo.
    Se poi hai difficoltà con qualche passaggio, chiedi pure. E' comunque abbastanza chiaro

    Nell'auree sale dell'Olimpo accolti
    intorno a Giove si sedean gli Dei
    a consulta. Fra lor la veneranda
    Ebe versava le nettaree spume,
    e quelli a gara con alterni inviti
    l'auree tazze vôtavano mirando
    la troiana città. Quand'ecco il sommo
    Saturnio, inteso ad irritar Giunone,
    con un obliquo paragon mordace
    così la punse: Due possenti Dive
    aiutatrici ha Menelao, l'Argiva
    Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure
    neghittose in disparte ambo si stanno
    sol del vederlo dilettate. Intanto
    fida al fianco di Paride l'amica
    del riso Citerea lungi respinge
    dal suo caro la Parca; e dianzi, in quella
    ch'ei morto si tenea, servollo in vita.
    Rimasta è al forte Menelao la palma;
    ma l'alto affar non è compiuto, e a noi
    tocca il condurlo, e statuir se guerra
    fra le due genti rinnovar si debba,
    od in pace comporle. Ove la pace
    tutti appaghi gli Dei, stia Troia, e in Argo
    con la consorte Menelao ritorni.
    Strinser, fremendo a questo dir, le labbia
    Giuno e Minerva, che vicin sedute
    venìan de' Teucri macchinando il danno.
    Quantunque al padre fieramente irata
    tacque Minerva e non fiatò. Ma l'ira
    non contenne Giunone, e sì rispose:
    Acerbo Dio, che parli? A far di tante
    armate genti accolta, alla ruïna
    di Priamo e de' suoi figli, ho stanchi i miei
    immortali corsieri; e tu pretendi
    frustrar la mia fatica, ed involarmi
    de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga;
    ma di noi tutti non sperar l'assenso.
    Feroce Diva, replicò sdegnoso
    l'adunator de' nembi, e che ti fêro,
    e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba
    voler sempre di Troia il giorno estremo?
    La tua rabbia non fia dunque satolla
    se non atterri d'Ilïon le porte,
    e sull'infrante mura non ti bevi
    del re misero il sangue e de' suoi figli
    e di tutti i Troiani? Or su, fa come
    più ti talenta, onde fra noi sorgente
    d'acerbe risse in avvenir non sia
    questo dissidio: ma riponi in petto
    le mie parole. Se desìo me pure
    prenderà d'atterrar qualche a te cara
    città, non porre a' miei disdegni inciampo,
    e liberi li lascia. A questo patto
    Troia io pur t'abbandono, e di mal cuore;
    ché, di quante città contempla in terra
    l'occhio del sole e dell'eteree stelle,
    niuna io m'aggio più cara ed onorata
    come il sacro Ilïone e Priamo e tutta
    di Priamo pur la bellicosa gente:
    perocché l'are mie per lor di sacre
    opìme dapi abbondano mai sempre,
    e di libami e di profumi, onore
    solo alle dive qualità sortito.
    Compose a questo dir la veneranda
    Giuno gli sguardi maestosi, e disse:
    Tre cittadi sull'altre a me son care
    Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi
    se odiose ti sono. A lor difesa
    né man né lingua moverò; ché quando
    pure impedir lo ti volessi, indarno
    il tentarlo uscirìa, sendo d'assai
    tu più forte di me. Ma dritto or parmi
    che tu vano non renda il mio disegno,
    ch'io pur son nume, e a te comune io traggo
    l'origine divina, io dell'astuto
    Saturno figlia, e in alto onor locata,
    perché nacqui sorella e perché moglie
    son del re degli Dei. Facciam noi dunque
    l'un dell'altro il volere, e il seguiranno
    gli altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva
    fra i due commossi eserciti, onde spinga
    i Troiani ad offendere primieri,
    rotto l'accordo, i baldanzosi Achei.
    Assentì Giove al detto, ed a Minerva,
    Scendi, disse, veloce, e fa che i Teucri
    primi offendan gli Achei, turbando il patto.
    A Minerva, per sé già desïosa,
    sprone aggiunse quel cenno. In un baleno
    dall'Olimpo calò. Quale una stella
    cui portento a' nocchieri o a numerose
    schiere d'armati scintillante e chiara
    invìa talvolta di Saturno il figlio;
    tale in vista precipita dall'alto
    Minerva in terra, e piantasi nel mezzo.
    Stupîr Teucri ed Achivi all'improvvisa
    visïone, e talun disse al vicino:
    Arbitro della guerra oggi vuol Giove
    per certo rinnovar fra un campo e l'altro
    l'acerba pugna, o confermar la pace.
    La Dea mischiossi tra la folta intanto
    delle turbe troiane, e la sembianza
    di Laòdoco assunta (un valoroso
    d'Antènore figliuol) si pose in traccia
    del dëiforme Pandaro. Trovollo
    stante in piedi nel mezzo al clipeato
    stuolo de' forti che l'avea seguìto
    dalle rive d'Esepo. Appropinquossi
    a lui la Diva, e disse: Inclito germe
    di Licaon, vuoi tu ascoltarmi? Ardisci,
    vibra nel petto a Menelao la punta
    d'un veloce quadrello. E grazia e lode
    te ne verrà dai Dardani e dal prence
    Paride in prima, che d'illustri doni
    colmeratti, vedendo il suo rivale
    montar sul rogo, dal tuo stral trafitto.
    Su via dunque, dardeggia il burbanzoso
    Atride, e al licio saettante Apollo
    prometti che, tornato al patrio tetto
    nella sacra Zelèa, darai di scelti
    primogeniti agnelli un'ecatombe.
    Così disse Minerva, e dello stolto
    persuase il pensier. Diè mano ei tosto
    al bell'arco, già spoglia di lascivo
    capro agreste. L'aveva egli d'agguato,
    mentre dal cavo d'una rupe uscìa,
    colto nel petto, e su la rupe steso
    resupino. Sorgevano alla belva
    lunghe sedici palmi su l'altera
    fronte le corna. Artefice perito
    le polì, le congiunse, e di lucenti
    anelli d'oro ne fregiò le cime.
    Tese quest'arco, e dolcemente a terra
    Pandaro l'adagiò. Dinanzi a lui
    protendono le targhe i fidi amici,
    onde assalito dagli Achei non vegna,
    pria ch'egli il marzio Menelao percuota.
    Scoperchiò la faretra, ed un alato
    intatto strale ne cavò, sorgente
    di lagrime infinite. Indi sul nervo
    l'adattando promise al licio Apollo
    di primonati agnelli un'ecatombe
    ritornato in Zelèa. Tirò di forza
    colla cocca la corda, alla mammella
    accostò il nervo, all'arco il ferro, e fatto
    dei tesi estremi un cerchio, all'improvviso
    l'arco e il nervo fischiar forte s'udiro,
    e lo strale fuggì desideroso
    di volar fra le turbe. Ma non fûro
    immemori di te, tradito Atride,
    in quel punto gli Dei. L'armipotente
    figlia di Giove si parò davanti
    al mortifero telo, e dal tuo corpo
    lo devïò sollecita, siccome
    tenera madre che dal caro volto
    del bambino che dorme un dolce sonno,
    scaccia l'insetto che gli ronza intorno.
    Ella stessa la Dea drizzò lo strale
    ove appunto il bel cinto era frenato
    dall'auree fibbie, e si stendea davanti
    qual secondo torace. Ivi l'acerbo
    quadrello cadde, e traforando il cinto
    nel panzeron s'infisse e nella piastra
    che dalle frecce il corpo gli schermìa.
    Questa gli valse allor d'assai, ma pure
    passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle,
    sì che tosto diè sangue la ferita.
    Come quando meonia o caria donna
    tinge d'ostro un avorio, onde fregiarne
    di superbo destriero le mascelle;
    molti d'averlo cavalieri han brama;
    ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono
    a qualche sire, adornamento e pompa
    del cavallo ed in un del cavaliero:
    così di sangue imporporossi, Atride,
    la tua bell'anca, e per lo stinco all'imo
    calcagno corse la vermiglia riga.
    Raccapricciossi a questa vista il rege
    Agamennón, raccapricciò lo stesso
    marzïal Menelao; ma quando ei vide
    fuor della polpa l'amo dello strale,
    gli tornò tosto il core, e si rïebbe.
    Per man tenealo intanto Agamennóne,
    ed altamente fra i dolenti amici
    sospirando dicea: Caro fratello,
    perché qui morto tu mi fossi, io dunque
    giurai l'accordo, te mettendo solo
    per gli Achivi a pugnar contra i Troiani,
    contra i Troiani che l'accordo han rotto,
    e a tradimento ti ferîr? Ma vano
    non andrà delle vittime il giurato
    sangue, né i puri libamenti ai numi,
    né la fé delle destre. Il giusto Giove
    può differire ei sì, ma non per certo
    obblïar la vendetta; e caro un giorno
    colle lor teste, colle mogli e i figli
    ne pagheranno gli spergiuri il fio.
    Tempo verrà (di questo ho certo il core)
    ch'Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme
    la sua perfida gente. Dall'eccelso
    etereo seggio scoterà sovr'essi
    l'egida orrenda di Saturno il figlio
    di tanta frode irato; e non cadranno
    vôti i suoi sdegni. Ma d'immenso lutto
    tu cagion mi sarai, dolce fratello,
    se morte tronca de' tuoi giorni il corso.
    Sorgerà negli Achei vivo il desìo
    del patrio suolo, e d'onta carco in Argo
    io tornerommi, e lasceremo ai Teucri,
    glorïoso trofeo, la tua consorte.
    Putride intanto nell'iliaca terra
    l'ossa tue giaceran, senz'aver dato
    fine all'impresa, e il tumulo del mio
    prode fratello un qualche Teucro altero
    calpestando, dirà: Possa i suoi sdegni
    satisfar così sempre Agamennóne,
    siccome or fece, senza pro guidando
    l'argoliche falangi a questo lido,
    d'onde scornato su le vote navi
    alla patria tornò, qui derelitto
    l'illustre Menelao. Sì fia ch'ei dica;
    e allor mi s'apra sotto i piè la terra.
    Ti conforta, rispose il biondo Atride,
    né co' lamenti spaventar gli Achivi.
    In mortal parte non ferì l'acuto
    dardo: di sopra il ricamato cinto
    mi difese, e di sotto la corazza
    e questa fascia che di ferrea lama
    buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo,
    diletto Menelao, l'altro riprese.
    Intanto tratterà medica mano
    la tua ferita, e farmaco porravvi
    atto a lenire ogni dolor. - Si volse
    all'araldo, ciò detto, e, Va, soggiunse,
    vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio
    d'Esculapio, divin medicatore,
    Macaon qua ne vegna, e degli Achei
    al forte duce Menelao soccorra,
    cui di freccia ferì qualche troiano
    o licio saettier che sé di gloria,
    noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldo
    tra le falangi achee corse veloce
    in traccia dell'eroe. Ritto lo vide
    fra lo stuolo de' prodi che da Tricca
    altrice di corsier l'avea seguìto:
    appressossi, e con rapide parole,
    Vien, gli disse, t'affretta, o Macaone;
    Agamennón ti chiama: il valoroso
    Menelao fu di stral colto da qualche
    licio arciero o troiano che superbo
    va del nostro dolor. Corri, e lo sana.
    Al tristo annunzio si commosse il figlio
    d'Esculapio; e veloci attraversando
    il largo campo acheo, fur tosto al loco
    ove al ferito dëiforme Atride
    facean cerchio i migliori. Incontanente
    dal balteo estrasse Macaon lo strale,
    di cui curvârsi nell'uscir gli acuti
    ami: disciolse ei quindi il vergolato
    cinto e il torace colla ferrea fascia
    sovrapposta; e scoperta la ferita,
    succhionne il sangue, e destro la cosparse
    dei lenitivi farmaci che al padre,
    d'amor pegno, insegnati avea Chirone.
    Mentre questi alla cura intenti sono
    del bellicoso Atride, ecco i Troiani
    marciar di nuovo con gli scudi al petto,
    e di nuovo gli Achei l'armi vestire
    di battaglia bramosi. Allor vedevi
    non assonnarsi, non dubbiar, né pugna
    schivar l'illustre Agamennón; ma ratto
    volar nel campo della gloria. Il carro
    e i fervidi destrier tratti in disparte
    lascia all'auriga Eurimedonte, figlio
    del Piraìde Tolomèo; gl'impone
    di seguirlo vicin, mentre pel campo
    ordinando le turbe egli s'aggira,
    onde accorrergli pronto ove stanchezza
    gli occupasse le membra. Egli pedone
    scorre intanto le file, e quanti all'armi
    affrettarsi ne vede, ei colla voce
    fortemente gl'incuora, e grida: Argivi,
    niun rallenti le forze: il giusto Giove
    bugiardi non aiuta: chi primiero
    l'accordo vïolò, pasto vedrassi
    di voraci avoltoi, mentre captive
    le dilette lor mogli in un co' figli
    noi nosco condurremo, Ilio distrutto.
    Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi
    della battaglia, con irati accenti
    li rabbuffando, O Argivi, egli dicea,
    o guerrier da balestra, o vitupèri!
    Non vi prende vergogna? A che vi state
    istupiditi come zebe, a cui,
    dopo scorso un gran campo, la stanchezza
    ruba il piede e la lena? E voi del pari
    allibiti al pugnar vi sottraete.
    Aspettate voi forse che il nemico
    alla spiaggia s'accosti ove ritratte
    stan sul secco le prore, onde si vegga
    se Giove allor vi stenderà la mano?
    Così imperando trascorrea le schiere.
    Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armi
    davan di piglio intorno al bellicoso
    Idomenèo. Per vigorìa di forze
    pari a fiero cinghiale Idomenèo
    guidava l'antiguardia, e Merïone
    la retroguardia. Del vederli allegro
    il sir de' forti Atride al re cretese
    con questo dolce favellar si volse:
    Idomenèo, te sopra i Dànai tutti
    cavalieri veloci in pregio io tegno,
    sia nella guerra, sia nell'altre imprese,
    sia ne' conviti, allor che ne' crateri
    d'almo antico lïeo versan la spuma
    i supremi tra' Greci. Ove degli altri
    chiomati Achivi misurato è il nappo,
    il tuo del par che il mio sempre trabocca,
    quando ti prende di bombar la voglia.
    Or entra nella pugna, e tal ti mostra
    qual dianzi ti vantasti. - E de' Cretensi
    a lui lo duce: Atride, io qual già pria
    t'impromisi e giurai, fido compagno
    per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma
    gli altri Achivi a pugnar senza dimora.
    Rupper l'accordo i Teucri, e perché primi
    del patto vïolâr la santitate,
    sul lor capo cadran morti e ruïne.
    Disse; e gioioso proseguì l'Atride
    fra le caterve la rivista, e venne
    degli Aiaci alla squadra. In tutto punto
    metteansi questi, e li seguìa di fanti
    un nugolo. Siccome allor che scopre
    d'alto loco il pastor nube che spinta
    su per l'onde da Cauro s'avvicina,
    e bruna più che pece il mar vïaggia,
    grave il seno di nembi; inorridito
    ei la guarda, ed affretta alla spelonca
    le pecorelle; così negre ed orride
    per gli scudi e per l'aste si moveano
    sotto gli Aiaci accolte le falangi
    de' giovani veloci al rio conflitto.
    Allegrossi a tal vista Agamennóne,
    e a' lor duci converso in presti accenti,
    Aiaci, ei disse, condottieri egregi
    de' loricati Achivi, io non v'esorto,
    (ciò fôra oltraggio) a inanimar le vostre
    schiere; già per voi stessi a fortemente
    pugnar le stimolate. Al sommo Giove
    e a Pallade piacesse e al santo Apollo,
    che tal coraggio in ogni petto ardesse,
    e tosto presa ed adeguata al suolo
    per le man degli Achei Troia cadrebbe.
    Così detto lasciolli, e procedendo
    a Nestore arrivò, Nestore arguto
    de' Pilii arringator, che in ordinanza
    i suoi prodi metteva, e alla battaglia
    li concitava. Stavangli dintorno
    il grande Pelagonte ed Alastorre,
    e il prence Emone e Cromio, ed il pastore
    di popoli Biante. In prima ei pose
    alla fronte coi carri e coi cavalli
    i cavalieri, e al retroguardo i fanti,
    che molti essendo e valorosi, il vallo
    formavano di guerra. Indi nel mezzo
    i codardi rinchiuse, onde forzarli
    lor mal grado a pugnar. Ma innanzi a tutto
    porge ricordo ai combattenti equestri
    di frenar lor cavalli, e non mischiarsi
    confusamente nella folla. - Alcuno
    non sia, soggiunse, che in suo cor fidando
    e nell'equestre maestrìa, s'attenti
    solo i Teucri affrontar di schiera uscito:
    né sia chi retroceda; ché cedendo
    si sgagliarda il soldato. Ognun che sceso
    dal proprio carro l'ostil carro assalga,
    coll'asta bassa investalo, ché meglio
    sì pugnando gli torna. Con quest'arte,
    con questa mente e questo ardir nel petto
    le città rovesciâr gli antichi eroi.
    Il canuto così mastro di guerra
    le sue genti animava. In lui fissando
    gli occhi l'Atride, giubilonne, e tosto
    queste parole gli drizzò: Buon veglio,
    oh t'avessi tu salde le ginocchia
    e saldi i polsi come hai saldo il core!
    La ria vecchiezza, che a null'uom perdona,
    ti logora le forze: ah perché d'altro
    guerrier non grava la crudel le spalle!
    perché de' tuoi begli anni è morto il fiore!
    Ed il gerenio cavalier rispose:
    Atride, al certo bramerei pur io
    quelle forze ch'io m'ebbi il dì che morte
    diedi all'illustre Ereutalion. Ma tutti
    tutto ad un tempo non comparte Giove
    i suoi doni al mortal. Rideami allora
    gioventude: or mi doma empia vecchiezza.
    Ma qual pur sono mi starò nel mezzo
    de' cavalieri nella pugna, e gli altri
    gioverò di parole e di consiglio,
    ché questo è officio de' provetti. Dêssi
    lasciar dell'aste il tiro ai giovinetti
    di me più destri e nel vigor securi.
    Disse; e lieto l'Atride oltrepassando
    venne al Petìde Menestèo, perito
    di cocchi guidator, ritto nel mezzo
    de' suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto
    lo scaltro Ulisse colle forti schiere
    de' Cefaleni, che non anco udito
    di guerra il grido avean, poiché le teucre
    e l'argive falangi allora allora
    cominciavan le mosse: e questi in posa
    aspettavan che stuolo altro d'Achei
    impeto fêsse ne' Troiani il primo,
    e ingaggiasse battaglia. In quello stato
    li sorprese l'Atride; e corruccioso
    fe' dal labbro volar questa rampogna:
    Petìde Menestèo, figlio non degno
    d'un alunno di Giove, e tu d'inganni
    astuto fabbro, a che tremanti state
    gli altri aspettando, e separati? A voi
    entrar conviensi nella mischia i primi,
    perché primi io vi chiamo anche ai conviti
    ch'ai primati imbandiscono gli Achei.
    Ivi il saìme saporar vi giova
    delle carni arrostite, e a piena gola
    di soave lïeo cioncar le tazze.
    Or vi giova esser gli ultimi, e vi fôra
    grato il veder ben dieci squadre achee
    innanzi a voi scagliarsi entro il conflitto.
    Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose:
    Qual detto, Atride, ti fuggì di bocca?
    E come ardisci di chiamarne in guerra
    neghittosi? Allorché contra i Troiani
    daran principio al rio marte gli Achei,
    vedrai, se il brami e te ne cal, vedrai
    nelle dardanie file antesignane
    di Telemaco il padre. Or cianci al vento.
    Veduto il cruccio dell'eroe, sorrise
    l'Atride, e dolce ripigliò: Divino
    di Laerte figliuol, sagace Ulisse,
    né sgridarti vogl'io, né comandarti
    fuor di stagione, ch'io ben so che in petto
    volgi pensieri generosi, e senti
    ciò ch'io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'ora
    dal labbro mi fuggì cosa mal detta,
    ripareremla in altro tempo. Intanto
    ne disperdano i numi ogni ricordo.
    Ciò detto, gli abbandona, e ad altri ei passa;
    e ritto in piedi sul lucente cocchio
    il magnanimo figlio di Tidèo
    Diomede ritrova. Al fianco ha Stènelo,
    prole di Capanèo. Si volse il sire
    Agamennóne a Diomede, e ratto
    con questi accenti rampognollo: Ahi figlio
    del bellicoso cavalier Tidèo,
    di che paventi? Perché guardi intorno
    le scampe della pugna? Ah! non solea
    così Tidèo tremar; ma precorrendo
    d'assai gli amici, co' nemici ei primo
    s'azzuffava. Ciascun che ne' guerrieri
    travagli il vide, lo racconta. In vero
    né compagno io gli fui né testimone,
    ma udii che ogni altro di valore ei vinse.
    Ben coll'illustre Polinice un tempo
    senz'armati in Micene ospite ei venne,
    onde far gente che alle sacre mura
    li seguisse di Tebe, a cui già mossa
    avean la guerra; e ne fêr ressa e preghi
    per ottenerne generosi aiuti;
    e volevam noi darli, e la domanda
    tutta appagar; ma con infausti segni
    Giove da tanto ne distolse. Or come
    gli eroi si fûro dipartiti e giunti
    dopo molto cammino al verdeggiante
    giuncoso Asopo, ambasciatore a Tebe
    spedîr Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti
    banchettanti Cadmei trovò del forte
    Eteòcle alle mense. In mezzo a loro,
    quantunque estrano e solo, il cavaliero
    senza punto temer tutti sfidolli
    al paragon dell'armi, e tutti ei vinse,
    col favor di Minerva. Irati i vinti
    di cinquanta guerrieri, al suo ritorno,
    gli posero un agguato. Eran lor duci
    l'Emonide Meone, uom d'almo aspetto,
    e d'Autofano il figlio Licofonte,
    intrepido campion. Tidèo gli uccise
    tutti, ed un solo per voler de' numi,
    il sol Meone rimandonne a Tebe.
    Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole
    miglior di lingua, ma minor di fatti.
    Non rispose all'acerbo il valoroso
    Tidìde, e rispettò del venerando
    rege il rabbuffo; ma rispose il figlio
    del chiaro Capanèo, dicendo: Atride,
    non mentir quando t'è palese il vero.
    Migliori assai de' nostri padri a dritto
    noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette
    porte espugnammo: e nondimen più scarsi
    eran gli armati che guidammo al sacro
    muro di Marte, ne' divini auspìci
    fidando e in Giove. Per l'opposto quelli
    peccâr d'insano ardire e vi periro.
    Non pormi adunque in onor pari i padri.
    Gli volse un guardo di traverso il forte
    Tidìde, e ripigliò: T'accheta, amico,
    ed obbedisci al mio parlar. Non io,
    se il re supremo Agamennóne istiga
    alla pugna gli Achei, non io lo biasmo.
    Fia sua la gloria, se, domati i Teucri,
    noi la sacra cittade espugneremo,
    e suo, se spenti noi cadremo, il lutto.
    Dunque a dar prove di valor si pensi.
    Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.
    Orrendamente risonâr sul petto
    l'armi al re concitato, a tal che preso
    n'avrìa spavento ogni più fermo core.
    Siccome quando al risonante lido,
    di Ponente al soffiar, l'uno sull'altro
    del mar si spinge il flutto; e prima in alto
    gonfiasi, e poscia su la sponda rotto
    orribilmente freme, e intorno agli erti
    scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghi
    sprazzi diffonde la canuta spuma:
    incessanti così l'una su l'altra
    movon l'achee falangi alla battaglia
    sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba
    marcia sì cheta, che di voce priva
    la diresti al vederla; e riverenza
    era de' duci quel silenzio; e l'armi
    di varia guisa, di che gìan vestiti
    tutti in ischiera, li cingean di lampi.
    Ma simiglianti i Teucri a numeroso
    gregge che dentro il pecoril di ricco
    padron, nell'ora che si spreme il latte,
    s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli
    rispondono belando alla dirotta;
    così per l'ampio esercito un confuso
    mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno
    era di tutti il grido né la voce,
    ma di lingue un mistìo, sendo una gente
    da più parti raccolta. A questi Marte,
    a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
    lo Spavento e la Fuga, e del crudele
    Marte suora e compagna la Contesa
    insazïabilmente furibonda,
    che da principio piccola si leva,
    poi mette il capo tra le stelle, e immensa
    passeggia su la terra. Essa per mezzo
    alle turbe scorrendo, e de' mortali
    addoppiando gli affanni, in ambedue
    le bande sparse una rabbiosa lite.
    Poiché l'un campo e l'altro in un sol luogo
    convenne, e si scontrâr l'aste e gli scudi,
    e il furor de' guerrieri, scintillanti
    ne' risonanti usberghi, e delle colme
    targhe già il cozzo si sentìa, levossi
    un orrendo tumulto. Iva confuso
    col gemer degli uccisi il vanto e il grido
    degli uccisori, e il suol sangue correa.
    Qual due torrenti che di largo sbocco
    devolvonsi dai monti, e nella valle
    per lo concavo sen d'una vorago
    confondono le gonfie onde veloci:
    n'ode il fragor da lungi in cima al balzo
    l'atterrito pastor: tal dai commisti
    eserciti sorgea fracasso e tema.
    Primo Antiloco uccise un valoroso
    Teucro, alle mani nelle prime file,
    il Taliside Echèpolo, il ferendo
    nel cono del chiomato elmo: s'infisse
    la ferrea punta nella fronte, e l'osso
    trapanò: s'abbuiâr gli occhi al meschino,
    che strepitoso cadde come torre.
    Ghermì pe' piedi quel caduto il prence
    de' magnanimi Abanti Elefenorre
    figliuol di Calcodonte, e desïoso
    di spogliarlo dell'armi, lo traea
    fuor della mischia: ma fallì la brama;
    ché mentre il morto ei dietro si strascina,
    Agenore il sorprende, e a lui che curvo
    offrìa nudati di pavese i fianchi,
    tale un colpo assestò, che gli disciolse
    le forze, e l'alma abbandonollo. Allora
    tra i Troiani e gli Achei surse una fiera
    zuffa sovr'esso: s'affrontâr quai lupi,
    e in mutua strage si metteano a morte.
    Qui fu che Aiace Telamonio il figlio
    d'Antemion percosse il giovinetto
    Simoesio, cui scesa dall'Idee
    cime la madre partorì sul margo
    del Simoenta, un giorno ivi venuta
    co' genitori a visitar la greggia;
    e Simoesio lo nomâr dal fiume.
    Misero! Ché dei presi in educarlo
    dolci pensieri ai genitor diletti
    rendere il merto non poteo: la lancia
    d'Aiace il colse, e il viver suo fe' breve.
    Al primo scontro lo colpì nel petto
    su la destra mammella, e la ferrata
    punta pel tergo riuscir gli fece.
    Cadde il garzone nella polve a guisa
    di liscio pioppo su la sponda nato
    d'acquidosa palude: a lui de' rami
    già la pompa crescea, quando repente
    colla fulgida scure lo recise
    artefice di carri, e inaridire
    lungo la riva lo lasciò del fiume,
    onde poscia foggiarne di bel cocchio
    le volubili rote: così giacque
    l'Antemide trafitto Simoesio,
    e tale dispogliollo il grande Aiace.
    Contro Aiace l'acuta asta diresse
    d'infra le turbe allor di Priamo il figlio
    Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse
    nell'inguine il fedel d'Ulisse amico
    Leuco che già di Simoesio altrove
    traea la salma; e accanto al corpo esangue,
    che di man gli cadea, cadde egli pure.
    Forte adirato dell'ucciso amico
    si spinse Ulisse tra gl'innanzi, tutto
    scintillante di ferro, e più dappresso
    facendosi, e dintorno il guardo attento
    rivolgendo, librò l'asta lucente.
    Si misero a quell'atto in guardia i Teucri,
    e lo cansâr; ma quegli il telo a vôto
    non sospinse, e ferì Democoonte,
    Priamide bastardo che d'Abido
    con veloci puledre era venuto.
    A costui fulminò l'irato Ulisse
    nelle tempie la lancia; e trapassolle
    la ferrea punta. Tenebrârsi i lumi
    al trafitto che cadde fragoroso,
    e cupo gli tonâr l'armi sul petto.
    Rinculò de' Troiani, al suo cadere,
    la fronte, rinculò lo stesso Ettorre;
    dier gli Argivi alte grida, ed occupati
    i corpi uccisi, s'avanzâr di punta.
    Dalla rocca di Pergamo mirolli
    sdegnato Apollo, e rincorando i Teucri
    con gran voce gridò: Fermo tenete,
    valorosi Troiani, ed agli Achei
    non cedete l'onor di questa pugna,
    ché né pietra né ferro è la lor pelle
    da rintuzzar delle vostr'armi il taglio.
    Non combatte qui, no, della leggiadra
    Tétide il figlio: non temete; Achille
    stassi alle navi a digerir la bile.
    Così dall'alto della rocca il Dio
    terribile sclamò. Ma la feroce
    Palla, di Giove glorïosa figlia,
    discorrendo le file inanimava
    gli Achivi, ovunque li vedea rimessi.
    Qui la Parca allacciò l'Amarancìde
    Dïore. Un'aspra e quanto cape il pugno
    grossa pietra il percosse alla diritta
    tibia presso il tallone, e feritore
    fu l'Imbraside Piro che de' Traci
    condottiero dall'Eno era venuto.
    Franse ambidue li nervi e la caviglia
    l'improbo sasso, ed ei cadde supino
    nella sabbia, e mal vivo ambo le mani
    ai compagni stendea. Sopra gli corse
    il percussore, e l'asta in mezzo all'epa
    gli cacciò. Si versâr tutte per terra
    le intestina, e mortale ombra il coperse.
    All'irruente Piro allor l'Etòlo
    Toante si rivolge; e lui nel petto
    con la lancia ferendo alla mammella
    nel polmon gliela ficca. Indi appressato
    gliela sconficca dalla piaga; e in pugno
    stretta l'acuta spada glie l'immerse
    nella ventraia, e gli rapìo la vita;
    l'armi non già, ché intorno al morto Piro
    colle lungh'aste in pugno irti di ciuffi
    affollârsi i suoi Traci, e il chiaro Etòlo,
    benché grande e gagliardo, allontanaro
    sì che a forza respinto si ritrasse.
    Così l'uno appo l'altro nella polve
    giacquero i due campioni, il tracio duce,
    e il duce degli Epei. Dintorno a questi
    molt'altri prodi ritrovâr la morte.
    Chi da ferite illeso, e da Minerva
    per man guidato, e preservato il petto
    dal volar degli strali, avvolto in mezzo
    alla pugna si fosse, avrìa le forti
    opre stupito degli eroi, ché molti
    e Troiani ed Achivi nella polve
    giacquer proni e confusi in quel conflitto.
     
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    Allora la prima frase è "Dicevan così: Ettore grande,elmo abbagliante,scuoteva guardando indietro;e subito venne fuori la sorte di Paride"

    L'ultima "Egli si volse subito,impaziente di ucciderlo con la lancia di bronzo; ma lo sottrasse Afrodite,agevolmente,come una dea! e lo nascose in molta nebbia, e lo posò nel talamo odoroso di balsami"

    Quella che hai postato è già parafrasata? E di che autore è,di Monti?
     
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    Sì è del Monti!

    Non lo trovo :fg:
    C'è qualcosa che non va, sicuro che sia Illiade? Nel quarto carto non c'è mai la parola Ettore!
     
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    la traduzione eè di Rosa Calzecchi Onesti,e l'episodio in cui compare la parola è quando si deve sorteggiare chi per primo debba attaccare
     
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    ilcekoo grazie comunque,ma sono riuscito a farla comunque,non ti preoccupare
     
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